La mia vita al “Carro” è cominciata gradualmente, a piccoli assaggi per gustare meglio il sapore della vita comunitaria: dapprima un week-end di lavoro ogni tanto per poter permettere l’inizio delle prime accoglienze nel vecchio casale di campagna; poi un giorno a settimana, per le pulizie straordinarie o per la preparazione di un pasto abbondante, quando ormai la casa era stata già avviata, e comunque disponibile nelle situazioni di emergenza; quindi una permanenza di tre mesi, infine la scelta di fare di questa esperienza di condivisione la mia vita quotidiana.

Adesso sono qui, finalmente in una casa nuova, grande, a lungo attesa, desiderata e sognata per accogliere tanti altri “ragazzi” e amici, insieme a Matteo e alle nostre figlie (Maria di 9 anni, Francesca di 6 e Anna di 1) con le quali viviamo questa impegnativa avventura.

Riuscire a conciliare ogni giorno le esigenze delle bimbe con quelle di una vita quotidiana che deve tenere conto dei vari ragazzi ospiti e delle tante persone coinvolte in questa realtà non è molto semplice, è un complicato incastro, situazione peraltro tipica delle famiglie più o meno numerose; cerchiamo di non condizionare troppo né l’una né l’altra parte. E’un compito delicatissimo organizzare i tempi di ciascuno rispettando tutti, preparare ogni pasto con 5 menù diversi, assortire i momenti di festa, di lavoro, le riunioni, i giochi, i compiti, e fronteggiare ogni giorno le inevitabili piccole gelosie, le incomprensioni e i capricci. Tento di risolvere le tante e piccole difficoltà quotidiane cercando di essere accanto a ciascuno, ascoltando chi non parla, facendo stare zitto chi parla troppo, stando molto attenta soprattutto alle richieste inespresse fatte solo di sguardi, o di urletti, o di visi imbronciati.

Cerco di stare attenta e di osservare, questa è la mia ricetta, non solo quello che succede alle mie figlie, ma a tutti i ragazzi, evitando per esempio che i salti e i giochi a voce alta disturbino Alberto (lui preferisce le tenere carezze di Anna), individuando quando è il momento di passare un po’ di tempo da soli in famiglia, preoccupandomi di ciò che è necessario e indispensabile per ciascuno, per poter vivere e far vivere in un ambiente caldo, sereno, accogliente e famigliare tutte le persone che mi sono affidate: vedere crescere le mie figlie in questo luogo di pace e solidarietà è per me fonte di gioia.

Cerco di trovare per ognuno un piccolo incarico, in modo che tutti si sentano partecipi: Stefano annaffia le piante e recupera tutti i giochini di Anna sparsi sul pavimento, Carla è l’ambasciatrice e se manca qualcosa in casa viene a chiedermela, insieme con Rita sparecchiano, lavano e asciugano le verdure, e a turno mi aiutano nel cambiare il pannolino di Anna, Mimmo ci informa delle ultime notizie, Francesca cambia il calendario e legge la preghiera, Maria scrive la nota della spesa e tutte e due, prendendo spunto dalla scuola, propongono varie attività da fare insieme.

Da subito con i ragazzi disabili accolti si è creata, dapprima con Maria, poi con Francesca e adesso anche con Anna, una naturale appartenenza reciproca; ci si incoraggia per superare i vari momenti difficili come una piccola crisi, un brutto voto, un bernoccolo, uno sciroppo amaro, il viaggio troppo lungo per arrivare a scuola… si condividono quotidianamente tanti momenti piacevoli come disegnare, curare i fiori, preparare la pizza, spingere la carrozzina di Alberto, scegliere i canti per la Messa, recitare, raccogliere le olive, cantare e ballare, intrattenere Anna con canzoncine e storielle mentre preparo da mangiare… Vedere l’attenzione che manifestano l’uno verso l’altro ancora oggi mi emoziona.

Questa appartenenza diventa evidente quando arrivano le vacanze o i week-end in cui i ragazzi tornano nelle loro famiglie, perché le bambine, ognuna a proprio modo, chiedono più volte dove sono andati e quando tornano i ragazzi a casa, proprio come fratellini che fanno un po’ di fatica a separarsi e festeggiano quando ci si ritrova.

Come per tutte le mamme, anche riuscire a conciliare la mia attività lavorativa esterna alla casa ‘con i bisogni della numerosa e variegata famiglia è un compito arduo, che mi richiede un continuo sforzo di pazienza e soprattutto mi impone di sfruttare ogni residua briciola di energia.

Da quando sono diventata mamma, mi è forse più chiaro cosa vuol dire affidare e lasciare i propri figli alla cura di altri; comprendo le preoccupazioni di quelle mamme “speciali” che non sanno come potrà essere il futuro dei loro figli senza di loro e il pensiero che la mia fatica possaa dare un po’ di sollievo, speranza e serenità ad altre mamme, mi dà la forza di andare avanti ogni giorno.

