Ho vissuto
Ho vissuto il senso di stupore al primo impatto di una triste realtà che ci fa esclamare: ma perché proprio a me doveva capitare?
Ho vissuto il senso di rifiuto che ci fa lottare nella spesso purtroppo vana ricerca di un rimedio, quasi a voler cancellare con un colpo di spugna un incubo che ci tormenta.
Ho vissuto la rinunzia di una vita normale, di una libertà comune agli altri, degli amici e di una quiete a cui pensavamo aver diritto, che ci fanno dimenticare troppo spesso la sofferenza vera dei nostri cari.
Un senso di egoismo ci pervade, attaccati come siamo al mondo che ci circonda con le sue lusinghe di benessere che non ci portano ad accettare sacrifici e rinunzie.
Ci domandiamo se vale la pena vivere una vita così faticosa, abbandonati spesso dai nostri parenti, incompresi dagli amici, isolati dal resto del mondo.
La commiserazione dei nostri guai spesso ci benda gli occhi e non vediamo oltre il naso del nostro tornaconto.
Troppo spesso cerchiamo distrazioni che ci allontanino dai nostri gravosi compiti, a danno di chi tende le mani alla ricerca di affetto e protezione.
Non ci rendiamo conto di ricevere più di quanto umanamente possiamo dare.
I nostri compiti sono gravosi, la nostra è una vita di rinunzie, ma guardiamo i nostri figli che ci sorridono, guardiamo la gioia che i loro occhi sprigiona, guardiamo la gratitudine che ci riserbano.
Giuseppe Barluzzi
Getto il seme
La vostra rivista mi è diventata, piano piano, sempre più preziosa. Ne traggo conforto, una forma di “solidarietà”, consigli, confronti, libri consigliati che ho comperato…Grazie! Vi invio alcuni indirizzi di amiche che, come me, hanno figli diversabili. Molte di loro non sono credenti o, dicono, hanno perso la fede dopo aver avuto il loro figlio un po’ “difficile”…Ma io spero che la nostra rivista porti un po’ di luce nella loro vita. Uno “getta il seme”, poi sarà Qualcun altro che provvederà a farlo crescere…
Io ho un bimbo di 9 anni con un ritardo generalizzato dello sviluppo e iperattivo (una diagnosi un po’ imprecisa). Faccio parte, con queste mie amiche di un gruppo di auto-aiuto “Familiarizziamo” accompagnate da una psicologa e da un educatore, sovvenzionato dai servizi sociali del mio paese. È un’esperienza molto positiva ed è rivolta in particolare ai genitori e alle loro problematiche. Grazie di tutto.
Paola Testa Olivero
Sento che sto crescendo
Io nella mia vita ho partecipato a tanti campi di Fede e Luce.
Dove ho conosciuto tante persone, che sono diventate amiche, con il tempo.
Il posto cambia ogni volta, così come chi sta, nella nostra abitazione.
Ci sono cose che non sopporto come la sveglia, perché io sono abituato così con un altro orario.
Ed altre, che io sono entusiasta di partecipare; come le attività e i canti, mi piace stare con tutti, con alcuni ci parlo, con altri no.
Per mancanza di argomenti da parlare; la cosa che non mi piace è quando ci si perde di vista.
E non ci si incontra più, per tanto tempo.
lo sono contento, se io risulto simpatico, anche senza dire battute ironiche, io, rispetto mio fratello Ernesto, sono normale, ho fatto grandi progressi nel lavoro.
E con gli altri sono attivo, e di compagnia, capisco ogni stato d’animo.
Poi io vorrei avere un ruolo, cioè essere considerato grande, non soltanto di età, è quasi 37.
Ma soprattutto perché ci potrei riuscire, ad esser pari a tutti i ragazzi.
Come modo di fare, e adesso sento che sto crescendo, ed ho l’impressione di aver vissuto ogni momento, rimanendo solo un ricordo passato. Sono sicuro che non deluderò nessuno se mi diano la loro fiducia.
Ciao da Giovanni Grossi
Quando c’era lui in casa
Io mi chiamo Emanuele Manfucci e sono il fratello di Daniele, un ragazzo disabile.
