Una sera Francesca uscì di casa e non tornò più. L’Alzheimer aveva scelto un giorno qualunque, una faccenda quotidiana e ripetuta mille volte, lo scendere in strada a comprare pane e latte, per manifestarsi, prendersi la mente di Francesca e non restituirla più. Quella sera del 2000, Francesca non riuscì a ritrovare la strada di casa, non se la ricordava. In famiglia c’era un medico e fu lui il primo a cui Marta, la sorella preziosa (e vedremo quanto!), si rivolse per cercare di capire quella strana cosa che era accaduta. Sulle prime quel medico, che era un neurologo, disse di non preoccuparsi. Dopo un po’, affidò Francesca alle cure di un suo amico perché tutti i familiari concordarono che non era saggio che fosse un cohgiunto a curare la malattia. Lo straziante percorso che è seguito — la diagnosi, le terapie da sperimentare aggiustare dosare cambiare, i sintomi sempre sorprendenti, ogni volta una brutta sorpresa — è comune a tutti gli ammalati di Alzheimer e alle loro famiglie. Di diverso e di tenero nella storia di Francesca c’è il grande amore di sua sorella Marta. “Quasi ogni notte, nel cuore della notte, mia sorella si alzava e si vestiva di tutto punto — racconta Marta — voleva andare a casa di nostra madre, morta tanto tempo fa. Dovevo dormire, per il poco che dormivo, con la porta chiusa a chiave e le serrande abbassate”. Per mesi, nel primo periodo della malattia, la fissazione di Francesca era tornare alla casa in cui era nata, poche centinaia di metri in linea d’aria da quella in cui viveva. Una volta Marta provò ad accontentarla e fu un disastro. Uscirono, vagarono a lungo perché Francesca. non riusciva ad acchiappare quel fantasma che la tormentava finché Marta disse: ora basta, io torno a casa. E si allontanò. Francesca. la raggiunse e la schiaffeggiò in pubblico. “Qualunque cosa fosse accaduta, non avrei mai pensato di abbandonarla — dice Marta — e anzi, pur avendo provato sulla mia pelle cosa vuol dire assistere un malato di Alzheimer fino alla morte, ciò che posso dire è che loro dovrebbero restare a casa con la propria famiglia perché fino all’ultimo, anche quando non parlano e non si muovono, avvertono l’affetto di chi li circonda, anche solo ricambiando la stretta di mano”. Marta e Francesca erano nubili, hanno sempre vissuto insieme e una sorella ha potuto assistere l’altra perché per 5 anni si è completamente annullata. “Uscivo solo per le cose indispensabili: andare a Messa e in farmacia”. Con tutto ciò, la dedizione non sarebbe bastata senza l’aiuto di due badanti. Una andava la mattina presto e poi nel primo pomeriggio, l’altra in tarda mattinata fino a dopo pranzo. In una provincia del Sud, dove Marta e Francesca hanno vissuto, questo significa circa 300 euro a settimana e il sostegno della famiglia allargata era sufficiente a coprire le spese. Poi è arrivato l’assegno di accompagnamento, ad oltre due anni dalla diagnosi, e un aiuto ulteriore, quello di una fisioterapista. Manuela fu indirizzata a casa di Francesca dall’Asl per effetto di una convenzione con l’associazione di Matera con cui collaborava. L’abbiamo incontrata per farci raccontare la sua esperienza. “Lo scopo clinico del nostro lavoro è evitare piaghe da decubito e rigidità articolari per i malati terminali — dice Manuela — ma l’obiettivo più grande è dare un po’ di sollievo, soprattutto psicologico, ai familiari. Nel fare questo, ci scontriamo spesso con la stanchezza e lo scetticismo di chi sta accanto ai malati. Purtroppo nella riabilitazione dei pazienti neurologici, i risultati sono scarsi e poco visibili”. Invece l’esperienza della famiglia di Francesca con la fisioterapia è stata positiva soprattutto dopo i due interventi subiti da Francesca negli anni della malattia: una riduzione di una frattura al femore e l’applicazione di un pace-maker.
Le due sorelle hanno frequentato sempre la stessa parrocchia. Ad un certo punto della malattia di Francesca, quando la sua lucidità era ormai completamente offuscata, Marta, che è anche ministro straordinario dell’eucaristia, si è chiesta se fosse il caso di continuare a impartire il sacramento alla sorella incosciente. Si è risposta di no. Si può essere d’accordo oppure no. Certo per lei è stato un grande dolore rinunciare anche a questo: si incarnava nella vita sua e in quella della sorella la parola di Luca 22: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”.
Vito Giannulo, 2006