Quando veniva a casa nostra e mi chiamava “professore”.

Il Mary Mount. Mi sembra ieri. Quando ci passava a prendere, me e Mattia, sulla opel bianca, e chiacchieravamo di tutto e di più, in quelle calde estati romane di uno dei periodi più felici della mia vita.

Il suo rapporto con i ragazzi di fede e luce. Calmo e sorridente, fermo e affettuoso… come se fosse la cosa più normale del mondo.

Il suo modo di mangiarsi le unghie quando era pensierosa. Potrei disegnarla. Piegava le dita della mano e con il pollice si sfregava le unghie delle dita.

Le tante merende nell’ufficietto di ombre e luci con pizza e succo d’arancia.

Le sue grandi collane bellissime e strane. I fiocchi d’avena che mi portava. Non mi piacevano tanto a dir la verità, ma, nel latte freddo la mattina, avevano un sapore esotico che mi incuriosiva e che mi sembra adesso di riascoltare.

Il suo stile. Quei vestiti coloratissimi e originali, di un’eleganza rara.

Il suo profumo, che risento ogni volta che entro a casa sua e che spero rimanga lì sempre.

Il suo italiano, l’italiano di Nicole, bellissimo, che non mi scorderò mai. Che quando si arrabbiava parlava in francese ma le parolacce le diceva in italiano. Il suo amore/odio per l’Italia, quell’Italia fracassona e dirompente che un po’ criticava e un po’ invidiava.

Le infinite discussioni con mia madre, lei in francese, Mariangela in italiano… ai miei occhi di bambino mi faceva sempre effetto. Ma come facevano a capirsi?

Le sue lezioni di inglese. Quel poco di inglese che conosco lo devo anche a lei. La rilassata tranquillità che mi trasmetteva e la sua capacità di mettermi a mio agio, sempre.

Il rispetto che ha sempre dimostrato nei miei confronti e l’attenzione che prestava a quello che dicevo, anche quando ero un bambino di 8 anni con i calzoni corti e le ginocchia sbucciate.

Le chiacchere sui film. A volte d’accordo e a volte no. Ma aveva sempre uno spunto e uno sguardo affascinante.

La concretezza che la caratterizzava. L’ho capita solo crescendo ma è una dote che apprezzo tantissimo. Corrisponde all’essere chiari, diretti, quasi bruschi. È la bellezza della semplicità. Insomma niente giri di parole. Come se mi dicesse: se vuoi qualcosa dillo chiaramente e non perdere tempo in formalità inutili. L’obiettività nei confronti delle cose del mondo. Un’onestà intellettuale che ho sempre ammirato e che mi ha insegnato molto.

La sua discrezione. Solo ora, come spesso succede, mi rendo conto di quanto è stata presente nella mia vita. C’è sempre stata e ora ne sento la mancanza.
Tanto.

Emanuele , 2006

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.96

Sommario

Editoriale

Cara Nicole di M. Bertolini
Come se fosse la cosa più normale del mondo di E. Bertolini

Il Bambinello di Marija di S. Sciascia

Alzheimer: Convivere con l’insensatezza

Il passato perduto per sempre di M. Martelli
Il grande amore di sua sorella Marta di V. Giannulo
Sto diventando più umano di Jean Vanier 15
Patologie disabilitanti nell'anziano di Cristina Lo Iacono 16
...ma soprattutto è mio Nonno di Laurea Cattaneo
Così lontani e così vicini di Manrica Baldini
Ancora, sempre per mano... di Laura Broccoli
Con tutte le mie forze - Special Olympics Youth Games di Huberta Pott

Altri articoli

Il Bambinello di Marija di S. Sciascia
Dialogo aperto

Libri

In gita per il calendario! di G. Felici
Re 33 e i suoi 33 bottoni d'oro, Claudio Imprudente
Il re del mercato, G. Bernasconi
L'ardimento, Stefano Zurlo
Don zeno: obbedientissimo ribelle, Fausto Martinetti

Come se fosse la cosa più normale del mondo ultima modifica: 2006-12-28T09:15:13+00:00 da Redazione

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