Daniele

È pomeriggio, sono in una scuola materna nuova di zecca. Siamo attorno ad un tavolo per parlare di Daniele, un bambino di tre anni che ha appena iniziato la scuola materna. È un bambino grave (con una importante patologia motoria) che spesso piange e si lamenta. Appena la mamma inizia a parlare è un fiume in piena: ci racconta i suoi tre anni di vita con Daniele, le notti non dormite, i tanti tentativi di dare un nome e un senso a quel pianto, l’angoscia di non sapere che fare e di poterlo solo tenere in braccio: unico luogo, unico spazio, unico tempo dove il bambino ritrova un qualche benessere, una serenità. Non ci sono cose da dire, siamo lì per ascoltare e perché questa mamma trovi anche lei un luogo, uno spazio, un tempo dove essere presa, dove poter consegnare all’altro la propria storia, raccontare a se stessa per poter condividere frammenti di esperienza che sono vivi e doloranti dentro di lei…

A poco a poco iniziamo a parlare del futuro di Daniele. Ha iniziato la scuola e questo porterà dei cambiamenti, non sappiamo quali ma è l’irrompere di un pensiero che guarda ad un futuro diverso.

Dentro di noi ora Daniele ha un’immagine molto più chiara e nitida, è un insieme di flash: il Daniele che piange, il Daniele in braccio, alcune scene raccontate dalla madre…Il bambino che avevamo visto (io durante una fisioterapia, le insegnanti a scuola con la mamma) era un bambino che iniziava ad avere una storia anche dentro di noi. Alcune immagini che la mamma portava dentro di sé erano diventate anche nostre e il Daniele dentro di noi si era fatto più vivo, più vicino, più ricco e vibrante.

Dare un’identità all’altro

Per capire la profondità di questi cambiamenti è necessario riflettere su come la nostra identità è data non solo da quello che ci portiamo dentro (l’immagine di noi stessi, la nostra autostima, ciò che pensiamo dentro di noi) ma è formata anche dalle immagini che gli altri si portano dentro. Ci sono immagini che gli altri hanno di noi che magari non ci appartengono, non fanno parte della nostra memoria, eppure sono fondamentali e definiscono aspetti importanti del nostro modo di essere.

Parlo dei miei figli, così posso essere più chiaro. Ho assistito, con fatica, alla nascita dei miei figli e ho avuto l’opportunità di stare con loro la prima ora della loro vita. Giovanni, che è nato quasi sottovoce, dormiva tranquillo. Marco, che ha urlato un sacco, la sua prima ora l’ha passata agitando braccia e gambe quasi volesse subito esplorare il nuovo mondo. E sono ancora così: Giovanni calmo, pacifico, Marco non sta seduto a mangiare più di due minuti. Giovanni e Marco hanno memoria della loro prima ora? No! Eppure è il primo momento della loro vita.

Può sembrare strano ma momenti così fondanti della nostra vita, il nostro primo pianto, i nostri primi passi, le prime parole…tutto questo non fa parte della nostra memoria ma appartiene alla memoria di un altro.

Il modo di ricordare gli altri influenzerà il nostro modo di rapportarci a loro. Se di una persona porto dentro un ricordo amaro il mio rapporto con lei sarà sempre dipendente da questa memoria. Se tengo dentro di me, con calore e tenerezza, certe immagini dell’altro, il mio rapporto con lui sarà di affetto e vicinanza. Non solo, ma gli darò una certa identità, data dal mio modo di vederlo, dall’immagine che serbo in me e questa identità dell’altro che tengo dentro costruirà anche la sua identità.

Questo diventa più comprensibile quando parliamo di soggetti gravi e gravissimi.

Quale identità ha un bambino grave?

Quale immagine di sé porta dentro? Un bambino grave come Daniele riconosce benissimo il modo che la mamma ha di tenerlo in braccio. E questo riconoscimento è una sua precisa identità. E così tanti momenti della vita quotidiana. Provate a cambiare modo di dare da mangiare ad un ragazzo grave. Ho in mente un nostro ragazzo che si chiama Sandro. Si rifiuterà. Piangerà. Si lamenterà. Ritorna la persona che lo conosce e tutto riprende. Questa è la sua identità. Siamo fatti di rapporti. Il nostro io è un insieme di io-con. Non importa se lui non ne ha memoria. La sua identità è anche quella che mi porto dentro.

