In pochi giorni è la terza volta che ricomincio questo mio tentativo di condividere il cammino al quale mi ha chiamato la nascita di un figlio disabile. Il mio lavoro mi ha portato infatti, nell’arco di una settimana, a partecipare ad una sorta di flash back: dal convegno sui malati terminali e delle cure palliative a Piacenza a quello della Società di geriatria a Firenze per finire al lavoro su un progetto di suono-colore per un centro per disabili sentendo parlare del film “La marcia dei Pinguini”. Fiorello, doppiatore della apprezzata versione italiana dice: “Questi pinguini sono coppie di fatto e quando si lasciano non chiedono alimenti. ( Il Venerdì de La Repubblica).” E ancora: “Noi uomini dovremmo prender esempio dai pinguini maschi che marciano venti giorni e notti a temperature impossibili per incontrare le loro compagne. (La Stampa)” Certo, anche il confronto con i pinguini può aiutare, ma mi pare più utile pensare alla vita reale. Così, se “Oamok”, il luogo prescelto per la riproduzione, diviene la ragione per il “viaggio allucinante” (sempre La Stampa) dei pinguini, io posso ben dire che è dalla nascita in poi che inizia il viaggio difficile del figlio disabile e dei suoi genitori.
Un viaggio dove, prima della fede, contano le virtù umane e come le abbiamo costruite grazie ai nostri genitori e come le abbiamo coltivate grazie anche a contesti (di amicizie, divertimento, lavoro) appropriate. Tempo fa un amico mi ha regalato una bella metafora: ”La fede senza le virtù è come una trave di cemento appoggiata su uno strato di panna: affonda”. Questa immagine “estrema” può aiutarmi a comunicare una mia convinzione profonda: la nascita di un figlio disabile è, come la nascita di ogni figlio, la chiamata ad un cammino. Solo che in questo caso il percorso è tutto da scoprire, a fronte di alcune certezze: che ci saranno sofferenze di accettazione da parte degli altri, che sarà più difficile crescerlo e che, in definitiva, ci sarà richiesto di più. Anch’io figlio di questo tempo, avevo suggestioni analoghe, perché l’immagine che la nostra società ci proietta addosso è quella della strada “lunga e diritta” sulla quale si corre tranquilli, godendo della velocità, del rumore del motore, e anche di coloro che si sorpassano. In un bellissimo film ambientato in USA (“Bambini come questi”), che sui temi della famiglia ritengo più utile del film sui pinguini, la mamma del ragazzo disabile, si lancia nella missione di insegnare alle infermiere ed educatrici come aiutare altre mamme: “Quando aspettavo mio figlio era come se immaginassi un viaggio in Italia: sole, colline, mare e scogliere, musica, storia. Ho aspettato questo paesaggio per nove mesi e quando si è aperto il portellone dell’aereo ho visto che ero atterrata in Belgio. Mi sono guardata intorno sgomenta e mi sono chiesta: che ci faccio qui? Poi mi sono detta: ma anche qui ci saranno belle cose da scoprire; sarà meno facile ma il viaggio saprà sorprenderci anche in questo posto”.
Due lezioni abbiamo preso da questo film: che non si può andare avanti da soli e che anzi bisogna creare occasioni per evitare agli altri quante più possibili “buche della strada”. Così anni fa abbiamo realizzato, complice un amico grafico, un libricino dal titolo “Un mondo da scoprire” da distribuire nelle maternità per ridurre l’impatto avuto da mia moglie alla nascita di Edoardo e spesso riassunto nella domanda fatta da varie persone ( dall’infermiera a qualche amica): “Ma poverino, lo vuoi veramente riconoscere?”. Fin dai primi momenti l’andare avanti ci è stato reso possibile dalle stesse virtù che avevamo messo in gioco in tanti momenti della vita, dallo studio alle escursioni in montagna: quelle che fanno appello alla volontà, come la fortezza nel non sentirsi scoraggiati, la temperanza nel gestire il tempo con ritmi più attenti ai bisogni di Edoardo e la giustizia che ci ha spinto verso battaglie a scuola, con la ASL e anche in parrocchia, dal catechismo alla preparazione ai sacramenti. Ma Edoardo ci ha portato a vivere fino in fondo la virtù di riferimento dell’intelligenza, la prudenza. Una prudenza “naturale” verso i passi incerti dell’autonomia e una soprannaturale fatta di scelte riviste alla luce della Fede e che si riassumono nel “chi perderà la sua vita per Me la salverà”. La Fede è entrata quindi sulle virtù, sempre minacciate, anch’esse, (e parlare delle mie cadute occuperebbe ben altro spazio) a completarle in senso cristiano proprio a partire da questo ribaltamento legato all’impegno profondo, e in certi momenti al sacrificio, confortati dalle tante saggezze incontrate nei Paesi dell’America Latina e dell’Africa dove abbiamo abitato.
Un sacrificio lontano dai riflettori, fatto di piccole cose quotidiane e spesso poco confortato dai risultati in tempi brevi, ma che ha prodotto in me dei risultati importanti.
Il primo, forse il più difficile per un uomo e per un marito: il riconoscere il lavoro splendido della propria moglie; io, come tanti uomini, attento ai grandi sistemi, proprio grazie alla fragilità del più piccolo ho potuto misurare la continua attenzione per le piccole cose già data da mia moglie anche ai due figli più grandi ed essenziale per Edoardo.
Il secondo: l’accrescere la fiducia in Dio, il riconoscere la Sua presenza in questa prova. Gli Ebrei, nostri vicini in Messico, parlano di emuna’, di riconoscere la presenza di Dio nel mondo. E come non cercarlo e trovarlo nella gioia di limiti quali la difficoltà di andare in bicicletta da solo nel traffico che diventano occasioni per nuove scoperte quale quella di acquistare un vecchio tandem e di pedalare insieme, parlando? Il terzo (per brevità): il sapere di non sapere, il mistero che rappresenta ogni persona e che dovrebbe portarci all’ascolto. L’ascoltare Edoardo non è un optional e richiede quello che Cicely Saunders, la fondatrice del movimento degli Hospice, ha definito “l’ascoltare stando fermi, così come ci si specchia nell’acqua”. Stare fermi, accanto, come nel piacere ritrovato di un padre che può raccontare ancora una favola al proprio figlio di 17 anni e vederlo scivolare in quel luogo misterioso e sereno che è il suo sonno. Il sonno, che nell’Islam visto da vicino in Burkina Faso, viene definito la piccola morte, quella che si schiude verso il ghaib, l’ignoto, il non visto. E’ questa, l’ignoto, il dopo di noi, l’ultima sfida da superare. Preparandoci per tempo (Edoardo sta amando molto il Saffi, la sua scuola alberghiera) ma soprattutto vivendo fin d’ora quella dimensione di comunità che ha visto fiorire esempi importanti quale il ristorante “Gli amici “ in Trastevere. L’episodio di due anni fa, quando, dando una mano a servire proprio lì, a Roma, Edoardo ha battuto la mano sulla spalla ad un cliente dicendo “buona scelta!” ci da la certezza che saprà portare un sorriso anche tra qualche commensale un po’ triste. Il sorriso, la gioia: senza dubbio il successo migliore, una delle traduzioni più efficaci del “mandatum novum”, che penso vorremmo tutti per i nostri figli, disabili e non.
di Enrico Orofino, Ombre e Luci n.92, 2005
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