Più di un anno prima — eravamo sotto Natale, mi sembra — incontrandoci sul piazzale della chiesa, Lucia, la responsabile del Centro Disabili della nostra parrocchia, nonché amica e vicina di casa, mi aveva proposto — in tono esclamativo, non interrogativo — che una volta andata in pensione avrei potuto continuare quello che avevo fatto con i miei alunni a scuola per tanti anni, aiutando i suoi ragazzi a fare teatro “che a loro piace tanto!”.
Ecco che sedici mesi dopo se ne era ricordata! Io avevo da poco lasciato la scuola e, a parte la riscoperta del mio giardinetto, qualche giro per Roma e la pulitura degli argenti trascurati per anni, non avevo grandi impegni.
Così lei, la “tenace” (ma non rompiballe, perché è una persona dolcissima e disarmante) era tornata all’attacco. Ed è cominciata la mia avventura con i ragazzi del Gruppo Amici nella parrocchia di N.S. di Coromoto; è cominciata precisamente con una lettera a tutti i volontari del gruppo per chiedere (“per iscritto”, come aveva suggerito Lucia) collaborazione e disponibilità nei diversi settori operativi. In quell’occasione più di una decina di persone hanno firmato la loro condanna!
Dopo i primi momenti ondeggiavo tra la serenità dettata da una esperienza di teatro quasi trentennale con gli alunni delle superiori e delle medie (“che — mi dicevo — caspita, saranno pure serviti a qualcosa!”), e il timor panico del rapportarmi con i nuovi interlocutori, non alunni, non ragazzi, non “abili”. Ma si era all’inizio di maggio e l’ipotetica messa in scena per il carnevale successivo era abbastanza lontana da mantenermi quieta e quasi rasserenata fino a che non ho cominciato ad elencare le incognite fondamentali dell’operazione:
- X = gli interpreti;
- Y = i collaboratori;
- Z = il soggetto da rappresentare.
<
<
Io non conoscevo nessuno del gruppo! Così sono cominciate le lunghe telefonate e gli incontri con Lucia, in cui passavamo in rassegna nomi, caratteristiche dei ragazzi, tipo di handicap, reazioni; è iniziata la mia imbranata partecipazione alle attività del gruppo ai giochi, ai canti, alle merende, momenti comunque utili per farmi accettare e per conoscere con i miei occhi i ragazzi e le loro reali capacità: quello parla correttamente, quella ama la musica, quest’altro è intonato, quello non si regge in piedi a lungo, quello ha buona memoria, quella è irascibile…; ed è iniziata gradualmente anche la conoscenza dei volontari del lunedì, del mercoledì, del venerdì, molti entusiasti dell’iniziativa, alcuni disponibili, altri tiepidini, solo qualcuno glaciale. A poco a poco stavo risolvendo le prime due incognite. Rimaneva la terza: il soggetto.
A dir la verità avevo cominciato a pensare al testo molto prima di conoscere ragazzi e volontari, fin dalla prima proposta di Lucia, rispolverando vecchi copioni scritti o rielaborati per almeno trenta spettacoli scolastici realizzati da insegnante(non da professionista del teatro) e scegliendone alcuni che mi parevano ancora carini. Calcolavo che, quando fosse stato il momento, con un paio di giorni di lavoro tra tagli e modifiche qualcosa di abbordabile sarebbe uscito. Altro che due giorni! Anzitutto, conosciuti i ragazzi, nessuno dei testi ripescati andava bene perché troppo infantile o troppo complesso nella realizzazione o troppo ricercato nel linguaggio o, semplicemente, troppo parlato.
Infine, ecco il felice suggerimento di una mia amica ed ex-collega di avventure teatrali: riprendere un vecchio soggetto scritto insieme e già collaudato a scuola e costruire un testo non troppo impegnativo, facilmente adattabile per “ragazzi” dell’età media di trent’anni con punte superiori ai sessanta!
Così è nata “VILLA CAMOMILLA” una piccola storia su un gruppo di artisti ospiti in una casa di riposo, che rievocano antiche glorie personali con brevi numeri di canto, ballo, recitazione, legati dal filo dei ricordi e della nostalgia. Niente di nuovo, ma un buon punto di partenza, duttile, aperto a tutte le variazioni sul tema con finale tutto da inventare ma che immaginavo esplosivo! La proposta è piaciuta e così anche l’ultima incognita era risolta. Ormai — siamo a settembre — potevamo partire con le prove a tavolino. Ma in che modo distribuire i ruoli? Non so come ma a furia di consultarmi con i volontari, di dividere e moltiplicare battute e situazioni, alla fine la parte c’era quasi per tutti, almeno per i più assidui e si poteva cominciare a provare “cucendo” i personaggi addosso agli interpreti. Insomma lavoravo su un copione mobile…mobile come le famose sabbie. Intanto erano emersi i limiti di ogni ragazzo ed io ho dovuto limare battute, sostituire parole di difficile pronuncia, utilizzare “scenicamente” le loro caratteristiche: un certo modo di camminare e di gesticolare, una intonazione di voce o addirittura i silenzi; ho dovuto considerare la resistenza del ragazzo autistico a ogni contatto con altri interpreti o, viceversa, frenare il protagonismo di un altro, trovare spazio per chi non aveva voce e mettere la sordina a chi ne faceva esplodere troppa.
Ed ecco insostituibile la funzione dei volontari in scena accanto a ciascun ragazzo, a dare discretamente l’input per le battute o per i gesti, interventi quasi impercettibili che hanno consentito lo scorrere armonico della storia sulla scena e la sua preparazione dietro le quinte. Non li nomino ma li ho tutti nel cuore.
