Chi non l’ha provato, non può capire», mi diceva una mamma parlando del vuoto incolmabile lasciato dal suo bambino, gravemente disabile, volato in cielo a dodici anni.
Chi non ha provato… si dice per ogni sofferenza sulla terra: bisogna percorrere la stessa strada per entrare nel mistero del dolore. Ma quando chi ci lascia è una persona (bambino, giovane o adulto) che agli occhi dei più sembra essere solo un peso per la famiglia, sembra solo un errore della natura, una sconfitta della scienza, sembra non avere i requisiti per godere la vita, una delusione per i genitori e i fratelli…

Allora, al momento della sua morte, c’è un bisbigliare sommesso, un pensiero nascosto fra parenti e conoscenti: «Non è forse meglio così, per lui e per i suoi? Ha finito di soffrire e di far soffrire… ora sta bene!»
Si insinua, a volte, nell’animo di alcuni, la domanda che vorrebbero rivolgere ai genitori: «Ma davvero soffrite per la sua morte? Non vi sentite liberati da un peso che vi schiacciava?»
Ecco perché chi non ha provato, non può capire e dovrebbe tacere, anche nell’intimo di se stesso.
Ho conosciuto molti bambini e ragazzi portatori di gravi handicap; alcuni non hanno mai parlato, mai camminato; altri avevano un comportamento difficile da capire. La loro vita sembrava una non vita per loro e per i loro genitori, costretti dall’amore per il figlio, ad una esistenza rude, piena di sacrifici e di rinunce; tormentati dalla speranza costante: «cambierà, crescerà, guarirà…».
Se ne sono andati prima del tempo, spesso in silenzio, a volte all’improvviso.

Parlando con i loro genitori, rimango colpita da un aspetto che accomuna molti di loro: questo figlio, apparentemente così diverso, così difficile, ha lasciato, morendo, un vuoto incolmabile e indicibile; è passato come un ciclone nella loro vita di coppia e di famiglia. Ep pure è stato e rimane un «maestro di vita». Quasi tutti i genitori con cui ho parlato, hanno imparato a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è marginale; a dare il giusto valore alle cose e alle situazioni; a tenere in poco conto certi bisogni e desideri che ai più sembrano di estrema importanza. Ogni cosa assume un significato diverso alla luce della presenza/assenza di quel figlio. «È come se fosse sempre qui, con noi!» «Ci ha mostrato il cammino, non possiamo più tirarci indietro!» E chi si era impegnato, a causa dei suoi bisogni, nell’aiuto alle persone disabili, ora che «lui non c è più», si sente spinto a fare meglio: l ‘impegno si trasforma in missione. «Ma dopo tanti anni, come mai ti senti spinta a continuare su questa strada non facile, a passare le tue poche vacanze con loro?» — chiedevo ad una mamma dalla vita non certo libera da impegni. «Come si può dimenticare? Lui e quello che ci ha insegnato, è troppo grande, è troppo misterioso!».

Qualcuno potrà dire: «Ma sai, fanno così per cercare di riempire il vuoto che i loro figli hanno lasciato. È un modo come un altro per consolarsi della sua perdita!».
Forse perché da circa vent’anni cerco di seguire il grande insegnamento che la mia bambina andandosene ci ha consegnato, non credo che sia per questi motivi; né per riempire il vuoto, né per cercare consolazione.
Credo — e ringrazio ogni giorno il Signore per questo — che veramente il loro passaggio nelle nostre famiglie abbia un significato molto più profondo: con la loro vita — così povera ai nostri occhi — misteriosamente «hanno riempito spazi infiniti».
A noi di saper meritare di muoverci in quegli spazi.

Mariangela Bertolini, 1997

Mariangela Bertolini

Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.

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Quando se ne vanno prima di noi ultima modifica: 1997-03-26T08:19:37+00:00 da Mariangela Bertolini

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