Quando io sono a casa, o quando torno da scuola, lui mi viene sempre incontro e mi saluta ogni volta con un sorriso molto dolce e mandandomi tantissimi bacetti.
Mamma dice che è perchè lui è un maschio e io anche quindi per lui sono come una specie di punto di riferimento. E secondo me ha ragione.
Devo essere molto sincero: a volte di Daniele è come se non me ne importasse niente e in questo atteggiamento devo molto migliorare.
Le giornate che noi passiamo insieme siamo tutti molto contenti che Daniele ci sia in casa. Ma adesso non più tanto: ora che è in ospedale non possiamo quasi più vederlo; soltanto quando passiamo a trovarlo al Bambin Gesù fuori Roma. Quando c’è lui in casa è come se trasmettesse tanta gioia e allegria. lo, infine, vorrei dire che per me Daniele è come una fonte di amore il cui fondo non esiste.
Emanuele Manfucci
Il miglior biglietto da visita
Dopo poco tempo da quando ero diventato parroco avvertii l’esigenza che la parrocchia ponesse piccoli ma concreti segni di amore nel quartiere dove vive. Mi era chiaro infatti fin da allora che l’annuncio del vangelo ha bisogno di essere accompagnato da concreti e visibili gesti d’amore che, per un verso ne garantiscano la credibilità, per un altro mettano in evidenza le conseguenze del processo di liberazione innescato da Gesù Cristo.
Mi era parso di capire che il quartiere offriva un ampio bacino di potenziale collaborazione, che aveva solo bisogno di essere stimolata, animata e orientata.
Mi rivolsi a un gruppo di giovani signore che disponevano di un po’ di tempo e di tanta buona volontà.
Ci siamo guardati insieme d’intorno e ci è parso di riscontrare che molte persone con disagi di carattere mentale, sia psichiatrico che neurologico, vivessero piuttosto isolate nelle loro abitazioni, senza stimoli né proposte, senza nessuna comprensione o sostegno nei confronti delle loro famiglie. Abbiamo pensato che potevamo tentare di fare qualcosa in questo settore. Abbiamo cominciato con due-tre casi e in tempo relativamente breve sono venute allo scoperto diverse decine di amici che hanno trovato nella nostra parrocchia un punto di riferimento e di accoglienza.
La comunità parrocchiale ha risposto molto bene e a poco a poco circa ottanta persone si sono affiancate al piccolo gruppo di partenza, dando vita ad un’attività regolare e permanente.
Adesso il gruppo si ritrova tre pomeriggi alla settimana, più alcuni fine settimana completi durante l’anno. La parrocchia lo sente come uno dei doni più belli che il Signore le ha fatto perché ci ha sicuramente fatti crescere nella capacità di amare e nella scoperta di insospettabili ricchezze disseminate dal Signore anche dove umanamente non si penserebbe mai di poterle trovare.
Ormai l’attività va avanti da una quindicina d’anni. Ci siamo dati un abbozzo di struttura di coordinamento familiare e funzionale. Nel nostro piccolo pensiamo di aver maturato quel minimo di esperienza che già ci permette al nostro interno un travaso di nozioni e di metodi, anche se non perdiamo occasione per chieder momenti di verifica e di stimolo anche da esperti esterni.
I programmi non sono improvvisati o banali ma sempre pensati e proposti in vista di obiettivi che coinvolgano tutti gli amici partecipanti e permettano a ciascuno di collaborare secondo le proprie capacità.
Questa attività si svolge nell’ambiente più bello, più arioso e più luminoso della parrocchia e ne rappresenta il suo miglior biglietto da visita in quanto si trova strettamente collegato agli uffici, alla sacrestia, alla chiesa parrocchiale e all’oratorio.
Ormai per chi abita nel quartiere l’immagine della parrocchia è indissociabile dagli amici che si sa di trovare di pomeriggio e che la manifestano come la casa di Dio dove tutti i suoi figli, incontrando Lui e incontrandosi fra loro, possono cominciare a ritrovare se stessi.