Per la nostra famiglia vivere al Carro è un po’ più semplice di quello che possa sembrare, perché si tratta di una realtà che si è evoluta giorno dopo giorno in maniera naturale: prima la scelta di vivere in Comunità, poi la scelta del matrimonio e fare di essa il Progetto di Vita della nostra unione, poi la nascita delle nostre figlie il tutto in una dimensione di accoglienza e condivisione.

La nostra piccola comunità ha percorso tanta strada, lentamente proprio come un carro che permette a chiunque di salire e scendere, di fare piccole soste, e di fermarsi, di ammi rare il paesaggio circostante, e ha bisogno, anche se si muove piano, di un’enorme forza che possa trainarlo. lo desidero condividere questa scelta con altre famiglie e vedere tanti bambini correre per i prati e nascondersi dietro la grande quercia.

Ivana Perri, 2005

DIDA Ivana nella cucina del Carro

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Andiamo a conoscere Fede e Luce e Ombre e Luci in Francia dove sono nate

Una visita a Parigi a vedere come si lavora a Ombres et Lumière, nostra “sorella maggiore”? Perché no?
Certo, bisogna organizzarsi un po’ e lasciare marito e figli soli, poi convincersi profondamente che l’aereo nonostante tutto è il modo migliore di viaggiare su queste distanze… La lingua non è un problema, tanto c’è Hubi che sa tre lingue e in più mastica anche il francese. Prendiamo contatti con Anna Cece, una vecchia amica italiana, che è gentilissima e ci offre non solo ospitalità nella sua bella e accogliente casa vicino Parigi, ma anche un paio di incontri decisamente interessanti. D’altronde tre giorni a Parigi vanno ben sfruttati, poco purtroppo per vedere la città e molto però per incontrare realtà diverse dalla nostra e avere occasioni di confronto.

Foi et Lumiére

È qui in Francia che nasce il movimento — in Italia FEDE E LUCE nel 1971 dopo un pellegrinaggio a Lourdes che, per la prima volta, coinvolge persone con handicap mentale, le loro famiglie e i loro amici. Quella che incontriamo la domenica al nostro arrivo a Parigi è una giovane comunità ( Il sicomoro), nata dopo il pellegrinaggio del 2001 sempre a Lourdes, che riunisce giovani famiglie con bambini portatori di handicap fino ai 14 anni. In Italia non esistono comunità di questo genere: le famiglie che hanno cominciato con i loro figli piccoli adesso sono invecchiate senza che ci fosse un uguale rinnovamento.

Così diventa difficile convincere una giovane famiglia con un figlio piccolo con handicap che si divertirà o che troverà conforto alle sue sofferenze senza altri in simili condizioni.

L’incontro avviene in un’accogliente saletta di una scuola privata, con annessa cucina; si può giocare in cortile e dire la messa in una piccola cappella (sembra che in parrocchia non siano bene accolti). Sono circa trenta persone, più della metà famiglie, poi amici sposati con figli al seguito e due giovani amiche. A seguirli c’è anche un anziano sacerdote oramai esonerato dai suoi impegni maggiori, molto affettuoso e vicino alle famiglie: ci racconta di aver portato ai sacramenti diversi bambini della comunità, due anche molto gravi, e ci stupisce dicendo di non essere a favore del catechismo integrato. La messa da lui celebrata è molto semplificata e fatta in modo da coinvolgere bene i piccoli, con molti simboli e gesti. La cosa più bella: vedere una coppia di genitori senza il loro figlio con handicap fuori per un’uscita con gli scout — venire e partecipare attivamente alla giornata di comunità, per organizzare il successivo incontro che si sarebbe svolto come ritiro in un convento di suore di clausura. La cosa più triste: sentire quanto siano messe da parte le famiglie con un figlio con handicap dalla società civile perché hanno deciso di mettere al mondo un figlio con problemi invece di abortirlo.

La Fondazione Lejeune

A cercare di cambiare questo atteggiamento molto radicato nella società francese, c’è la fondazione Lejeune creata in nome dello scienziato che per primo riconobbe la causa genetica della Trisomia 21, meglio conosciuta come sindrome di Down. Suo obiettivo era quello di capire i motivi che provocano la traslocazione difettosa del cromosoma 21 e cercare di curarli. Purtroppo nel 1994 è deceduto ma l’’energica moglie e alcuni suoi familiari hanno continuato a lavorare per raggiungere questo risultato. La Fondazione lavora sul fronte della ricerca, destinando fondi per i ricercatori che indagano sulle malattie genetiche causa di ritardo mentale, e sul fronte dell’assistenza e della cura con un poliambulatorio specialistico in grado di seguire le patologie provocate da queste stesse sindromi (più di tremila casi all’anno). Promuove eventi per raccogliere fondi e per far conoscere la sua attività, poiché lo stato non promuove ricerca di questo tipo, ma invita, nel caso in cui venga diagnosticata una malattia genetica o altro tipo di problemi, all’interruzione di gravidanza (un progetto di legge permetterebbe la soppressione del bambino malato fino a 24 ore dopo la nascita).

