Così si intitola il libro di Enrico Montobbio pubblicato di recente dalle Edizioni Del Cerro. Il sottotitolo spiega più chiaramente di cosa si tratta: la condizione adulta del disabile mentale.
L’autore immagina il divenire adulto del ragazzo down e in genere del disabile mentale, come un viaggio imperfetto ostacolato da insufficienze, barriere e limiti. Tuttavia — sostiene l’autore — se questo viaggio “seguirà un itinerario nella realtà cercando spazi di vita accettabili ed equilibri corretti fra competenze e limiti”, lo porterà ad essere un adulto, un uomo semplice, a volte molto semplice, ma non più un bambino, con un suo status attivo, cioè con un ruolo lavorativo preciso che gli riconosce diritti e doveri, che lo collega ai meccanismi sociali in modo autentico. La meta non è facilmente raggiungibile e l’autore sollecita genitori, educatori ma anche la società civile nel suo complesso a guardare al ragazzo disabile con occhio e mente rinnovati evitando nei suoi confronti atteggiamenti e iniziative che anziché aiutarlo in questo viaggio in salita, lo arrestano in modi di vivere infantili o falsi.
Due interi capitoli del libro sono dedicati al problema dell’adolescenza.
Secondo l’autore l’impossibilità di vivere una vera e propria adolescenza rende particolarmente difficile la crescita del disabile mentale. Questo tratto di vita, quando il giovane matura una nuova identità superando schemi e attitudini di tipo infantile, è un percorso difficile per tutti ma a lui è vietato.
Cerchiamo di capire il perché.
Sono state individuate quattro comunità, quattro realtà esterne che finiscono per essere quattro “stati mentali” tra cui l’adolescente oscilla continuamente:
- il mondo della famiglia dove è ancora accudito e soccorso
- il mondo degli adulti nel quale si addentra alla ricerca di nuove conquiste
- il mondo individuale dei pensieri e delle emozioni nel quale si rifugia
- il mondo dei coetanei, nuovo sostegno verso le nuove sfide.
Si capisce facilmente come per il ragazzo disabile siano limitate e parziali le esperienze in almeno tre di questi mondi. Lui, generalmente, continua a vivere soprattutto in famiglia o nel centro diurno che la sostituisce dove rischia di essere assistito e protetto dai genitori o dagli operatori come un bambino e “un disabile” da riabilitare a vita. Ma non è possibile per lui fare i giusti passi verso l’età adulta se le persone che gli vivono accanto non stabiliscono concordemente rapporti più idonei all’identità del giovane uomo che sta nascendo, piuttosto che al bambino di un tempo.
Ancora: l’adolescenza è notoriamente per tutti età di crisi e disagi che accompagnano i cambiamenti corporei e psicologici del ragazzo. E l’età in cui genitori e figli preparano la “separazione” il distacco desiderato e voluto ma insieme temuto e sofferto.
Per il ragazzo down e i suoi genitori tutto questo è ancora più confuso e difficile. I genitori naturalmente superprotettivi e timorosi nei confronti del loro ragazzo temono di nuocergli diminuendo l’intensità della loro protezione. Inoltre, sostiene Montobbio, il parziale distacco necessario per incoraggiare l’autonomia del ragazzo potrebbe far rivivere o adombrare in loro quel naturale, istintivo rifiuto che si vive al momento della nascita di un figlio diverso.
Ma riconoscere i nuovi diritti del figlio, accettare che divida nuove esperienze con altre persone, che cominci a “cavarsela da solo”, riconoscere che la sua infanzia è finita può essere una prova importante, un inizio di preparazione per quando, con grande probabilità il figlio adulto entrerà nella casa famiglia destinata ad accoglierlo per gli anni futuri. Perché quel passaggio avvenga nella maggiore serenità possibile è buona cosa prepararlo per tempo, a piccoli passi successivi.
