Ero allora figlia unica, carina, coccolata, ma mi sentivo sola. Quando la mamma mi disse che aspettava un bambino, fui pazza di gioia. Ma immaginavo un fratellino straordinario che mi assomigliava e che non mi avrebbe mai lasciato.
Quando Patrick è nato lo mostravo tutta fiera ai miei amici. Lo toccavamo, gli davano dei pizzichi, ma lui non reagiva. A cinque mesi qualche cosa cominciò a preoccupare la mamma. Sembrava così immobile, come intorpidito e il suono dei suoi pianti era strano, come quello di un gattino.

Abbiamo allora portato Patrick da numerosi dottori. Il tredicesimo che lo esaminò in silenzio, disse che aveva la sindrome “cri du chat” (Vedi Ombre e Luci n. 73-2001. ). Chiesi che cosa volesse dire. Mi guardò con compassione e con molta delicatezza disse: “Tuo fratello non camminerà e non parlerà mai. È una malattia cromosomica che colpisce un bimbo su 50.000 e rende i bambini ritardati”. La mamma fu scossa, io furiosa. Pensavo che non era giusto.

Di ritorno a casa, realizzai come la notizia che mio fratello non era normale si sarebbe subito diffusa. Così, per conservare la mia popolarità, feci una cosa impensabile: lo rinnegai. Mamma e papà non l’hanno saputo ma io decisi di farmi forza per non amarlo. I miei genitori lo coprivano d’amore e di attenzione; questo mi rese amara. Con gli anni questa amarezza si trasformò in collera e poi in odio.

La mamma non rinunciò mai a lottare per il bene di Patrick. Metteva per terra i giocattoli un po’ distante da Patrick: lui per raggiungerli si rotolava invece di andare a carponi. La mamma allora rivestì il suo corpicino con la spugna cosi che non potesse rotolare. Patrick si dibatteva e piangeva in modo pietoso. Ma la mamma fu irremovibile. E un giorno Patrick avanzò andando sulle mani e sulle ginocchia!

Quando la mamma lo vide, seppe che avrebbe camminato. Quando ebbe quattro anni andava ancora a carponi. Lei lo mise sul prato solo con il pannolino; sapeva che detestava il contatto dell’erba sulla pelle. Ogni tanto mi capitava di guardarlo dalla finestra e di sorridere del suo disagio. A più riprese la mamma lo mise sull’erba finché un giorno lo vide alzarsi e camminare a passo esitante fuori dall’erba. Papà lo prese in braccio piangendo. Guardavo dalla finestra questa scena straziante. A partire da quel momento, lo vedevo camminare, guardare i fiori, meravigliarsi degli uccellini o anche solo sorridere con gli occhi. Ho cominciato a riconoscere la bellezza del mondo attorno a me, la semplicità della vita e le meraviglie del creato. Fu allora che realizzai che era mio fratello e cominciai ad amarlo. Nei giorni seguenti abbiamo fatto via via conoscenza. Gli davo tutto l’amore di sorella. Lui mi ricompensava con sorrisi e carezze.

Nel giorno del suo decimo compleanno, ebbe fortissimi mal di testa. La diagnosi del medico fu: leucemia. In quel momento lo amai ancora di più. Non potevo sopportare di allontanarmi da lui. Era troppo malato per essere operato. Fino alla fine si è attaccato alla vita. Un mese prima di morire, mi ha chiesto di fare una lista delle cose che desiderava fare quando sarebbe uscito dall’ospedale. Ha chiesto ai medici di rientrare a casa per due giorni: abbiamo mangiato gelati e dolci, abbiamo corso sull’erba, ci siamo fotografati a vicenda, abbiamo lanciato dei palloncini.

Mi ricordo dell’ultima conversazione: mi disse che se moriva e io avessi avuto bisogno di aiuto, avrei potuto inviargli un messaggio in cielo legandolo al filo di un palloncino e farlo volare.
Poi, per l’ultima volta ebbe una crisi: il suo viso era coperto di lacrime. Era in ospedale; si sforzò di parlare ma le parole non uscivano. So che cosa voleva dire. “Ti ascolto – mormorai e aggiunsi: “Ti amerò sempre e non ti dimenticherò mai. Non avere paura. Sarai presto con Dio in cielo”.

Le lacrime scendevano senza freno sul mio volto mentre guardavo il ragazzo più coraggioso che ho conosciuto e lo vidi fermarsi di respirare.

Da quel momento Patrick fu la mia fonte di ispirazione. Mi ha insegnato come amare la vita. Con la sua semplicità e la sua onestà mi ha fatto scoprire un mondo pieno d’amore e di attenzione e ho capito che la cosa più importante è continuare ad amare, senza chiedersi perché né come, senza porsi dei limiti.

Sarah, 2003
(da O. & L. n. 143)

Mariangela Bertolini

Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.

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Avevo deciso di non amare mio fratello ultima modifica: 2003-09-04T15:46:16+00:00 da Mariangela Bertolini

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