Don Romano Rossi, Roma Parrocchia di N.S. di Coromoto
Cogliamo l’occasione per inviare i nostri più sinceri auguri a Don Romano recentemente nominato Vescovo della Diocesi di Civitacastellana, con la speranza che continui a essere teso all’accoglienza dei più piccoli nel nome di Gesù.
La guerra dei 40 anni
Sono una delle lettrici di Ombre e Luci più vecchie, dal 1983…Ho allora ripensato alle date: ho ormai 81 anni (li compirò tra due mesi), mio marito ne ha due di più (siamo sposati dal 1951), la nostra unica figlia Laura (cerebrolesa gravissima dalla nascita ) è ormai una “birbona” 48enne. Da questi numeri si può capire tutto.
Veniamo dagli anni bui, dagli anni oscuri, dalle “ombre”. Mi sentivo solo dire: “Non pianga signora, tanto sua figlia vivrà poco…al massimo arriverà a 12, 15 anni. Non rovini la vita sua e di suo marito. La metta al Santa Maria della Pietà, la metta qui, la metta là”. Andavamo, mio marito ed io, silenziosi, in giro a vedere questi luoghi consigliati. Tornavamo a casa sconvolti. Pensavo: “per forza muoiono tutti presto…”
Passavano gli anni, sempre più difficili. Incontravo genitori sempre più soli e disperati. C’era in giro una grande ignoranza: la gente si scostava quando passavano le seggioline a ruote con i nostri bambini perché avevano paura che attaccassero malattie infettive.
Negli anni °60 finalmente ci unimmo in un piccolo gruppo di mamme ben determinate. Nel 1979 abbiamo dato vita ufficiale alla nostra U.F.H.A. (Unione Famiglie Handicappate).
È stata una lunga guerra (come possiamo chiamarla? La guerra dei 40 anni?); nei decenni molte sono state le battaglie rò grandi perché ci hanno permesso di vivere la modesta vita che tutte le famiglie con figli handicappati vivono oggi. Un vecchio proverbio toscano dice: “col poco si campa, col niente si muore”. Ed eccoci all’incontro con voi, con la cara Mariangela, col grande Jean Vanier, con la vostra intelligente bontà. Vi ho amati subito perché vi ho sentiti fratelli(fratelli maggiori, più aperti e più saggi di noi).
Grazie carissimi, per quello che siete, per la comprensione, il conforto e il desiderio di aiutarci che avete sempre manifestato. Siete stati davvero una luce, mi avete aiutato per tanti anni e aiutate ancora tutti noi nella nostra solitudine, con la vostra piccola amata rivista. Con la vostra sensibilità avete vissuto e vivete i nostri problemi come noi genitori li viviamo. Ci capite, senza pietismi, con dolore, ma evidenziandone anche i lati positivi. In una società sempre più distratta, più dura e difficile i nostri figli sono una scuola di tenerezza, di amore, di impegno di vita. E voi lo avete ben capito, da sempre.
Cecilia Cattaneo
La chiave giusta
Sono Maria Novella, ho 29 anni ed ho una sorella gemella, cerebrolesa, che si chiama Flaminia. Facciamo parte di Fede e Luce da 25 anni, una vita!!!
Flaminia non parla, ma con gli sguardi dice di più che con mille parole; io mi squaglio quando mi guarda con dolcezza e mi terrorizzo quando mi lancia un occhiata di traverso, comincio a pensare se le ho fatto qualcosa che le ha dato fastidio o se, semplicemente, è la sua giornata no.
Come tutti i gemelli abbiamo un rapporto molto stretto; quando ero piccola non lo capivo tanto e se qualcuno mi chiedeva: “Ma voi siete come tutti i gemelli che si capiscono al volo?” io rispondevo sempre di si e poi mi chiedevo: “Come faccio a capirla, non parla!”.
Crescendo ho imparato che con lei non servono le parole ma solo gli sguardi, gli abbracci e attraverso questi riesco a farle sentire le mie sensazioni. Abbiamo un’altra sorella, Maria Giulia, di otto anni più piccola di noi, che ha reso il nostro rapporto più allegro e spontaneo; lei le fa gli scherzi, la imita teneramente, cosa che io non sono mai riuscita a fare.
