Settembre ’96: Roberto entra in Comunità, una struttura comunale sovvenzionata dallo stesso comune, gestita dalla ASL e dagli stessi operatori della cooperativa che per dieci anni lo hanno assistito a casa.
Il posto è bello, dentro il centro abitato ma con un bel giardino alberato attorno e un melograno, da cui la casa ha preso il nome, nel mezzo.
Tutto bene, mi ritengo fortunata di aver trovato questo aiuto; chi ha vissuto trentatré anni con un figlio autistico, conosce la fatica ed io in questo periodo sono stressata anche perché sono rimasta vedova, ho problemi per la mia salute e altre preoccupazioni. Quindi dicevo: sono contenta, si è realizzato il mio desiderio di vedere dove starà mio figlio con persone che lo conoscono; in cuor mio ringrazio chi mi ha aiutato a ottenere tutto questo.
La comunità è vicina a casa mia, a due fermate di autobus, ma, per chi piace camminare, è una bella passeggiata. Potrò andare a trovarlo spesso, starò lì qualche oretta del pomeriggio, porterò il gelato o le pastarelle per tutti i compagni (come a una festa). Forse potrò riordinargli la stanza e i cassetti della biancheria. Non voglio abbandonarlo.
Purtroppo non sarà così, c’è un’altra prova dura da affrontare. Mi dicono di non andare: è meglio per Roberto che non mi faccia vedere lì. Più avanti — mi dicono — potrò prenderlo a casa quanto vorrò. Si chiude il cancello. Così ci siamo separati madre e figlio.
Sono sulla strada di ritorno dalla Comunità a casa mia; non prendo l’autobus perché non voglio farmi vedere dagli altri così stravolta. Non credo di riuscire a capire il senso di tutto questo, forse non sono preparata spiritualmente. Dentro di me sento una confusione di sentimenti, di ribellione: capisco mio figlio quando esplode con la sua carica emotiva. Ho la tentazione di andare a riprenderlo, di riportarmelo a casa fino alla fine dei miei giorni: dopo si arrangeranno gli altri figli. (Poveri figli…).
Credo che non si muore di dolore, si continua a vivere malgrado tutto. Per qualche settimana continuo a gironzolare intorno alla Comunità, vado a fare la spesa nei negozi vicini nella speranza di intravedere Roberto: lo vedo, è con il suo operatore, mi sembra abbastanza tranquillo. Dio ti ringrazio! Se mi potesse dire: «Mamma, sto bene, non preoccuparti».
Pensavo che un giorno non avendo mio figlio sempre con me, mi sarei sentita più leggera, sollevata, invece niente. Perché tante prove? Devo sempre confrontarmi con me stessa: ho fatto bene, ho fatto male? Quanta forza per dire di sì a tutte le sofferenze, quel sì che ti fa accettare tutto: la morte, la separazione dal figlio e il partire anche quando non vorresti lasciare gli altri figli.
Mi sono fatta coraggio, sono partita: vado a Venezia, la mia città natale. Qui rivivo con i ricordi la mia infanzia, rivedo la chiesa dove mi sono battezzata, cresimata e sposata con il mio Carlo… Abbiamo vissuto poi insieme per quarant’anni. Poi sono andata alcuni giorni a Conegliano dal mio figlio maggiore che ha tre ragazzi dolcissimi. Ho fatto la nonna (cosa che non avevo mai provato), loro mi hanno aiutato a svagarmi con i loro racconti, è stato bello.
Ma il mio cuore sta dove c’è un giardino con al centro un melograno. Ancora non riesco a separarmi da questo figlio così difficile, che a volte sembra capisca tutto, a volte sta dall’altra parte dell’universo. A volte è un bambino, a volte ti dà dei messaggi che io stessa non riesco a percepire al momento. Forse perché non seppi mai cogliere i suoi messaggi indecifrabili per me, Roberto è un figlio «speciale». Probabilmente amiamo di più quanto non riusciamo a comprendere.
Giugno 98. Sono trascorsi quasi due anni da quando Roberto sta in Comunità. Tre volte al mese viene a casa per rientrare il giorno dopo. L’ultima volta era molto sereno: vuole stare in cucina con me a preparare il pranzo o la cena. Mi racconta come può, qua e là, la vita in Comunità: credo che stia bene, lo ci sono stata tre volte, nelle festività grandi, insieme con gli altri genitori per scambiarci gli auguri. Mi vedo con un’altra mamma che ha la figlia in Comunità: poiché sua figlia è più grave di Roberto, lei va spesso a portarle le cose che le servono. Le chiedo notizie, mi dice che stanno benissimo e io le credo.
Con il tempo che passa sto accettando tutto con più serenità.
– Lina Cusimano, 1998
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.63, 1998
Sommario
Editoriale
Sapersi meravigliare di M. Bertolini
Il melograno
Roberto trova un'altra casa di L. Cusimano
Ora può riposare di M. I. Sarti
Roberto, chi sei? di M. Cusimano
Giorno di festa al Melograno di N. Schulthes
Altri articoli
Impossibile tacere
Isolamento infranto di A.M. Vexiau
Sinceramente increduli di C. Colaizzi
Catechesi facilitata di Don A. Lonardo
I nostri grandi amici: Maria Teresa di B. Morgand e N. Herrenschmidt
Congresso mondiale dei movimenti ecclesiastici 1998a cura di D. Mitolo
Libri
Hikari – «Una famiglia», O. Kenzabuto