Si ricordano i miei figli dei loro primi passi? Di questa conquista che li ha resi più autonomi ed esplorativi? Non ricordano nulla. Ma io ho come un film dentro di me: rivedo le ciliegie di Giovanni, la sua eccitazione, il desiderio enorme di mangiarle…ed ecco i suoi primi passi. È dentro di me questa parte della sua identità. Giovanni non ricorda nulla, né può ricordare nulla di questo episodio, eppure è dentro di lui, è un’esperienza fondamentale che ha cambiato la sua vita ma la memoria, la rappresentazione di questo passaggio appartiene ad altri, a coloro che gli erano vicini in quel momento.

Così nel bambino grave. Lui ha un’identità che è data anche dal mio modo di rapportarmi con lui; ha dentro di sé esperienze e pensieri di cui forse non è consapevole ma che porto io (io-genitore, iooperatore, io-insegnante) dentro di me.

Allora questo ci porta a dire che dentro di noi abbiamo, vivono, si sviluppano e crescono le identità di altre persone, soprattutto di quelle con le quali condividiamo pezzi di strada e di tempo insieme.

Allora cosa significa prendersi cura delle identità che ci portiamo dentro?

Arricchire continuamente l’immagine che mi porto dentro dell’altro

Arricchire vuol dire non solo far tesoro delle proprie esperienze con l’altro ma anche, e soprattutto, ascoltare i racconti degli altri. In primis l’ascolto del genitore. Abbiamo bisogno di tanti racconti del genitore, del quotidiano, delle impressioni, dei desideri e delle aspettative, del passato e del futuro.

Non è mai abbastanza il tempo che diamo ai genitori. Poi vi è il racconto tra operatori. In questo senso le nostre sintesi tra operatori, gli incontri con gli insegnanti, tutto diventa prezioso per coltivare l’identità dell’altro. È fondamentale, allora, dare uno spazio e un tempo a questo. È un modo essenziale per prenderci cura della persona: raccontarla ad altri ed ascoltare gli altri che ci parlano di lui. Comunicare, infatti, è ciò che ci permette di coltivare l’identità nostra e della persona che seguiamo. Per questo crea ben-essere. Inoltre questo ci porta ad essere attenti a quell’insieme di compiti sanitari che fanno sentire “pensata” la persona e la sua famiglia. La cura ad esempio per le visite periodiche, l’attenzione agli incontri con gli insegnanti, le sintesi.

Raccontare ai genitori

Quando parlo con i genitori dei bambini che seguo in terapia racconto sempre qualcosa delle sedute, un episodio, una frase, un gioco particolare…dare ai genitori un’immagine diversa, una nuova identità passa proprio attraverso questo: cosa succede nell’io-con, cosa succede tra me e il bambino? E per questo che i genitori hanno così fame di questi racconti. Cosa ha fatto oggi? Come è andata? Che giornata è stata? Sempre la stessa domanda per chiedere “raccontami qualcosa, vivifica l’immagine del bambino che ho dentro, fammela vibrare, aggiungi qualcosa, parlami di lui”. E questo che importa ad un genitore: sentire che ce l’abbiamo dentro, che abbiamo un io-con, che abbiamo vissuto qualcosa con lui. Allora anche dire una sciocchezza “oggi l’ho sentito tossire di più, oggi aveva una giornata strana, ma sa che quando ci si mette è proprio…” Non importa cosa diciamo, ma è il modo in cui ne parliamo, è il desiderio di condividere episodi, domande, perplessità, è tenere viva l’identità del bambino, della persona che seguo. È come quando sentiamo degli amici parlare dei nostri figli: beviamo assetati quelle immagini perché sono nuove per noi.

Tenere viva l’identità

Se accettiamo questa lettura dell’identità come qualcosa che è data dall’intrecciarsi di immagini appartenenti a noi e immagini appartenenti all’altro, il nostro ruolo come adulti, come operatori non è solo di seguire in qualche modo il bambino, la persona adulta ma è quello anche di costruirne l’identità. Siamo formatori dell’identità dell’altro. Pensiamo ad esempio ai bambini con problemi comportamentali: alcune educatrici sanno creare un feeling tale che non solo i problemi si riducono ma anche il ragazzo acquista una nuova identità e vive un nuovo modo di essere. Così nel grave. La sua identità dipenderà molto dalle attività che faremo insieme, dal modo di stare insieme, da tutto ciò che abbiamo chiamato io-con. Questo non sempre è facile, soprattutto nella gravità. Chiede una condivisa “funzione predittiva”.

