Cristina, giovane down di 33 anni, si fa suora. La Repubblica del 3 agosto scorso ne dà la notizia accompagnata dalla sua storia. Una frase dell’articolo mi ha fatto molto riflettere: “Quello che tutti, anche i , più diffidenti, finiscono per apprezzare in lei è l’equilibrio e la fiducia che riesce ad infondere in chi soffre”. Non è poco per una suora, e c’è da augurarsi che le suore e tutti noi con un giusto numero di cromosomi, riusciamo a fare altrettanto. Questa bella qualità di Cristina, non è solo sua, ma di molti suoi simili che, se pur catalogati troppo frettolosamente come “ritardati mentali”, possiedono una capacità in più rispetto a noi: sanno essere, senza rendersene conto, portatori di pace.
Rivado spesso con la mente, quando sono accanto a uno di loro che mi scuote per il suo atteggiamento di bontà, alla prima Beatitudine proclamata da Gesù: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”.
Quante volte sono ritornata su questa frase che i dotti interpretano a modo loro. Per mio conto preferisco consacrarla ai nostri amici che così spesso ci imbarazzano per la loro capacità di irradiare la pace.
Privi come sono di quelle convenzioni esteriori di cui noi ci fregiamo come di qualcosa di buono, loro sanno chiedere a persone sconosciute: “Perché sei triste? Che ti è successo?” lasciando smarrito l’interlocutore per l’inaspettata perspicacia. Loro sanno tacere rimanendo vicini, intimamente vicini, a qualcuno che soffre. Non usano le parole di consolazione così spesso poco consolanti; ma con un sorriso accattivante invitano a fare altrettanto, forse per quel confronto che scaturisce spontaneo: l’invito mi viene da te che potresti lamentarti della tua condizione e invece…
Loro sanno imporre — solo con lo sguardo carico di tenerezza e di fiducia — di smetterla di litigare scioccamente per cose da poco. Non sopportano le grida, gli insulti… A volte piangono sinceramente per quello che sono costretti a vedere e ad ascoltare. Chiedono con insistenza che si smetta, che si faccia la pace.
Loro non sanno di denari, di titoli, di poteri. Per chi li conosce da vicino, c’è a volte una sorta di imbarazzo quando salutano — come fanno i bimbi piccoli — con un “ciao!” pieno di simpatia la persona autorevole che li avvicina con quel tono un po’ melenso e carezzevole. “Come ti chiami?” E il vescovo interpellato non può che rispondere: “Francesco !”
Ricordo un giovane, Marco, di un centro dove era arrivata in visita una signora “importante” che doveva dare una valutazione sulla pedagogia e sulla riabilitazione che lì veniva attuata. Girava per le aule senza fermarsi, sorridendo in modo stereotipato, e distribuendo saluti superficiali a destra e a manca. A ispezione compiuta, la signora si avvia all’uscita. Marco mi segue e borbotta: “Signora ride ma non buona!”
Loro hanno infatti una capacità di penetrare nell’intimo delle persone che li avvicinano che noi non abbiamo. Le etichette che siamo abituati ad attaccare sugli altri, ci impediscono di andare dritti al cuore come sanno fare loro.
Tutto questo a qualcuno potrà sembrare bonomia nei loro confronti. Ad altri sembrerà edulcorazione del loro ritardo e delle loro effettive difficoltà.
Per capire questo dono autentico che è in molti di loro, riporto qualche frase di Jean Vanier che da loro è stato chiamato a farsi paladino e profeta delle potenzialità — nascoste ai più — dei disabili mentali.
“È stata la loro fiducia in me che mi ha ridato la fiducia in me stesso e nelle mie intuizioni e che ha fatto nascere in me il senso della responsabilità.”
“Vivendo con loro, a poco a poco, sono entrato in una nuova visione del mondo. Grazie a loro ho veramente iniziato a capire che il cammino della società moderna soffoca in breve tempo le potenzialità di compassione e di comunione per sviluppare quelle dell’aggressività, della competizione, del l’ambizione e per stimolare il desiderio di denaro, di benessere e di potenza.”
“Benché sotto certi aspetti siano meno capaci, i disabili intellettivi sono spesso dotati di un cuore semplice, amoroso e pieno di fiducia. Ci indicano la strada dell’amore piuttosto che quella del potere. Il loro grido non è tanto una richiesta di ammirazione, quanto di una relazione semplice e fedele.”
Che il nostro cuore si impegni a camminare sul loro esempio.
Mariangela Bertolini, 2006
Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.
Tutti gli articoli di Mariangela
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.95
Sommario
Editoriale
Irradiare la pace come fanno “loro” di M. Bertolini
Articoli
Se avessi ascoltato la mia disperazione?! di A. Manfucci
E ho ripensato tutto! di C. Vigli
Bambini e autismo: Mosaico della pace
Domande sulle persone Down
Come reagire all’indifferenza di chi è vicino di J. Labrousse
Il mio primo campo di F. Atlante
“Hola Madrid!” di L. Nardini
Teorie comportamentali: TEACCH vs ABA di M. Pilone
Rubriche
Libri
E li chiamano disabili, Candido Cannavò
Mio figlio mi divora, Lilyane Nemet-Pier
Donne nel respiro di Ruàh, Silvio Mengotto
Obiettivo decrescita, Marco Bonaiuti
Il barattolo di maionese e caffé