Mi faccio molte domande
Innanzitutto su questa “ripetitività sospetta”, che induce gli abitanti di Sighet, ogni volta che rispondo alla loro domanda su quanto tempo è che vengo in Romania, a esclamare: “Allora ti è proprio piaciuta!”. Perché non cercare altre mete, altri luoghi, altre realtà?
Ho messo i piedi (e gli occhi, il naso, le mani) per la prima volta in quella cittadina di qualche decina di migliaia di abitanti esattamente cinque anni fa. Partita per caso, con un passaporto “regalato” in fretta e furia dalla Questura di Roma, mezz’ora prima dell’orario di partenza del treno per Budapest, per raggiungere chi nel frattempo si era già messo in viaggio.
Era il dicembre 1999. Insieme ad altri italiani, una mattina gelida mettiamo piede nella cosiddetta “Casa de batraci”, un cronicario per anziani e disabili mentali o fisici maggiorenni, deambulanti o allettati. Tutti ammassati indistintamente, vecchi e ragazzi assieme, donne e uomini nelle stesse camerate.
Molte cose sono cambiate da quel giorno. E, davvero, non solo perché un’organizzazione olandese ha fornito tutta la struttura d’infissi e riscaldamento, e adesso Florin & Co. d’inverno non devono più girare con cappotto, sciarpa e berretto dentro l’ospedale. E nemmeno perché sono state comprate e montate zanzariere che impediscono a mosche e insetti vari di colonizzare coperte, lenzuola e pigiami d’estate. Adesso, al posto degli stracci e delle magliette strappate, si trova sui letti e addosso agli ammalati biancheria seria.
Non è questo che ha cambiato le cose. Almeno non per me. La signora Emilia, Florica, Bobo e tutti gli altri (sono più di 150 persone) stanno meglio materialmente, e vivono con i conforti normali di un’esistenza dignitosa. Quello che per me è profondamente cambiato è molto diverso, totalmente altro.
Sono andata via da Sighet qualche giorno dopo. La prima a sedermi nel pulmino che ci avrebbe riportato in Italia. Convinta che non avrei più rimesso piede in quelle strade sporche, tra le puzze di cibo avariato e d’immondizia accumulata, in mezzo a frotte di bambini che chiedono ad ogni istante la tua attenzione, i tuoi abbracci, il denaro che suppongono tu abbia.
Nel dicembre 2004, come ogni volta, sono tornata a Sighet con un viaggio organizzato dalla Lega Missionaria Studenti, un’associazione della Compagnia di Gesù che dal 1998 ha intrapreso lì un progetto stabile, organizzando campi di lavoro e solidarietà che si estendono per due mesi l’anno, e dando vita ad un’associazione italo-rumena, “Il Quadrifoglio”, che ha aperto a Sighet tre case-famiglia per minori abbandonati.
Ma cos’è cambiato da quel giorno?
Quel giorno all’ospedale ho avuto, per la prima volta distintamente in vita mia, profondamente paura. Mi spaventavano i volti deformi, i sorrisi un po’ obliqui, le mani ansiose di carezze e di contatti, le urla, i pianti. Mi faceva impressione come il personale dell’ospedale e i miei amici italiani a cui quel posto era familiare riuscivano ad interagire con tutti loro con la massima naturalezza, come se non ci fosse nulla di strano. Ne ho conservato un ricordo fortissimo, che mi ha seguito nella testa e nel cuore per molto tempo, inducendomi a sentirmi in colpa, a non capire. Quando, nell’agosto del 2001, un anno e mezzo dopo il mio primo viaggio, percorrevo la breve stradina che dal centro della cittadina conduce alla “Casa de batrani”, sentivo il cuore in gola, le gambe mi tremavano, combattuta tra il desiderio di guardare in faccia le paure che mi si erano addensate dentro per così tanto tempo e la voglia di scappare via. Eppure, quando la sera prima avevano chiesto: “Chi ha ancora un po’ di birra nelle gambe per aiutarci a dare da mangiare all’ospedale che noi due siamo troppo pochi?”, mi ero quasi impuntata ad imporre la mia presenza. Volevo andare! E le due settimane seguenti mi si è rivelata con estrema naturalezza una realtà molto singolare. Trascorrevo qualche ora al giorno sempre nella medesima stanza, quella che chiamano dei “copii”, i bambini, anche se hanno dai 18 ai 30 anni e oltre, pur sembrando ragazzini di sette, otto anni, se non meno. Aiutavo ad imboccare con timidezza qualche “paziente”, stando attenta a quando gli infermieri pronunciavano l’inizialmente misteriosa parola “ferbinte”, bollente, imparando ad aspettare i tempi di chi fa fatica a deglutire, e cerca di inghiottire il “pranzo” tra un colpo di tosse e l’altro. Superando la spontanea ritrosia nel tirare su a sedere una persona che non ha la possibilità di muoversi da sola, capendo dove mettere le mani per evitare di fargli male. Mentre compivo questi gesti avevo tanto tempo per pensare.
