“Passando Gesù, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco?”
Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”
(Gv, IX 3)
Abbiamo a che fare qui con una risposta nuova data da Gesù ad una domanda angosciosa e antica. La risposta è nuova
ma la domanda è antica. La domanda è talmente antica che rimane ancora e ritorna, perché è antica la sofferenza uma-
na di genitori che hanno un figlio che fin dalla nascita o molto presto è entrato in gravi difficoltà.
La domanda: chi? Come? Perché? Da dove la causa? mette in rapporto la malattia di un innocente con un qualche peccato precedente o colpa o con una responsabilità di qualcuno prima di lui, domanda che come risulta dallo stesso brano — viene espressa successivamente, quando i farisei chiamano l’uomo che era stato cieco e gli chiedono: “Ma chi è Gesù? È un peccatore? Devi dire che è un peccatore…” lui dice: “No, non è vero, perché mi ha aperto gli occhi!” E allora lo insultano dicendo: “Tu sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi!” Questo “sei nato nei peccati” si riferisce al suo essere nato appunto in una disgrazia. E fa vedere dunque come sia istintiva in questa religiosità antica la connessione della disgrazia col peccato, con una colpa o con una qualche responsabilità.
“Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero le opere di Dio”.
Da quale sofferenza nasce questa domanda, così angosciosa, così antica eppure così ancora risorgente istintivamente? Nasce anzitutto dal grande legame affettivo verso il ragazzo, la figlia che soffrono. Nasce da un profondissimo amore caricato ancor più dalla situazione difficile di chi convive ogni giorno con la paura di non farcela, con un’avventura di relazione, di rapporto che è difficile spiegare agli altri. Altra realtà da cui nasce questa sofferenza è la solitudine; si perde la voglia di comunicare, travolti da situazioni tanto aggrovigliate da indurre i genitori a chiudersi, ad indebolire la propria vita esterna., ritirandosi in un circuito più ristretto perché il figlio o la figlia in difficoltà seria, grave, finiscono per assorbire a tal punto le loro energie da divenire l’unica sorgente di relazione fino a far cadere tutte le altre relazioni importanti.
Allora nasce la domanda, magari repressa, magari non espressa, la domanda sulla colpa: ma perché, ma come? Ma per causa di chi? Qualche volta addirittura ci si chiede: ma quale colpa, quale sbaglio abbiamo compiuto, che male abbiamo fatto? La domanda diventa qualcosa che rode la coscienza e fa nascere un senso di colpevolezza che finisce per far diventare il rapporto un tormento. Questa sofferenza, di cui facciamo tante volte l’esperienza, diventa anche chiusura o rottura nei confronti della società espresse col lamento “la società…tante parole ma pochi fatti, ma nessun aiuto”.
Questo quadro così fosco ha una ragione psicologia, quella che S. Francesco di Sales chiama “l’inquietudine di essere inquietati”. Si vorrebbe stare tranquilli; però si perde la pazienza; ci si inquieta, si hanno sensi di colpa e ci si inquieta di averli, si rimane irritati contro se stessi. La situazione è certamente piuttosto oscura ma è quella che in un modo o nell’altro a molte persone capita di vivere senza essere in grado di comunicarla o spiegarla. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori ma è così perché si manifestassero le opere di Dio.” Queste parole contengono una parte negativa e una parte positiva: la prima esorta a mettere da parte come inutili e irrilevanti tutti i sentimenti di colpa o di responsabilità che gravano soltanto l’anima senza produrre nulla di buono. Gesù è molto netto, deciso su questo: non vuole negare che ci possa anche essere dimostrato scientificamente per motivi di vario tipo l’una o l’altra responsabilità. Però Gesù dice che un approccio del genere non giova. Gesù dice: “Né questo né quello”. Nessuna possibilità, nessuna ammissibilità per quel tipo di pensieri per la persona che voglia veramente sentirsi a posto e tranquilla davanti a Dio, che voglia trovare il cammino della Fede. Infatti sono pensieri, impressioni o sentimenti il cui esito è sempre negativo e che appesantiscono e lasciano perplessi o incerti. Penso che questa esperienza sulla quale dovremo tutti esaminarci sia molto importante: esperienza che tanti di voi vivono a livelli molto acuti e che però in qualche maniera tocca tanti di noi. Quante volte ci lasciamo attrarre da pensieri che ci appesantiscono e che non risolvono nessuna delle nostre situazioni ma che le rendono soltanto più pesanti e oscure. Non hanno ragione di essere, dice Gesù, non hanno ragionevolezza. Dio vuole altre cose da noi. Che cosa? Ecco allora la parte positiva della parola di Gesù.
“Ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”. Gesù evita di rispondere quanto alle cause. Gesù ha detto: “Né lui né i suoi genitori”. Gesù non entra nella causa, ma sposta tutto il ragionamento sul fine. Che cosa ha da venir fuori da questo? Che cosa ha da nascere? Quale disegno di Dio ha da manifestarsi? Naturalmente voi direte, bella forza: siccome qui questo cieco nato deve essere guarito, il disegno di Dio è il miracolo. Se fosse sempre così, saremmo tutti d’accordo, la soluzione sarebbe già pronta.
Ecco, domandiamoci: le parole di Gesù: “ma perché si manifestassero in lui le opere di Dio” sono parole che hanno valore solo in questo caso in cui c’è un miracolo e allora la situazione cambia in modo così straordinario, oppure non hanno nella vostra esperienza e soprattutto nell’esperienza di Fede e Luce, un valore proprio? Non è forse lungo il vostro cammino comune che si manifestano nei vostri figlioli misteriose opere di Dio cui siamo adagio adagio stupefatti testimoni? Così mi pare che Gesù ci inviti a rileggere questa parola.
Ne do solo qualche esempio che traggo da voi, dalla vostra esperienza, dalla vostra vita e da ciò che posso sapere o capire, che avviene o che sta avvenendo.
Penso, ad esempio alla incapacità di chi ha gravi handicap di mettersi in rapporto con gli altri. Quando la comunicazione è molto ridotta, quando è difficile capirsi e capire se si è capiti, si intravede quale grande dono essa sia, dono spesso sprecato ma del quale anche solo un briciolo ha un valore immenso. Dalla difficoltà a farsi capire si ha allora una testimonianza di amore creativo, capace di superare barriere ed ostacoli giudicati insuperabili e che ha, nella nostra società, fin troppo rumorosa un valore straordinario e che costituisce, come io penso, un dono immenso per la stessa chiesa.
L’amore stabilisce una relazione così profonda da moltiplicare e far scoprire sempre nuovi modi di comunicazione fatta di attesa, di tenacia, di perseveranza, di dono di vita: per questo la tentazione dell’isolamento è una tentazione che voi genitori rifiutate e che va rifiutata.
Le parole di Gesù “Né lui né i suoi genitori hanno peccato”, ci dicono che per Lui isolarsi, ritirarsi, ripiegarsi su di sé non ha senso. Farlo è una tentazione gravissima. Mentre il coraggio di coinvolgere gli altri a condividere le proprie sofferenze è un dono che viene fatto all’umanità. Per Gesù chiedersi: “Chi ha peccato…?” equivale ad un rinchiudersi, ad un isolarsi dagli altri per lo sconforto, senza raggiungere nessun esito positivo.
“Perché si manifestassero in lui le opere di Dio”, cioè proprio nella persona che per i suoi limiti sembra non saperle esprimere se non in forma molto modesta. Il modo di esprimersi dei vostri figli, anche se appena percettibile, è carico di una dignità umana immensa. È perciò compito vostro e di tutti quelli che vi aiutano spezzare il loro isolamento e far riconoscere il valore della loro esistenza.
Avete dunque un compito umano e sociale estremamente grande. Ecco perché è assurdo vivere la vostra realtà con un senso di colpevolezza o di peso negativo: la via che state sperimentando, pur faticosamente, è invece — secondo la parola di Gesù — sentirsi responsabili in positivo per compiere il miracolo quotidiano del rispetto della dignità di chi porta in sé un misterioso disegno di Dio.
Lezione grande per la nostra società che di fronte ai “casi difficili” tende a segregarli o ad ignorarli, perché si sente colpevole o inadeguata a porvi rimedio.