Un altro aspetto problematico di questo momento è “L’incontro con il limite”. Uscendo dall’adolescenza ogni ragazzo riconosce i limiti dei genitori e li accetta, riconosce e accetta i suoi. Il suo progetto di vita non è più nel sogno ma si misura con la realtà “senza escludere coraggio e rischio ma anche rassegnazione e rinuncia”.
è necessario convincersi che ogni uomo, qualunque esso sia, ha diritto di essere come è
Per il ragazzo disabile mentale, per i suoi genitori, per gli operatori è naturalmente difficile da accettare rincontro con il limite, sul piano personale come sul piano della realtà. Il deficit intellettivo pone limiti severi, si sa, e il progetto personale credibile può essere difficile da accettare perché troppo modesto, non gratificante. Momento duro, certamente. Ma il viaggio verso l’età adulta non deve, per questo, interrompersi su un binario morto. Non si può considerare il figlio come eterno bambino libero di non crescere né progettare per lui un futuro irrealizzabile dandogli un’immagine falsa di sé. In questo momento delicato, un progetto concreto e credibile già tracciato nel passato può essere di grande aiuto se coltivato negli anni, sorvegliando le preferenze e migliorando le capacità del ragazzo.
I pensieri finali riconducono a quelli della premessa: per mettersi nell’atteggiamento mentale più giusto è necessario convincersi che ogni uomo, qualunque esso sia, ha diritto di essere come è, che i disabili mentali non sono da trasformare, nascondere, infantilizzare, sublimare, coccolare, compatire o curare come malati per una vita intera. Loro ci chiedono solo la libertà di essere come sono, in uno status sociale riconosciuto, in un ruolo lavorativo all’altezza delle loro competenze.
La tesi dell’autore, le riflessioni e le critiche che la illustrano sono coinvolgenti, in gran parte condivisibili e spunto vitale per nuove esperienze; nascono da una lunga esperienza nel campo degli inserimenti lavorativi dei disabili mentali anche se, l’autore sottolinea che in questo campo tante cose sono ancora da chiarire e rivedere.
Mentre leggevo le pagine finali e soprattutto l’invito a mettersi in un atteggiamento mentale più giusto, ho ripensato a come J. Vanier in un suo recente scritto tratteggia la maturità dell’uomo adulto… “Conoscenza di sé e dei propri limiti, accettazione di sé, accoglienza dell’altro e delle sue diversità…” …Mi sembrano aspetti di una personalità adulta che da soli non costituiscono uno “status” nella società, non sostituiscono la dignità che deriva dal ruolo lavorativo riconosciuto ma la completano forse, e aiutano a superare momenti e situazioni difficili che non possono mancare in ogni fase dell’esistenza e in ogni individuo.
Un’ultima osservazione, per concludere. Quando l’autore ci invita a considerare questi ragazzi non solo come individui da studiare e aiutare ma come persone che sentono e agiscono e entrano in relazione con altri anche a seconda del modo in cui noi li guardiamo, li pensiamo e siamo in relazione con loro, e quando parla della loro identità soffocata, della maniera inautentica con cui ci rivolgiamo a loro, tutti ci scopriamo un po’ colpevoli o, perlomeno, un po’ distratti e superficiali.
– Maria Teresa Mazzarotto, 2002
Insegnante e madre di 5 figli. Ha collaborato con Ombre e Luci dal 1990 al 1997.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.77
Editoriale
Andiamo avanti di M. Bertolini
Articoli
Un libro interessante sull’adolescenza dei ragazzi disabili di M.T. Mazzarotto
Accettare che mi lasci di M.H.Mathieu
Come preparare il distacco di N. Schulthes
Conoscere l'handicap: la sindrome Williams di Redazione
Scuole di lavoro di Jean Vanier
Storie di rapporti umani di Redazione
Rubriche
Libri
Piccoli messaggeri d’amore: genitori di bambini con la sindrome di down,
Nella stessa barca, AAVV