Comunque le prove erano decollate, con l’aiuto costante di questo bel gruppetto di collaboratori disposti a tutto: a lavorare nell’ombra o a giocarsi la faccia sul palco a fianco dei loro ragazzi come il nostro instancabile e diligente “attor giovane”.
Ricordo però una riunione ai primi di ottobre in cui ancora alcuni si chiedevano: “Ce la faremo a carnevale?” “I ragazzi non danno affidamento”, “Il tempo è poco, contando l’interruzione di Natale!”, “Il testo non sarà troppo difficile per loro?”. lo tacevo e pregavo.
Il lavoro stava comunque prendendo corpo e questo corpo era in grande agitazione. Dopo Natale si parte per la volata conclusiva in scena e fuori scena con i responsabile dei vari settori: con Bruna si cercano o si creano i costumi; con Nicola si ispezionano gli attrezzi di scena esistenti nel teatro parrocchiale e se ne costruiscono di nuovi; con un insperato aiuto esterno, si montano le musiche in sequenza; si provano e riprovano battute e movimenti. Tutto come in una vera compagnia teatrale, con i ragazzi sempre più elettrizzati, ma anche esposti a momenti di tensione e quindi un po’ più capricciosi e meno affidabili. Dovevamo stimolarli ma anche adattarci ai loro ritmi.
Ci vedevamo tre volte alla settimana e provavamo per un’ora, a volte un po’ di più a volte meno e nonostante gli imprevisti: l’influenza, la fisioterapia, le festicciole di compleanno, le piccole crisi…
A gennaio il risultato non è per nulla scontato e dopo la prima prova nella sala teatro, siamo ancora in alto mare. Però la locandina è già stata preparata dalla sezione artistica di Meme ed è pronta con la data fissata: 19 febbraio ore 17,00. Ormai siamo al punto di non ritorno.
I dubbi di alcuni volontari c’erano ancora ed erano legittimi, ma, oltre che in Lucia, avevo trovato un valido e battagliero aiuto in Paola che, forte e memore dell’esperienza teatrale di qualche anno prima — un emozionante “San Francesco” allestito in chiesa e preparato con gli stessi ragazzi — stava curando con Alfredo e la sua chitarra le parti cantate corali e non. Potevamo contare inoltre per nostra grande fortuna, su Piera, la maestra di ballo, che tutti i venerdì faceva muovere i ragazzi a ritmo di hully-gully e twist: per questo spettacolo abbiamo optato per una tarantella. E tarantella fu. E poi furono i ragazzi a dar più vita ai loro personaggi: fu “Pulcinella”/Carlo con un monologo dall’accento partenopeo già recitato una volta per noi durante una gita e che è stato inserito con qualche adattamento nel copione, e poi fu Massimo, il “ripetitore”, che poteva sfruttare il suo vocione tonante con effetto eco; e fu la “cameriera” Mirella che nonostante il passo incerto, riempiva la scena con la sua voce squillante; e poi ancora Paoletta, vivace “corista” ammantata di veli rosa sulla sua sedia a rotelle: e Lidia che, ancheggiando da “soubrette” tra lustrini e boa di struzzo ha fatto dimenticare la sua sordità e i suoi non più verdi anni; e le due Silvie e Rita e Annarita, quasi attrici consumate, pronte a tenere la scena con voce e gestualità, proprio come i volontar-attori; e Giuseppe e Giuliana e Tamara e Alessandro, austero presentatore e Cecilia e Adele e Manuela, riccioluti angioloni barocchi e Fabrizio che ha suonato la pianola pur non vedente.
È stato un successo e che gioia vedere quei ragazzi ridere felici tra gli applausi di tutti, abbracciati ai loro parenti anche loro felici e orgogliosi. E che rammarico non essere riuscita a dare a tutti questa soddisfazione, con una particina una parola, un gestoper cui il genitore o il fratello potesse dire: “Ecco anche il mio ragazzo, Antonio, Davide, Edoardo, Francesco, Gianluigi, Marco, Massimo, Nicki, Paolo…!”. Ma ogni risultato può essere rivisto e migliorato: questa è una sfida e le sfide aiutano a crescere.
Da questa esperienza nel Gruppo io sono uscita umanamente più ricca e il commento di uno spettatore esterno alla parrocchia “Ma in scena c’era solo gente normale!” è stato certamente il complimento più bello, bello ma sbagliato: in scena — e fuori — c’erano solo persone straordinarie!
Mara Martelli, 2007
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.92
Sommario
Editoriale
Campane a festa di M. Bertolini
Iperattività
Un bambino complicato di Daniele e Luigina
Cos'è l’iperattività cura di P. Stacconi
Come in trappola di Laura
Incontrarsi sul Dojo di M. Palermo e M. Di Luigi
Come far comportare bene mio figlio? di Cordula Neuhaus
Altri articoli
Questi bambini sono intoccabili di I. Casullo
Dialogo aperto
Sul tetto del mondo senza muovere un passo di M. Bartesaghi
Un «atto» di gioia... in prosa e altro di M. Martelli
Il dono più sincero è il dono di sé di N. R. Cortez
Libri
Elogio alla bruttezza, L. Freseura
Brutta!, C. Briscoe
L'amico speciale
La scoperta dell’alba, W. Veltroni
La stanza dell’orso e dell’ape, M. F. Celani e P. Miotto
Giochi per ridere - Recensione