Nella nostra vita ci sono stati momenti in cui, Flaminia ed io, siamo state lontane: quando mi sono iscritta all’Università di Arezzo, quando sono andata a vivere in Spagna per un anno. In queste occasioni non abbiamo risentito del distacco in quanto per me erano momenti difficili, in cui non riuscivo neanche a stare con Flaminia quindi penso che lei abbia vissuto quei momenti come una separazione transitoria perché sapeva, e sapevo, che alla fine sarei tornata a casa e saremmo state insieme. La nostra è una famiglia molto unita, siamo sempre stati insieme, io ho sempre vissuto a casa e per Flaminia questa era una certezza.
A luglio di quest’anno mi sono sposa: ta con Angelo, anche lui fa parte di Fede e Luce, e Flaminia ha un rapporto con lui fatto di sguardi e carezze e io non ne faccio parte. Durante i preparativi del matrimonio mi sono sempre chiesta come fare a coinvolgerla, e questo è stato per me un motivo di grande preoccupazione ma piano piano ci sono riuscita.
Quando parlavo del matrimonio cercavo di farlo con lei presente o quando veniva Angelo a casa, stavamo insieme a lei per farle capire che saremmo diventati una famiglia. Poi è arrivato il giorno del matrimonio, il giorno più bello ma anche il giorno del distacco vero da Flaminia. Prima che le nostre amiche, Silvia e Giulia, la venissero a prendere, per stare con lei e farle vivere questa giornata con gioia, mi chiedevo come avrei fatto senza di lei, senza vederla la mattina appena sveglia,quando ti guarda, ti sorride e si “stiracchia” e soprattutto senza poterla sentire e far sentire a lei la mia presenza. Pensavo che queste sensazioni le avrei provate solo io e non lei, invece mi sbagliavo. Al ritorno dalle vacanze Flaminia non mi ha voluto vedere, mi ha mandato via. E inutile dire quanto io ci sia rimasta male da un lato, dall’altro mi sono rasserenata perché attraverso la sua ostilità ho capito quello che provava e che legame profondo abbiamo.
A questo punto Angelo mi è venuto in aiuto suggerendomi di prenderla a casa un week-end. E’stato bellissimo, Flaminia mi stava sempre vicino, mi faceva le carezze, si accoccolava e la sera…tutti e tre sul divano davanti alla televisione e lei…un po’ accoccolata a me e un po’ ad Angelo. Adesso quando la vado a trovare a casa, o viene lei da me, ci mettiamo sul letto e ci guardiamo a lungo…è bello, così noi facciamo le “chiacchiere”.
Come sempre per stabilire un contatto con Flaminia bisogna trovare la chiave giusta per arrivare al suo cuore. Anche io, ammetto di aver avuto momenti di sconforto, di cui ho avuto coscienza solo quando è cambiata la mia vita. Penso, però, che ora siamo entrambe consapevoli che il nostro rapporto è cambiato solo nella forma e non nella sostanza e sono molto contenta quando la vedo guardare Angelo con tenerezza; sono sicura che in lui non vede un ostacolo per la sua vita ma una persona che le vuole bene, capace di darle il calore e l’affetto cui lei è sempre molto sensibile.
Maria Novella
Sola, io e lei
Sono la mamma di Emanuela, ho accettato il vostro invito a mettere su carta ciò che ho vissuto e ciò che continuo a vivere.
Vi dico subito che la mia bambina è tutto per me: è la mia luce, il mio vivere. Per quello che riguarda la delusione non sono affatto delusa di lei, perché dovrei esserlo? Lei non vede, non parla, non cammina. E tutto questo cosa significa? C’è gente che vede, parla e cammina e poi, poi…basta, non ha vita, non vive, è vuota, arida, morta dentro, pur sembrando normale.
Mia figlia vive, è piena di vita, i suoi sorrisi, la sua grande espressione di felicità e dolcezza sprizza da ogni poro della pelle che copre quel piccolo corpo. Non mi sono mai posta il problema di amare mia figlia per quello che avrei voluto che fosse ma per quello che è.
