C’è sempre un po’ di titubanza quando ci viene richiesto di raccontare la nostra esperienza di famiglia, comincerò quindi con una piccola presentazione, per poter poi parlare come tra amici; infatti io conosco Fede e Luce attraverso racconti, persone, Ombre e luci…, ma la maggior parte di voi non conosce noi: siamo una famiglia che vive a Piacenza, formata “al momento” da 9-10 persone – non siamo una casa-famiglia, una comunità o altro – proprio una normalissima famiglia con i ritmi e le esigenze tipici di tutte le famiglie: il lavoro di noi due genitori, la scuola dei figli, gli sport, la parrocchia, ecc.
Perché allora ci viene chiesto di raccontarvi qualcosa di noi? Probabilmente perché degli otto bimbi e ragazzi che abbiamo in casa (più i due già grandi che ormai vivono da soli), solo cinque sono nostri figli, o perlomeno solo cinque sono nostri figli nel comune (e bellissimo) senso del termine. Gli altri sono quattro ragazzi e una bimba che, in tempi e con modalità diversi, hanno vissuto o vivono presso di noi in affidamento familiare. Allora ecco le domande, un po’ di tutti i tipi: perché farlo? Ma i vostri figli cosa ne pensano? Poi come si fa a separarsi? È difficile organizzarsi? I servizi sociali aiutano? Come sono i rapporti con i genitori? C entra la fede?
Andiamo con ordine. Per noi due la cosa viene da lontano: innanzitutto siamo stati entrambi figli, e figli molto amati; come si fa allora ad accettare che a qualcuno l’esperienza di essere amato “come un figlio” sia negata, che qualche bimbo o adolescente possa vivere in qualcosa di diverso da una famiglia? Poi è venuta l’esperienza fuori dalla famiglia: la parrocchia, la passione per i bambini, il catechismo, il volontariato… il desiderio, insomma, di dare alla nostra vita l’impronta di Gesù. Infine ci siamo incontrati e abbiamo messo insieme tante esperienze e tanti progetti, ma soprattutto ci siamo detti: possibile che certe cose si possano pensare solo finché si è giovani?
Abbiamo quindi cominciato a pensare, già durante il fidanzamento, che avremmo voluto dar vita ad una famiglia che fosse un luogo di accoglienza; pensavamo così di poter valorizzare nel modo più giusto tutte le esperienze precedenti, trasformandole in qualcosa che fosse possibile vivere come famiglia, e non solo ciascuno di noi due individualmente; inoltre desideravamo che potessero essere valorizzati non solo il nostro tempo e le nostre capacità, ma anche le nostre cose materiali, la nostra casa e tutto ciò che la Provvidenza e l’operosità dei nostri genitori e nostra ci hanno nel tempo affidato.
Cosa è successo in pratica? Ci siamo sposati circa quindici anni fa e, dopo un anno, entravano nella nostra casa la nostra prima figlia e il nostro primo ragazzo, che aveva allora 16 anni; poi sono arrivati altri figli e altri ragazzi, sono cominciate le prime partenze verso l’autonomia o il rientro in famiglia, fino ad arrivare all’oggi: in casa ci sono i nostri figli (dai 13 ai 4 anni), una bambina autistica di 9 anni (con noi da quando ne aveva 4), un ragazzo di 18 anni e, in alcuni periodi, una ragazza di 19 anni che era già stata presso di noi in passato.
Se dovessimo fare un bilancio di tutto questo, mi sentirei di dire alcune cose:
Innanzitutto per me la famiglia affidataria (o la famiglia accogliente in generale) non lo è solo durante il periodo dell’eventuale affido, ma lo rimane sempre: assume, infatti, una modalità di rapportarsi agli altri molto più elastica, diventa una famiglia attivatrice di tante piccole solidarietà (vicinato, amici dei figli, ecc.) che sono poi quelle forme di sostegno reciproco che dovrebbero dovunque essere rivitalizzate, e che spesso potrebbero concorrere a prevenire interventi più seri: in questi anni ci è capitato di sostenere, in modo più o meno lungo nel tempo, tre mamme in difficoltà per motivi molto diversi tra loro, e mi piace pensare di aver forse concorso ad evitare che per i loro bimbi si sia reso necessario un vero e proprio affido; inoltre la presenza, all’interno della famiglia, di un bimbo o di un ragazzo non proprio costringe a riconsiderare i rapporti anche con i propri figli: direi quasi che nel momento in cui ci si coinvolge “come genitori” con un bimbo in affido, si impara ad essere “meno coinvolti” (ma nel senso buono del termine) con i propri figli, ci si allena a considerare anche i propri figli affidati a noi, ma non “nostri”;
I figli di una famiglia affidataria, poi, si allenano alla solidarietà: questa può sembrare una osservazione scontata, ma invece per noi non è così, infatti i figli vanno rispettati nelle loro riserve e nelle loro paure (anche nei loro piccoli egoismi), e allo stesso tempo vanno spronati, spinti in avanti, incoraggiati verso valori, ma soprattutto modi di vivere, che trovano forse l’ammirazione, ma molto raramente la condivisione da parte degli amici e dei coetanei; in particolare, la decisione di accogliere Lucia cinque anni fa, una scelta che inizialmente era stata ben compresa e condivisa, nei limiti consentiti dalle rispettive età, ci ha portati, nel tempo, a vivere momenti di difficoltà via via che anche le caratteristiche della famiglia mutavano e sia lei che gli altri figli crescevano; gli ultimi due anni sono stati spesi nella ricerca di un equilibrio fra le esigenze sue e degli altri, nello sforzo di capire quale fosse il significato vero dei segnali di insofferenza provenienti in particolare dai nostri due figli più grandi;
Infine, l’affido per noi è stato fonte di grandissime soddisfazioni da vari punti di vista; in particolare ci piace vedere nel futuro dei nostri ragazzi progetti di studio e di lavoro, il recupero di relazioni sane con i propri genitori, per il più “vecchio”, che ha ormai 29 anni, il matrimonio e il desiderio di formare lui stesso una famiglia aperta all’accoglienza: cosa potremmo desiderare di più, tenendo anche conto del fatto che con nessuno dei nostri ragazzi abbiamo dovuto interrompere i rapporti, ma magari semplicemente fare un passo indietro quando le loro famiglie hanno saputo o potuto riappropriarsi in pieno del loro ruolo?
– Barbara Vaciago Colpani, 1999
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.68, 1999
Sommario
Editoriale
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