Voi in Fede e Luce siete molto avanti in questo cammino, sapete benissimo che siete dei pionieri. Purtroppo ancora oggi i genitori vengono caricati di responsabilità eccessive e quindi, voi che vivete in questo movimento, avete una grande testimonianza da offrire; una responsabilità positiva consapevole dei propri limiti. Che si traduce in appello alla società per cui la persona disabile, psicotica, in situazioni molto difficili non è per nulla un segno di colpa o di responsabilità eventuale dei genitori ma è il segno della sofferenza che attraversa tutta la vita umana’‘e sociale che va affrontato nell’ottica di un cammino di redenzione e di riconciliazione.
Ecco perché è atteggiamento chiaramente sbagliato quello di chiudersi nei confronti della società; bisogna investirla coraggiosamente e dignitosamente dei propri problemi, delle proprie richieste. Nessuno può accettare di essere marginalizzato nel proprio dolore perché la dignità grandissima di esso va rispettata e affrontata anche dalla società. Non può bastare un po’ di pietà o di assistenza: bisogna arrivare al cuore delle progettazioni sociali ed economiche, per coinvolgere i responsabili delle istituzioni pubbliche. È questo un compito nel quale bisogna essere in molti. I più deboli vanno maggiormente difesi e sostenuti per cui si rende necessaria una programmazione anche nel campo del lavoro e dell’economia. La dimensione di generosità e di solidarietà che si esprime nel volontariato non può rappresentare una supplenza alle lacune delle scelte che la società deve compiere. Il cammino da fare nel campo sociale è ancora grande.
È proprio da un movimento come il vostro che possono venire stimoli interiori, forze educative e culturali suscettibili di influenzare tante altre persone al momento indifferenti. Non avvenga più che unicamente alla famiglia tocchi la soluzione di problemi troppo gravi. Così che si senta costretta al limite della sopravvivenza, sola nella quotidianità della convivenza con i casi più difficili da gestire.
Credo che in questo ambito abbiamo tutti un compito molto grande soprattutto come credenti e come comunità cristiane. lo sono convinto che tutte le nostre comunità debbano compiere una autentica conversione aprendosi all’accoglienza delle persone disabili di ogni tipo e delle loro famiglie secondo un progetto prioritario esigente e coinvolgente. Abbiamo cercato di attuarlo nella diocesi di Milano. Vedo però quanto sia difficile farlo comprendere alle parrocchie dove tuttavia questo impegno si traduce in una o in un’altra iniziativa, piccola o grande, ma occasionale. Invece tale conversione non dovrebbe portare soltanto a gesti di carità, ma dovrebbe comportare un coinvolgimento che cambi veramente i parametri dell’esistenza assumendo così anche un valore sociale immenso.
Mi pare che, pensando alla vostra esperienza, si comprenda in profondità il valore della frase evangelica “perché si manifestassero in lui”, nella sua cecità, quindi nella sua povertà, nella sua sofferenza, “le opere di Dio”.
Il vostro percorso di solidarietà, la vostra vicenda di genitori di Fede e Luce, vi porta ad avvertire quanto sia centrale il primato della vita concepita come dono, come accoglienza, come servizio, come solidarietà: realtà che, se rinnova la pesantezza, il dolore del presente, vi spinge a portare ad un mondo così inquieto come il nostro — incapace di darsi ragioni di vita di fronte a tante assurdità — la sorpresa della gioia, della vostra fede, radicata in una capacità di amore che trova forza e sorgente nel dono dello Spirito Santo.
Card. Carlo Maria Martini
Riduzione della conferenza tenuta dal Cardinale Martini ai genitori di persone disabili di Fede e Luce ad Assisi — Aprile 1986 pubblicata su Ombre e Luci anno 4° n. 2
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.100
Sommario
Editoriali
Una grande famiglia di M. Bertolini
Con tutto il cuore di M.H. Mathieu
Articoli
La grande famiglia
San Francesco, l'Arca e Fede e Luce di J.Vanier
Né lui né i suoi genitori di C. M. Martini
Dedicato alle namme e ai papà , di A. M. Cosmai
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