Mi sono trovata da sola io e lei. Suo papà è andato via e noi due sole; bene, ma tutto ciò è durato poco, sono arrivati gli amici di F.L.
N.B. gli amici e i parenti sono spariti. Non mi importa: ho lei vera vita che ci insegna a vivere in questo mondo pieno di egoismo, di paure, di viltà, e lei, pur non avendo nulla, ha e dà tutto.
Qualcuno mi dirà che ciò è prettamente filosofico, che la mia risposta di madre a questa figlia è per alleggerire una situazione molto pesante, fuori dai canoni di vita normali. Ebbene io vi dico no! Amo mia figlia handicappata come la più cara bimba al mondo.
Grazia (Testimonianza data all’incontro di formazione nazionale di Fede e Luce a Santa Severa -RMnel novembre 2007)
Me stessa in gioco
L’esperienza con la comunità ha cambiato profondamente la mia vita.
Prima di incontrare Fede e Luce, ero una donna, apparentemente come tante altre, ma mi sentivo incompleta, per certi versi anche insicura ed avvertivo sin da allora l’esigenza di tirare fuori quella parte di me che da tempo era rimasta all’oscuro e che desiderava emergere. All’origine evidentemente vi era stata la mia infanzia. Essendomi venuta a mancare all’età di sette anni la madre, sin da quell’età mi ero addossata delle responsabilità che mi avevano fatto diventare grande subito e senza volerlo. Da sempre però avevo sentito vicino la presenza di Gesù che mi aveva portata in braccio.
Crescendo e comunque avvertendo questa insicurezza una cosa chiesi al Signore: di donarmi il coraggio di cambiare. La cosa bella fu proprio questa: lui fece in modo che io cambiassi non da sola ma che, in questo cammino, ci fossero con me altre persone che avrebbero potuto tirar fuori la parte più sincera, pura e spontanea. Ovviamente ciò avvenne in un momento inaspettato, quando ascoltai una messa animata dai ragazzi e dagli amici della comunità di cui adesso faccio parte. La loro spontaneità mi colpì dal primo istante. In effetti loro, sin dal primo momento, mi avevano accolta per quella che ero, con la mia insicurezza, il mio bisogno d’ affetto e la mia fragilità.
Finalmente ero riuscita a mettere in gioco me stessa, ad uscire dal mio guscio ed oggi, dopo essere cresciuta, il Signore mi ha chiamato ad essere responsabile della comunità per la seconda volta: nonostante le mie paure come potevo dire no a lui ed alla mia comunità che mi aveva dato cosi tanto. Fede e Luce è un’esperienza meravigliosa, peccato che non ci siano parole in grado di descriverla pienamente.
Enza Catalano
Incontrarsi in un noi e contagiarsi
Lavoro come educatore da più di undici anni e ho iniziato il mio ottavo anno in una giovane struttura diurna che accoglie ragazzi con grave disabilità nell’età dell’adolescenza…quell’età in cui ogni persona, ciascuno di noi, mette le basi del suo essere uomo, essere donna…quell’età in cui prende forma il “chi sono”. Non è facile esprimere, raccontare che cosa come educatore ho dato, ho potuto dare almeno a qualcuno dei ragazzi accolti…sarebbe un racconto che necessariamente dovrebbe passare attraverso una quotidianità che si fa vicinanza, attraverso una relazione che si costruisce giorno per giorno con pazienza, con la voglia di conoscersi, di comprendersi, di guardare al desiderio, al bisogno… Potrei raccontare di momenti, di sguardi, di sorrisi, di pianti, di urla… potrei raccontare di tempi e spazi di incontro, di esperienze…ma tutto passerebbe da quell’impercettibile ed inspiegabile momento che solo in una relazione, in un io che incontra un tu, può essere compresa nel suo mistero e nella sua bellezza più profonda…
