Che immagine trasmettono dell’handicap e delle persone handicappate i mezzi di comunicazione di massa?
Se lo è chiesto l’Istituto di ricerche economiche e sociali del Friuli-Venezia Giulia, che ha svolto uno studio con l’aiuto di quattro consorzi di cooperative sociali sparsi in tutta Italia, ai quali credo convenga rivolgersi per ottenere il rapporto finale della ricerca, intitolato Nessuna pietà , difficile da trovare nelle librerie perché non in vendita. I siti internet dei quattro consorzi sono:

Dalla ricerca, tv e giornali, più la prima che i secondi, escono a pezzi. Massacrati da una serie di critiche, generalmente fondate, che cercheremo di sintetizzare. Per la verità molte, se non addirittura la maggior parte, di quelle critiche andrebbero rivolte alla società nel suo complesso: non attengono cioè alla natura dei media, semmai alla mentalità di chi nei media lavora. Insomma, non è colpa della tv se un redattore, magari al primo incontro della sua vita con un disabile grave, invece di fare il suo lavoro di osservatore per quanto possibile distaccato della realtà, semplicemente finisce per immaginarsi nei panni scomodi della persona che gli sta davanti e ne tira fuori un quadro nerissimo senza la minima luce di speranza.

Ma andiamo con ordine.
Quali sono dunque le critiche principali che la maggior parte degli intervistati muove ai mezzi di comunicazione di massa?

Le critiche ai mass media

Anzitutto, l’incapacità di mostrare il «disabile di tutti i giorni». Tv e giornali non riescono a dar conto di tante vite normali, con difficoltà pratiche magari superiori alla media, ma anche un bagaglio di relazioni e di sentimenti superiori alla media. Invece, i modelli che «passano» sono quelli del malato o del supereroe.

Il malato, cioè l’individuo che porta con sé un carico di sofferenze indicibili: «ad esempio — scrive Luciano Scateni, giornalista Rai — un disabile che oltre a essere tale viene pure bistrattato o perde i genitori provoca rabbia e pietà, aumenta partecipazione e audience». Oppure il supereroe: chi riesce con una forza di volontà fuori dal comune a imporsi in un campo particolare, lo sport, la politica, lo spettacolo.

In entrambi i casi — ed è questa la critica — l’immagine del disabile è «altro da noi», rafforza il nostro senso di diversità e perciò ci rassicura.

L’immagine del disabile è «altro da noi», rafforza il nostro senso di diversità e perciò ci rassicura

Altra questione: servono le «storie» per raccontare l’handicap?

I giornalisti non fanno altro che chiedere storie, esempi, concretizzazioni. Il mondo del volontariato, quando asseconda questo desiderio, lo fa controvoglia. Ha paura della spettacolarizzazione, della strumentalizzazione. Ma qui c’è da chiedersi una cosa fondamentale: in nome di una maggiore apertura all’esterno del mondo dell’handicap e delle persone handicappate, siamo disposti ad accettare le regole del gioco dei mass media? Se sì, dobbiamo sapere che — come scrive uno dei grandi del nostro giornalismo, Demetrio Volcic — la tv non è process-oriented, ma event-oriented , cioè è nella sua grammatica partire da un dato concreto (una storia, appunto) per poi tentare una generalizzazione; è inadatta invece a spiegare i fenomeni, i processi in astratto. Questa è una delle regole da accettare se si vuole avere a che fare con i media. La bravura di chi «comunica» l’handicap è capire se il giornalista che ti sta di fronte cerca la storia per capire e far capire o piuttosto è uno dei non rari avvoltoi in cui ci si imbatte.

E i giornalisti?

A proposito di giornalisti, don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, si interroga: «Perché per occuparsi di sport o di economia i direttori dei giornali chiedono una particolare competenza e ad occuparsi di sociale mandano spesso gli ultimi arrivati?». L’obiezione è centrata e questa davvero non è una regola del gioco, anzi è una prassi poco edificante che persone handicappate e associazioni possono tentare di modificare.
Costruire un rapporto paritario con i media, diventare per loro una fonte di notizie e un interlocutore affidabile e smaliziato significa anche avere la possibilità di dire ai direttori: ma chi è lo sprovveduto che hai mandato oggi a intervistarci? La prossima volta scegli meglio!

Un altro che di rapporto mass-media e handicap se ne intende è Antonio Guidi, ex deputato e ministro. Ai giornali rimprovera anche lui di considerare le persone handicappate come persone «particolari» e non come persone «con problemi particolari». «Se non hai una gamba, sei uno zoppo; se hai attacchi di epilessia, sei un epilettico; se hai una spasticità, sei spastico — scrive — insomma il deficit ingloba tutta la persona». Anche qui si tratta di capire che i media hanno esigenze di semplificazione del messaggio. Non è che bisogna accettarle passivamente, ma sapere che esistono e sforzarsi di correggerle mettendo in risalto le positività della vita dello «zoppo», dell’«epilettico», dello «spastico».

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Inorridire di fronte alle semplificazioni e chiudere le porte in faccia al mondo significa accentuare il proprio isolamento. Fra i temi della ricerca non poteva mancare la questione Telethon. Le grandi maratone di beneficenza fanno bene o fanno male alla comprensione dell’handicap? La risposta che vien fuori è semplice: non fanno granché bene perché per attirare il grande pubblico dei «contribuenti» ripropongono lo schema collaudato e rassicurante della persona handicappata come soggetto da aiutare e compatire. D’altro canto raccolgono un sacco di grana (che però spesso sottraggono alle iniziative minori: sono tantissimi quelli che poi rispondono: «abbiamo già dato») e perciò servono. Sintetizza Ileana Argentin, consigliere comunale a Roma: «Telethon ha due facce: come persona disabile non posso che parlarne male, però una volta all’anno possiamo pure andare a fare i pupazzi visto che le nostre associazioni hanno bisogno di quattrini».

In conclusione

Handicap e marginalità trovano poco spazio sui media perché sono mondi complessi, sfuggono a schemi predefiniti, non muovono grossi interessi economici (ma attenzione, questo sta cambiando: l’impresa sociale fattura 1500 miliardi all’anno e le banche etiche si affermano dappertutto. Facciamolo sapere in giro!), perché i giornalisti non sono preparati e inseguono storie strabilianti di supereroi o supersfigati. Ma anche perché il mondo dell’handicap non riesce a vincere la diffidenza di chi è stato troppe volte sfruttato e incompreso.

Ma uno sforzo invece serve: di legittimazione delle regole dei media e di comprensione dell’utilità, sia pure per scopi egoistici, di tv e giornali. Forse se accettiamo chi fino ad oggi è stato avversario ci ritroveremo un alleato in più.

Vito Giannulo, 2000

Ricerca  a cura dell’Istituto Ricerche Economiche e Sociali del Friuli-Venezia Giulia – NESSUNA PIETÀ Ed. Images 1999, p. 186

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.72

Sommario

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Nessuna pietà – Che immagine trasmettono dell’handicap i mezzi di comunicazione di massa? ultima modifica: 2000-10-26T09:28:44+00:00 da Vito Giannulo

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