Quale è il confine preciso della vita coscientemente vissuta? Che senso ha la mia vita?
Ha più senso di quella di Florin, di Traian, di Mircea, che sono qui tutto il giorno, un giorno dopo l’altro, sdraiati in questi letti, senza muoversi e senza vedere fuori, senza forse nemmeno immaginarlo un fuori? Oppure la mia vita ha fondamentalmente meno senso della loro, se penso a quanto mi lamento, a quanta poca importanza do alle cose vere? Condividevo qualche parola con i compagni che venivano con me in quella grande casa verde (che ora è bianca e rossa), mentre consumavamo il nostro pranzo insieme dopo aver terminato il servizio, ma soprattutto condividevo una silenziosa sensazione, quella di essere profondamente vicini ad una realtà misteriosa che non sapevamo spiegare, toccati da domande essenziali e vitali a cui non potevamo sottrarci.
Tre giorni fa, ho trascorso alla “Casa de batrani” parte del pomeriggio del primo gennaio del nuovo anno. Mentre attraversavo i corridoi per salutare e fare gli auguri alle vecchiette, che ormai sono abituate a vedermi girare tra i loro letti e mi regalano ogni tanto una caramella, un prezioso cetriolo sott’olio o un centrino ricamato da loro, e passavo da una camera all’altra per rivedere tutti e scambiare una parola con chi può parlare, oppure un sorriso o uno sbuffo con chi non può farlo, mi ripetevo più o meno le stesse domande, felice di essere ancora in giro per quei corridoi. Ormai lì, per un’assurda fortissima reazione, mi sento ormai come a casa mia, avverto che è un posto a cui sono davvero profondamente legata, al quale sento che è intimamente legata la mia identità.
In questi anni non ho fatto mai nulla di speciale. Ho ricevuto tanto, tantissimo, a ogni passo. A volte ho sentito con insofferenza la frustrazione e la pesantezza che si respirano in quel luogo.
Un piccolo “paradiso infernale”, come credo ce ne siano molti sulla terra. Non ho ancora trovato molte risposte, anzi ogni volta che torno le domande si fanno più pressanti e insistenti. Probabilmente il nostro è un servizio che non serve a nulla. Non è specializzato, non è continuato, non è professionale. Credo che l’unico pregio che abbia sia nel fatto che arricchisce moltissimo, coinvolge e dà consolazione a chi si lascia invischiare dalle profonde relazioni che vi si sviluppano e in cui si annullano i confini tra “disabile” e “volontario”. E ciò non toglie il peso delle domande che tutta questa esperienza fa gravare sulle spalle di chi, dopo qualche giorno trascorso a Sighet, può scegliere di fare lo zaino e tornarsene a casa sua, un po’ più ricco ma con qualche responsabilità in solido di più.
Marta Pensi, 2005
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.90
Sommario
Editoriale
Nel mare di Assisi di V. Giannulo
Ricordo di Giovanni Paolo II
Non sembrava né prete né Papa di Nicolina di Pirro
Io e Karol di Immacolata
Visto da vicino di F. e S. Poleggi
Il regalo” di TAU comunità di Arcene
Giovanni Paolo II e le persone disabili
Il nostro Don Francesco
Abbiamo imparato che i nostri figli sono persone vere di Maria Varoli
Trent'anni pieni d'amore di G. Ferrari
Articoli
Elena e il mistero di F. Poleggi
Paradiso Infernale di M. Pensi
La domanda ultima di d. Antonio Torresin
Le chiavi di casa di R. M. Sanzini
Controvento di L. M. Loy
Ai nostri ragazzi piace il bello
Incontriamo Giotto di Anna Maria de Rino
Proposte di Laura Nardini
CONCORSO “RACCONTA LO SGUARDO”
Alla mia bambina di D. Marazzini
Rubriche
Libri
Il mondo delle cose senza nome, D. Rossi
Fratello Sole Sorella Down, I.Manzato e F.Bellan