Non so se quando si vive a lungo con una persona sia più facile o più difficile cogliere dei mutamenti nel suo carattere e nel suo comportamento. lo non l’ho scoperto ancora: ho vissuto con mia madre rimasta vedova a 23 anni tutte le età della mia vita, e anche dopo il mio matrimonio, lei ha condiviso la nostra casa, i nostri amici, le nostre vacanze, ha cucinato per tutti, ha accompagnato a scuola i bambini, ha accudito i nostri cani e gatti; avrei dovuto conoscerla bene, eppure la sua malattia è entrata nella nostra quotidianità con passo felpato, senza clamori o traumi improvvisi, all’inizio, anzi, senza una diagnosi certa. I sintomi leggeri, qualche dimenticanza di nomi e fatti recenti, occasioni episodiche per sorrisetti scherzosi, e tutto procedeva come al solito. Avrei dovuto accorgermene prima, ecco quello che mi sono rimproverata non appena, durante una visita di controllo nel reparto di geriatria di un ospedale della mia città, mi era stata suggerita la possibilità di far entrare mamma in un programma sperimentale di sostegno per i casi di incipiente demenza senile. E fu allora che per la prima volta quell’orrenda parola*demenza” ebbe un nome: Alzheimer.
Mamma tuttavia in quel periodo era ancora autonoma: spesso stava sola in casa a sbrigare le faccende. Insomma c’era una tale normalità, a parte qualche vuoto di memoria che giudicavamo fisiologico (“verso i 70 chi non ne ha!”) che mi sembrò assurdo accettare che una “demenza senile di tipo Alzheimer” si fosse impadronita di mia madre: tuttavia il processo lento di sfaldamento delle sue capacità cognitive, della memoria e della parola era iniziato in modo irreversibile. Al Centro di recupero comportamentale, dove la accompagnavo per tre mattine la settimana non si notavano miglioramenti. A casa neppure. Il vero tracollo avvenne però dal pomeriggio in cui mamma. mentre era in giardino, inciampando, forse, o forse a causa di un lieve mancamento, cadde e si fratturò l’omero. Subito ricoverata in ortopedia fu operata in ‘anestesia totale e l’intervento andò per il meglio, almeno sotto il profilo chirurgico. Non sotto il profilo neurologico, perché le condizioni di mamma dopo l’intervento precipitarono. Si aggravarono le perdite di memoria, passato e presente si accavallavano nella sua mente, così come le parole si ssomponevano sulle sue labbra: non la capivamo più e questo la faceva imbestialire al punto tale da portarla a reazioni violente, lei una creatura di indole mite, dolce e accomodante.
Da allora non si sono più contati i tentativi di fuga da casa, i rubinetti dell’acqua e del gas lasciati aperti, cibo del cane in frigorifero scambiato per qualcos’altro, sale per zucchero e viceversa — un classico! — e poi incontinenza totale con rifiuto, a calci e pugni, di farsi aiutare nella toilette quotidiana, sparizione di oggetti vera o presunta, difficoltà di coordinare i movimenti nel vestirsi, nel camminare, frequenti sbalzi di umore e, infine, l’isolamento, il silenzio, l’apatia, la scomparsa della parola, tranne a volte una nenia ossessiva ripetuta per ore, mentre andava su e giù per la casa con la porta chiusa a chiave, come un animale in gabbia, e per ultimo tristissimo momento per noi, il vuoto nei suoi occhi, il non riconoscerci più, la barriera della follia: ecco in quel momento ho sentito lacerante per la prima volta il distacco da mia madre, la sua assenza. Cosa fare? Da quel momento il passato era perduto per sempre, ciò che non mi aveva ancora detto, non lo avrebbe detto mai più ed io non avrei mai saputo quanto aveva ancora da darmi in consigli, in affetto, complicità, tenerezza. Che fare? Provvidenzialmente le tappe di questo processo lungo e doloroso si inserivano nella vita quotidiana con il suo ritmo di lavoro, di amicizie, di incontri e di scontri, di utili banalità come la spesa, la tintoria, le bollette, la scuola dei ragazzi. Comunque la nostra vita era cambiata: mamma non poteva essere mai più lasciata sola e all’epoca eravamo tutti impegnati. Così ci davamo dei turni: al mattino dalle sette alle quattordici c’era una persona esterna che le stava vicino, alle quattordici generalmente arrivavo io oppure qualcuno dei ragazzi “agli arresti domiciliari” — come dicevamo scherzosamente — fino a sera. Mio marito era “ precettato” per qualche turno il sabato o la domenica. E’ stato in questo periodo di circa tre anni che ho capito quel che aveva voluto dire un neurologo che aveva tenuto un seminario per i parenti dei malati di Alzheimer inseriti nel programma pilota di recupero comportamentale di qualche anno prima: tre conferenze sulla malattia, probabili cause (non certe), tipo di guasti cerebrali, conseguenze, modalità di relazionarsi al malato, ecc, il tutto illustrato da diapositive, grafici… e alla fine in risposta al nostro angosciato “Allora che fare?” la frase di commiato fu: “Bisogna imparare a convivere con l’insensatezza”.