La funzione predittiva è una delle tante funzioni genitoriali che permette al genitore di intuire ciò che rappresenta la tappa successiva per il proprio figlio. Spesso nei genitori di bambini diversamente abili questa funzione va in tilt: il genitore non sa più che fare, come tenerlo, cosa proporre… A volte anche noi operatori andiamo in tilt rispetto ad alcuni bambini e abbiamo bisogno di ritrovare la nostra funzione predittiva, cioè la nostra capacità di cambiare in relazione al bambino.

Tenere viva l’identità è tenere “vivo” il bambino dentro di noi: non è statico, non è immobile, può evolvere, ci può essere una tappa successiva, ho un orientamento verso cui muovermi, un senso del mio intervento. La funzione predittiva deve essere condivisa perché il tenere vivo richiede il comunicare. Non si può essere soli o lasciati soli. Le difficoltà terapeutiche vanno colte sempre con un’irruzione di imprevedibilità. Le nostre relazioni profonde sono un misto di ripetitività e imprevedibilità.

La ripetizione proviene dal bisogno di sicurezza. L’imprevedibilità ha la sua sorgente nel desiderio e nei sogni. E anche la terapia naviga tra questi due mari: la sicurezza e i suoi rituali, i desideri e tutta la loro creatività e dinamica.

Leggere i segni del tempo futuro

Don Giorgio Bonaccorso, un monaco benedettino, interpreta la frase evangelica “leggere i segni del tempo” come saper filtrare i segni del tempo passato e riuscire ad integrarli con i segni del tempo futuro che ognuno di noi si porta dentro. Quali sono i segni del tempo futuro? Sono le nostre speranze, i nostri investimenti, le aspettative: ciò che collochiamo in un tempo futuro lascia il segno e rende movimentato il nostro presente. Quando i bambini o i ragazzi che seguo cominciano a parlarmi del futuro, dei loro sogni, io capisco che siamo alla fine del percorso terapeutico: saper leggere i segni del tempo futuro dentro di sé è una delle competenze relazionali più evolute. In certi bambini, in certe situazioni è però così difficile leggere il segno del tempo futuro… A volte ci chiediamo cosa cambierà e i genitori spesso ci riportano l’angoscia del futuro: è come se il futuro dei loro figli lasciasse un segno di vuoto, un segno di dolore tale per cui non diventa più pensabile. Portare dentro è prenderci cura di questo futuro e condividere con i genitori l’incertezza, l’insicurezza… A volte è proprio questo nonsapere a darci l’attenzione profonda al presente. Se so già tutto, so per certo come sarà questo bambino, ho già incasellato tutta la relazione con lui in uno schema rigido e soffocante, per me e per lui. Identità come statue di sale, immobili. L’insicurezza almeno mantiene aperte delle domande, mi pone di fronte al genitore non come mago che sa prevedere il futuro remoto, ma come compagno di strada e di cammino con il quale portare insieme il peso dell’incertezza “dei segni del futuro”.