Le Tremplin

Presso gli uffici amministrativi della Fondazione lavora un giovane affetto da trisomia 21, che si è preparato a svolgere il suo lavoro presso un piccolo centro, unico nel suo genere, Le Tremplin (il trampolino). Un direttore/operatore/accompagnatore/tuttofare a tempo pieno con un altro operatore a tempo ridotto ed alcuni volontari istruiscono, in un appartamento di Parigi, una quindicina di ragazzi disabili non gravi in alcune attività come l’informatica, la cucina e altre attività manuali che possano risultare utili per entrare nel mondo del lavoro. Una volta la settimana viene gestito un piccolo ristorante a menù fisso dove, su prenotazione, è possibile consumare un buon pasto interamente preparato e servito dai | ragazzi. Gli stessi ragazzi vengono seguiti durante gli stage propedeutici ad un eventuale impiego, visto che medie e grandi aziende devono per legge avere una certa percentuale di lavoratori disabili. Alcuni dei ragazzi non troveranno facilmente modo di inserirsi nel mondo del lavoro, anche quello protetto, ed hanno in questo piccolo centro una specie di attività alternativa all’istituto specializzato.

OCH (Office Chretien des Personnes Handicapées)

Alcune iniziative del centro che abbiamo visitato hanno trovato un finanziamento aggiuntivo attraverso l’’OCH (www.och.fr ). Marie Helene Mathieu, dopo una lunga esperienza di incontro con le famiglie sofferenti di persone con handicap, decide di cercare un modo per alleviare questa sofferenza e fonda l’’OCH. La sua missione è: accogliere, dare speranza, sostenere queste famiglie.

La sede dell’OCH è in una bella palazzina d’epoca di tre piani che si affaccia sui Campi di Marte (quelli della Tour Eiffel), incastrata tra due palazzi di dodici piani.

Al primo piano ha sede l’Accoglienza permanente (una sede è anche a Lourdes, con due dipendenti fissi e un centinaio di volontari, mai abbastanza…) nella quale alcuni operatori danno sostegno, informazioni pratiche, pubblicazioni… a chiunque si trovi in una situazione di difficoltà. Condividere e scambiare esperienze per schiarire e dare speranza a chi vive la sofferenza dell’handicap mentale e farlo cercando di raggiungere il maggior numero di persone: questo è l’obiettivo che si persegue attraverso la rivista Ombres et Lumiere, attraverso la partecipazioni a programmi radiofonici e televisivi.

Per raggiungere chi è ancora solo ma anche chi non ha esperienza diretta dell’handicap, vengono organizzate conferenze tenute da Jean Vanier ma anche da genitori, fratelli, operatori di comunità o comunque persone impegnate in questo campo. Per l’OCH significa esprimere il modo di essere cristiano e di porsi di fronte alla sofferenza appellandosi alla comunione e allo stare vicini.

Infine, l’OCH sostiene, attraverso la distribuzione dei fondi raccolti da donazioni private, iniziative nelle quali si condivide la vita della persona con handicap, alcuni interventi straordinari (costruzione di scivoli, eliminazione di barriere architettoniche, ausili…), SOVvenzioni per la nascita di una nuova “Comunità di vita”.

Come associazione legalmente riconosciuta, anche dalla Chiesa, spesso viene chiamata in causa per l’organizzazione di eventi straordinari (ad es. per la Giornata Mondiale della Gioventù, per l’accompagnamento dei giovani disabili).

Una volta al mese tutte le componenti dell’OCH (accoglienza di Lourdes e di Parigi, Ombres et Lumiere, Foi et Lumiere internazionale, lo staff amministrativo — in tutto venti dipendenti, alcuni volontari regolari ed altri ad hoc) si riuniscono per una riunione allargata.

Ogni componente aggiorna gli altri sui passi fatti; vengono individuati obiettivi di lavoro in comune e si incontrano ospiti rappresentanti di realtà esterne con i quali approfondire alcuni temi e avviare un confronto (in quel fine settimana siamo state noi di Ombre e Luci le ospiti speciali!).

Ombres et Lumiére

La rivista, nostra “sorella maggiore” appunto, ha cominciato ad essere pubblicata nel 1968 sotto la direzione di Marie Melene Mathieu, adesso di Marie Vincente Puiseux. Una realtà ben più complessa della nostra, più organizzata, con personale dipendente più numeroso e maggiori risorse.

In una riunione di redazione allargata approfondiamo l’idea di avviare un prossimo numero in comune e questo ci da modo di entrare, per un pomeriggio, nel loro modo di lavorare. La rivista ha in Francia circa 12000 abbonati (e noi ci sentiamo molto piccoli con i nostri 1500…) ma altre percentuali a confronto sono più o meno simili. Ombres et Lumière ha una funzione precisa nell’OCHI: è, come già detto, il portavoce della sua missione all’esterno. È proprio questa la cosa più invidiabile: poter lavorare sentendosi parte di una rete di persone con uno scopo preciso.

Cristina Tersigni , 2005

La scelta di Ivana: la mia vita al Carro ultima modifica: 2005-09-19T14:33:47+00:00 da Ivana Perri

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