Nessuno ci può insegnare veramente a convivere con la follia quando questa si impadronisce di una persona cara, fino a farla diventare un essere diverso: solo l’affetto, la partecipazione, il cuore, insomma, ma anche la razionalità, la freddezza nel prendere le decisioni; lasciarsi prendere dal panico, dalla disperazione, dalla rabbia o dal pietismo è umano, ma non serve a nulla. In questa malattia quando arriva il momento in cui ci si rende conto che la famiglia da sola non può essere utile al proprio malato, che anzi quasi rischia di diventare esse stessa malata, perché logorata, impotente, quasi dannosa, allora bisogna prendere in considerazione l’ipotesi di un ricovero in una struttura che con attrezzature adeguate e personale preparato dia al malato sicurezza ed assistenza e alla famiglia una certa tranquillità. “Prendere in considerazione l’ipotesi” non è uguale a “decidere”: decidere implica tempi brevi tra il pensare e l’agire, implica sicurezza di sé, consapevolezza della bontà della scelta fatta. Ma quando ci si deve separare da qualcuno con cui si è vissuto per tutta la vita, si percepisce questa separazione come un’amputazione e non si è sicuri se è necessaria, se può essere rinviabile, se è egoistica, certamente la si vive come un dramma. Noi questa decisione ad un certo punto della malattia di mamma l’abbiamo presa, prima come “ipotesi”, poi come “possibilità”, infine come “prenotazione” in lista d’attesa presso una casa di cura non lontana da casa, consigliata da un centro ospedaliero e selezionata tra le tante che eravamo andati io e mio marito a verificare di persona prima di decidere. La lista d’attesa era piuttosto lunga, si parlava di circa un anno, e stranamente questo fu uno dei motivi che ci spinse a prenotarci lì: per un altro anno almeno, mamma sarebbe rimasta con noi, nonostante fossimo arrivati al punto di non ritorno dalla insensatezza totale: nessuna attività, nessuna risposta agli stimoli, nessun moto d’affetto, soltanto vuoto, silenzio, impossibilità di gestire le normali operazioni quotidiane, la toilette soprattutto che a causa della doppia incontinenza si trasformava in una lotta corpo a corpo dolorosa e spiacevole per entrambi. Ma c’era ancora un anno di tempo: la separazione era ancora un’ipotesi”… che però divenne certezza venti giorni dopo a seguito di una telefonata molto premurosa della clinica: dovevamo presentarci subito, poiché si era liberato un posto e mamma, data la gravità della situazione, era già stata inserita tra i pazienti. E’ impossibile descrivere quello che mi è passato per la mente in quel momento: posso solo ricordare i venti chilometri di percorso in macchina fino a casa fatti singhiozzando disperatamente, oppressa dal dispiacere, ma soprattutto da un subdolo complesso di colpa. lo ero la cattiva figlia, io ero l’egoista, io ero l’irriconoscente, l’incapace di pietà…e di queste colpe pregavo Dio di perdonarmi.
Ora a distanza di due anni dalla morte di mia madre e a dieci da quella telefonata, sono un po’ più comprensiva verso me stessa e un po’ mi sono assolta dalle colpe. Quando è stata con noi mamma è stata accudita oltre che da una figlia, anche da un genero comprensivo e da due nipoti affettuosi.
Nella clinica ha trovato assistenza e umanità. Io ho potuto starle vicina quasi tutti i giorni, anche se non mi riconosceva più, ho festeggiato con lei i compleanni e le ricorrenze, l’ho imboccata, l’ho portata a passeggio in carrozzina sulla terrazza nei giorni di sole, e se non c’ero io c’erano i ragazzi o mio marito, le ho tenuto la mano per tutta la notte prima che completamente immovbilizzata e divorata dalla malattia in un lieve sussulto liberatorio, fosse accolta tra le braccia del Padre.
L’Alzheimer l’aveva resa schiava, la morte l’ha resa libera ed io le sono grata per aver condiviso con me anche quest’ultima parte della sua vita.
Mara Martelli, 2006
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.96
Sommario
Editoriale
Cara Nicole di M. Bertolini
Come se fosse la cosa più normale del mondo di E. Bertolini
Il Bambinello di Marija di S. Sciascia
Alzheimer: Convivere con l’insensatezza
Il passato perduto per sempre di M. Martelli
Il grande amore di sua sorella Marta di V. Giannulo
Sto diventando più umano di Jean Vanier 15
Patologie disabilitanti nell'anziano di Cristina Lo Iacono 16
...ma soprattutto è mio Nonno di Laurea Cattaneo
Così lontani e così vicini di Manrica Baldini
Ancora, sempre per mano... di Laura Broccoli
Con tutte le mie forze - Special Olympics Youth Games di Huberta Pott
Altri articoli
Il Bambinello di Marija di S. Sciascia
Dialogo aperto
Libri
In gita per il calendario! di G. Felici
Re 33 e i suoi 33 bottoni d'oro, Claudio Imprudente
Il re del mercato, G. Bernasconi
L'ardimento, Stefano Zurlo
Don zeno: obbedientissimo ribelle, Fausto Martinetti