Accogliere il pensiero magico e il dolore

Emma è una bambina con grave patologia motoria, grave ipovisione, grave ritardo mentale. Per i genitori legge, risponde a domande difficili. È l’emergere del pensiero magico. Pensiero figlio della sofferenza. Quindici giorni fa ho rivisto un ragazzo, Antonio, con una grave tetraplegia spastica, problemi respiratori, epilessia e grave ritardo mentale. Cercavo di svegliarlo perché si era addormentato e mentre lo stimolavo guardavo quel suo volto da tredicenne, il ciuffo dei capelli, le guance belle rosse, gli occhi (nei momenti in cui si guardava attorno per capire cosa stava succedendo) verde chiaro molto belli… e me lo vedevo camminare, giocare a basket, parlare, come spesso mi racconta la mamma: “ogni tanto mi piace immaginarlo così”… E così tanti sogni riportati dai genitori … “sa, dottore, ho sognato che si era alzato da solo e che faceva tutte le cose in modo normale, come non ci fosse stato mai niente”, “non voglio che cammini ma almeno che parli, mi immagino sempre che inizia a parlare”. Io credo che non sappiamo cos’è il dolore quando giudichiamo come “patologiche” queste affermazioni (“non ho ancora accettato questo figlio”) se non addirittura ci ridiamo su. Non sappiamo cos’è il dolore. E come il dolore abbia bisogno continuamente di essere accarezzato da un balsamo. E talvolta è il pensiero magico che si fa balsamo. E talvolta sarebbe importante lasciarsi invadere anche noi operatori da immagini “trasognate” di come sarebbe il bambino, il ragazzo, l’adulto che ho di fronte. Il sogno ci fa entrare in contatto con tutto ciò che “non è”, con tutta l’assenza e un po’ quindi con il dolore, con ciò che sarebbe bello ma non è. È entrare, in punta di piedi, in questo spazio del dolore e comprendere le sue modalità di esprimersi. E allora, quando il papà di Cristiana che ha cinque anni ed ha appena iniziato a prendere gli oggetti in mano e portarli in bocca, racconta, durante un’incontro dell’équipe con gli insegnanti, con voce commossa: “Un dottore mi ha detto che non scriverà mai, io invece penso che scriverà” e mi chiede un parere, gli rispondo che intanto Cristiana ha iniziato a prendere le cose, ad essere interessata a ciò che la circonda e che siamo lì, insegnanti e operatori per fare il meglio per lei, ma è importante fare un passo alla volta. E riprendo tutte le cose che sono state dette sul “cosa fare”, adesso, con la bambina. Ma dentro di me tengo con cura questo sogno, perché dice tutto il dolore di questo papà, che ogni sera, ci racconta, quando torna a casa dal lavoro si prende Cristiana a cavallina e ci gioca fino a farla ridere a crepapelle. Forse, quando gioca con la figlia, dentro al papà ci sarà l’immagine che Cristiana un giorno leggerà. Per noi operatori è un “segno del tempo futuro” sbagliato e fuorviante. Ma pensiamo veramente che il papà non sappia che questo sarà impossibile? Non lo avrebbe raccontato quasi piangendo. Lo sa che Cristiana non scriverà mai. Ma sa che per farla ridere a crepapelle ha bisogno di sognarlo, di immaginare il futuro della figlia come un futuro felice, pieno di cose belle. E allora anche il presente può essere magico. Cristiana, che da poco ha iniziato a mettere in bocca le cose, quando arriva papà gli corre incontro e lui se la prende e non è contento finché la figlia non ride. E così, insieme, costruiscono il futuro l’uno dell’altro.

Portare ed essere portati

Vi è sempre reciprocità tra portare ed essere portati, anzitutto come intrecci di identità. Come operatore costruisco l’identità del bambino ma anche il bambino costruisce la mia identità, partecipa ai miei essere-con. Inoltre vi è una reciprocità data dalla mia capacità di portare e coltivare identità altrui dentro di me, che è direttamente proporzionale al mio sentirmi portato da qualcuno. Se ho l’idea che nessuno mi porta dentro di sé ho bisogno di costruire muri, corde che mi tengano fermo ed immobile, strutture, di pensieri e di affetti, rigide che mi tengano in piedi. Come si vedono subito le persone che non si sentono portate da nessuno!

Infine vi è una reciprocità data dall’ambiente sociale nel quale lavoriamo. L’attenzione alle persone che ci vengono affidate richiede un ambiente di lavoro sereno e che si prenda cura dei suoi operatori. I responsabili delle strutture hanno un compito fondamentale dato dal creare un clima di lavoro positivo in cui ogni persona, ogni operatore, sia tenuto, sia valorizzato, sia sostenuto. L’operatore che porta dentro di sé i bambini e i loro genitori ha bisogno di responsabili attenti, capaci di offrire l’ambiente di lavoro più sereno e valorizzante possibile. Ecco. “Portare dentro di sé il benessere dei propri operatori”: questo è l’entroterra che contribuisce a creare un clima favorevole al farsi carico dei bambini e delle famiglie che ci vengono affidate. Essere portati dentro da qualcuno: che meraviglia’essere portati dentro da qualcuno: è questo il messaggio che le persone di cui ci prendiamo cura si aspettano da noi. Perché forse questo è il senso della meraviglia: che non apparteniamo solo a noi stessi, ma la nostra vita, la nostra stessa identità crescono dentro di noi e crescono anche dentro altri. Possiamo dire che siamo fatti di altri. Ed è questo che ci rende tutti, ma proprio tutti, così pieni di infinito.

Tratto dal Notiziario di informazione “La Nostra Famiglia” (1/07)

Parlami di lui: l’importanza del raccontare gli altri e del raccontarsi agli altri ultima modifica: 2007-09-09T15:32:47+00:00 da Gianluigi Visentini

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