Posso allora raccontare un desiderio, una ricerca, in un continuo lavorare su me stesso, che dà senso al mio essere educatore…il desiderio di vedere gli occhi, di chi incontro ogni giorno, brillare…di vedere il volto distendersi in un sorriso, di vedere il corpo sciogliersi dalle sue tensioni, di sentire…una parola, un grido, un suono…di avvertire la voglia e il desiderio di essere riconosciuto, guardato, compreso, capito, incoraggiato…di sentire che il ragazzo incontrato trova la sua modalità di espressione, il suo modo di relazionarsi e comunicare che è unico e di immensa bellezza e valore…
E allora potrei raccontare di sguardi, di volti, di gesti, di scambi, in cui nel miracolo dell’incontro due individui possono incontrasi in un noi e contagiarsi…
Questo è il mio desiderio, la mia ricerca…questo è il racconto di un incontro…il SUO Senso…
È in questa cornice che la mia professione si spende in tutto ciò che posso mettere in campo con competenza, con fatica, con sforzo, in un lavoro che non può essere solo mio ma di équipe, fatto di confronto, di analisi, di scambio, di attenzione, di ascolto di ogni piccolo e a volte non a prima vista riconoscibile desiderio di espressione di chi ho di fronte. Da qui il pensiero e l’avvio di spazi specifici, di laboratori, di attività…che devono partire da ciò che ognuno è ed esprime. Da qui il mettere a disposizione tutte le conoscenze e le competenze che con il tempo si acquisiscono per favorire il rilassamento, l’espressione, la voglia di comunicare e di essere parte. Tutto ciò può diventare strada per dare forma a quel “chi sono”, per migliorare la qualità dell’essere parte perché ciascuno possa sempre di più esprimersi, godere e determinarsi per alcuni pezzi ed ambiti della propria vita…
Certamente questo mio sguardo fonda senz’altro le sue radici nella mia appartenenza a Fede e Luce ma negli anni ho avuto l’occasione di scoprire che si può provenire anche da strade molto diverse, condividendo lo stesso desiderio di incontrare veramente l’uomo nel suo mistero più profondo.
Giovanni Vergani
L’unica rivista
Sono suor Daniela Maria, da 19 anni vivo nell’eremo Francescano di Campello sul Clitunno. Siamo rimaste in due e da poco con noi c’è una nuova sorella che comincia il suo cammino con noi.
Riceviamo Ombre e Luci dal 1984 e negli anni è l’unica rivista che abbiamo scelto di mantenere. Il nostro carisma consiste nella preghiera di intercessione che dedichiamo ai più sofferenti. Accogliamo anche chi vuole trascorrere del tempo in tranquillità per riflettere e pregare insieme. Alcuni momenti della nostra vita comunitaria vengono dedicati alla lettura di articoli che cerchiamo di scegliere facendo attenzione alle esigenze degli ospiti. Ricordo in modo particolare il numero dedicato all’autismo che è stato d’aiuto ad una donna che aveva un figlio con questo problema.
Da dieci anni viene a trovarci una volta l’anno la cooperativa “Il cerchio” di Spoleto. I ragazzi con disabilità della cooperativa sono ormai nostri amici e si prestano volentieri a lavori di manutenzione, come la cura del prato, pretesto per trascorrere una giornata insieme.
Da quattro a cinque figli
Immaginate la scena: sto leggendo sul divano godendomi un momento tranquillo della giornata; tutti e quattro i figli sono a scuola o all’asilo e per una mezz’oretta penso di godermi il mio libro in santa pace. Squilla il telefono (cosa che odio quando sto tentando di leggere) e durante la chiacchierata che ne segue scopro che potremmo presto, molto presto, diventare nuovamente genitori. Meno male che di questi “momenti tranquilli” nella vita ne capitano pochi.
Sì, perché è vero che una settimana prima abbiamo detto alla responsabile della Casa Famiglia che frequentiamo con gli Scout che se il piccolo Andrea avesse avurio il nostro farci avanti e per di più in tempi così brevi.
