Li incontriamo per la strada, a scuola, nel quartiere, in parrocchia, nei negozi, al lavoro; e non li riconosciamo. I segni esteriori delle loro disabilità sono, a prima vista, quasi impercettibili.
Si stima che, nella società in cui viviamo, le persone definite disabili lievi, o leggermente ritardate siano il sei per cento.
Si parla poco di loro, quasi che il tacere serva ad allontanare o a nascondere le loro difficoltà.
Gli stessi genitori faticano ad esprimere quanto quel loro figlio «così quasi normale» turbi la vita della famiglia, metta a prova la pazienza, irriti con i suoi perenni timori, deluda per i continui insuccessi.
Lo amano come e anche più degli altri fratelli e sorelle, vorrebbero spianargli la strada, trovare per lui soluzioni idonee a far sì che «stia bene», che non si tormenti, che non si chiuda.
Tutto appare di poca gravità eppure – lo sanno bene le mamme ed i papà – tutto è così difficile, inspiegabile, confuso, imprevedibile.
Mi diceva una mamma: «Sai, a volte, vorrei che Paolo fosse un handicappato più grave… almeno saprebbero tutti che certe cose non le può fare. E poi, forse, sarebbe più facile che qualcuno gli volesse bene, lo venisse a cercare, lo invitasse… Così è sempre solo, deluso, scoraggiato! Mi accusano di averlo viziato. Può darsi.»
È un papà: «Fanno presto a dire che dovrei mandare mia figlia Carolina da sola. Io la conosco meglio di loro. Sa il cielo quanto vorrei che si sapesse difendere… con quello che c’è in giro!»
Purtroppo dobbiamo riconoscere che è facile ammettere che un cieco non vede, che un sordo non sente, che uno «spastico» cammina o parla male… non è altrettanto facile accogliere con generosità e pazienza chi ha solo qualche difficoltà: un po’ di lentezza a capire, ad apprendere, a giocare con disinvoltura, a scherzare, a sbrigarsi, a parlare, a svolgere le normali semplici attività… Queste difficoltà non suscitano tenerezza, rispetto, considerazione; anzi, il più delle volte, provocano un senso di irritazione, la voglia di urlare.
Avviene così, con molta frequenza, che si preferisca girare le spalle e abbandonare una persona che per «star bene», ha bisogno della nostra accoglienza più del pane.
Come e più di ogni persona «normale», i nostri amici lievemente disabili hanno bisogno di trovare luoghi rassicuranti dove interlocutori, attenti alle loro difficoltà nascoste, manifestino nei loro confronti fiducia per quello che sanno dare e fare. Non di più. Li aiutino a progredire a sviluppare le capacità che posseggono senza pretendere nulla di più. Si facciano interpreti dei loro desideri, aiutandoli a scoprire quali possono realizzare, senza mai promettere quello a cui non posson tendere.
Questi interlocutori attenti non siamo forse tutti noi, che li incontriamo per la strada, a scuola, nel quartiere, in parrocchia, nei negozi, al lavoro? Forse, se ci pensiamo un po’ sopra, ci sarà più facile riconoscerli, accoglierli e non lasciarli soli.
– Mariangela Bertolini, 1998
Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.
Tutti gli articoli di Mariangela
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.61, 1998
Sommario
Editoriale
Quella lieve disabilità di M. Bertolini
Articoli
Teresa di O.L.
Benedetta di T. Cabras
Margherita di F. Rota
I nostri grandi amici: Luigi Monza
Marco e Daniela di M. Ricci
La scelta di alessandra di M.T. Mazzarotto
L’associazione “La Nostra Famiglia” di Redazione
Rubriche
Libri
Jean Vanier e l'arca, K. Spink
Tre racconti dello Spirito, C.M. Martini
10 Passi verso il pensiero positivo, W. Dryden