La vita a volte ci offre delle strane coincidenze: sei lì con le tue ragazze degli Scout a fare servizio in una casa famiglia per bambini disabili, arriva un bimbo nuovo, ne parli a casa, ci si dice “perché no?”, e due mesi dopo in casa non ci sono più quattro bambini ma cinque. Coincidenze bellissime, devo dire. Andrea allora era un bambino piccolissimo con una diagnosi ancora aperta e una cartella clinica piena di dati …e guai. Il Tribunale cercava per lui una famiglia numerosa che lo aiutasse ad affrontare le conseguenze di una nascita troppo precipitosa e decisamente complicata. Ricordo in particolare una delle frasi di quella famosa telefonata: ‘Abbiamo scoperto oggi che probabilmente è emiplegico.” Ed io: “Ma camminerà? Noi abbiamo una casa piena di scale” (frase che in realtà voleva dire: ” Aspetta un minuto, magari ci pensiamo un po’ meglio…”). “Io spero di sì, comunque non preoccuparti, anche se non cammina fino a dieci anni lo puoi portare in braccio”. No, figurati, che preoccupazione vuoi che sia…! Non è stata una decisione di getto, i sì e i no si sono alternati in noi un bel po’ di volte nei giorni seguenti. Tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il solito vasto mare e in fondo è giusto che sia così. Conoscevamo il mondo dell’handicap solo da volontari e decidere di far entrare il “problema” in casa nostra, di sceglierlo, non è stato immediato e a tratti neanche semplice. Però Andrea era innanzitutto un bambino che aveva bisogno di una famiglia e noi eravamo una famiglia con spazio, affetto ed energie sufficienti per occuparci di lui, e allora perché non dire di sì…?
Andrea ora ha due anni e mezzo ed è un bambino veramente bello: da giugno ha imparato a camminare e riesce a muovere ed utilizzare sempre meglio anche la mano. È una gioia vederlo crescere e conquistarsi giorno per giorno una sempre maggiore autonomia.
In questo nostro essere diventati genitori di un bimbo disabile c’è però qualcosa di eccezionale. Non nel senso che intende la gente, che spesso venendo a conoscere la nostra storia, e con un certo imbarazzo da parte nostra, ci esterna il proprio apprezzamento, ma perché nell’arrivo di Andrea ci è stato concesso un privilegio speciale: ci è stato permesso di scegliere questa situazione, privilegio che ad un genitore naturale non viene dato. Ci penso spesso. Da questo punto di vista la nostra strada è iniziata meno in salita.
La ricompensa più bella di questo anno e mezzo? La serenità di Andrea.
Il cambiamento maggiore in termini di lavoro? Non ridete: la quantità di bucati. Come per l’arrivo di ogni altro figlio, e non capisco il perché, i bucati non sono aumentati in proporzione, ma semplicemente raddoppiati: misteri della matematica casalinga.
Il rapporto con i fratelli? Ilaria, Lela, Giacomo e Adele sono i suoi maggiori fans e complici. Lo hanno accolto, tutto qui. E’ il loro fratellino: quando Andrea impara a fare qualcosa di nuovo fanno festa, quando non li lascia giocare in pace i giochi dei grandi cercano di sbolognarmelo, quando ho bisogno di un aiuto me lo danno volentieri. Sono contenti che sia arrivato anche lui.
Luisa Dinale
“Da quando è arrivato Andrea ho passato bei momenti; ma quelli che mi divertono di più sono quando le signore anziane fermano me, mamma e Andrea e dicono: “Ma che bel bambino, ha preso tutto dal fratello, si assomigliano un sacco.”
E intanto io mi metto a ridere dietro le spalle.”
Giacomo, 10 anni
“La cosa che ricordo con più gioia è quando Andrea voleva giocare con me a palla e per farmelo capire, invece di tirarmi i pantaloni come al solito, ha provato a dire il mio nome e, prova e riprova, ha detto “ie-ia” (Lela); mi ha davvero emozionato.”
Emanuela, 12 anni
Arrampica insieme
Ci sono alcune cose che mi divertono molto e mi fanno stare veramente bene. Per esempio mi piace stare in compagnia dei miei amici anche disabili, e mi piace arrampicare.
Queste due realtà però sono sempre state in qualche modo inconciliabili. Almeno fino al 20 ottobre scorso.
Quelli di Rock & Walls — una delle palestre di arrampicata più note di Roma, dove lavorano e si allenano atleti di primo piano — in collaborazione col Comitato Italiano Paraolimpico, “i Ragazzi dell’Opera Sante De Sanctis”, con il contributo del Comune di Roma, hanno organizzato ARRAMPICAINSIEME. E’’ stata la prima edizione di una manifestazione dove ragazzi con disabilità intellettiva e relazionale hanno gareggiato insieme ad arrampicatori più esperti in percorsi “boulder” (arrampicate slegati su brevi salite, per lo più strapiombanti, con materassi per le cadute).
L’evento si è svolto grazie all’ospitalità di Movimento Verticale, l’associazione sportiva che ci ha accolto nella nuova struttura del Parco della Madonnetta, all’Axa di Acilia a Roma.
Un’occasione imperdibile e ben riuscita. Una giornata all’aria aperta, che ricorderò a lungo. Non solo per il tempo — un venticello freddino che ha tenuto il cielo sgombro dalle nuvole. Non solo per la filosofia — ben simboleggiata nel logo ARRAMPICAINSIEME.
Ricorderò questa giornata per come è stata pensata e gestita.
Innanzi tutto è stata una vera e propria gara d’arrampicata, con le stesse regole delle gare ufficiali: c’erano i tracciatori delle vie, c’erano gli arbitri (arrampicatori di serie A), i punteggi, le qualificazioni e la finale. C’erano le medaglie e le magliette per tutti i partecipanti, c’erano le coppe e i premi per i migliori qualificati.
Ma è stata una gara diversa, perché questa volta non gareggiavano i singoli atleti, ma squadre, composte da coppie di partecipanti estratti a sorteggio fra i numerosi frequentatori della palestra e gli ospiti con disabilità venuti a trovarci.
Fra questi ultimi, alcuni non avevano mai arrampicato ma tutti praticavano sport con frequenza.
Mi hanno colpito in particolare l’intelligente attenzione degli organizzatori e l’agonismo degli ospiti. I primi hanno capito benissimo quando era opportuno derogare al regolamento per non guastare troppo la gioia dei partecipanti. I secondi si sono impegnati fino in fondo per superare le crescenti difficoltà delle vie. Così è successo che, considerata la differenza di pochissimi punti nelle eliminatorie, il podio finale è cresciuto dai soliti tre agli innovativi quattro posti. Così è successo che i nostri amici ospiti hanno insistito per ripetere più volte la stessa via, nel tempo prefissato, per vincere il passaggio più duro, la presa più sfuggente.
Bello il gioco di squadra. All’interno delle coppie si è creato presto un buon affiatamento. Si andava dai consigli più tecnici al tito appassionato; da qualche “sostegno” un po’ fuori regolamento (bravi gli arbitri a chiudere un occhio) alle risate insieme o al conforto, dopo una caduta.
Mi sono divertito a vedere che — ancora una volta — sono stati proprio gli amici con qualche difficoltà in più che non hanno avuto nessuna difficoltà a gareggiare in uno sport che viene ritenuto generalmente “difficile e pericoloso”. Macché, loro erano lì, come noi, a provare e riprovare. Che luce negli occhi quando riuscivano a chiudere il percorso! Era in qualche modo emblematico delle difficoltà affrontate nella vita.
E, col loro entusiasmo, hanno trascinato parenti, amici ed accompagnatori che — finita la gara — hanno anche loro voluto provare ad arrampicare.
Sì, è stata proprio una bella giornata. Non una gara “per”. Non una gara “di”. La mia prima gara d’arrampicata è stata una gara “con”.
Nanni
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.100
Sommario
Editoriali
Una grande famiglia di M. Bertolini
Con tutto il cuore di M.H. Mathieu
Articoli
La grande famiglia
San Francesco, l'Arca e Fede e Luce di J.Vanier
Né lui né i suoi genitori di C. M. Martini
Dedicato alle namme e ai papà , di A. M. Cosmai
E se Gesù ci scrivesse oggi...
Maria: storia illustrata
Alla scoperta della redazione di Ombre e Luci! di C. Ventura
...e non siamo soli! di C. Ventura
Ti ricordi di Nicole? di T. Cabras, N. Livi, M. Sluthes
Ammalati... di affetto di G. C. Zanon
Una redazione... in condominio di M. e G. Rossi
Noi, dei piani di sopra di O. Gammarelli