Una delle iniziative dell’Istituto, è il «Premio Internazionale Paolo VI» destinato a personalità o istituzioni che , con gli studi e le opere, abbiano contribuito in modo rilevante alla cultura di ispirazione religiosa.
Il 19 giugno 1997 l’Istituto ha conferito a Jean Vanier, fondatore delle Comunità dell’Arca e iniziatore del movimento Fede e Luce, il «Premio Internazionale Paolo VI».
“Nell’anno centenario della nascita di Papa Montini,” è scritto nella motivazione del premio, “ricorrendo il trentesimo della promulgazione dell’enciclica Populorum Progressio, si intende così onorare un grande e attivo interprete di quella che Paolo VI chiama «civiltà dell’amore», che presuppone una visione globale dell’uomo e dell’umanità.»
Il discorso di Jean Vanier
Molti uomini e donne che abbiamo accolto nelle nostre 105 comunità, distribuite in 30 paesi, prima di arrivare all’Arche vivevano chiusi in forme di depressione e di violenza; avevano una immagine negativa di se stessi, e talvolta arrivavano ad atti di automutilazione e desideravano di morire. Rifiutati dalla società, avevano rifiutato se stessi. Vivevano in un’assenza totale di fiducia in sé, inconsapevoli della loro personale dignità, del loro valore umano e del significato della loro vita.
Una volta accettati, quando si avvedono di essere rispettati e amati, molti
“In una società che emargina i deboli e minaccia la loro vita in nome d’una pretesa libertà, la pedagogia della condivisione della vita delle persone con handicap mentale, vissuta da Jean Vanier e dagli assistenti delle Comunità dell’Arca, costituisce al contempo una affermazione ideale e un concreto riconoscimento del valore unico e irripetibile di ogni persona umana. ”
“Jean Vanier ,; come fondatore delle Comunità dell’Arca e come iniziatore e ispiratore del Movimento Fede e Luce, ha contribuito in modo ragguardevole all affermazione di una cultura della solidarietà. ”
Oggi vi sono più di cento Comunità dell’Arca in trenta Paesi , dove uomini e donne condividono la vita dei loro amici con handicap mentale, e più di 1.250 comunità di Fede e Luce in settanta Paesi dove alcune persone con handicap mentale, le loro famiglie e alcuni amici si riuniscono regolarmente per scambiarsi le loro esperienze, per vivere momenti di festa e per pregare insieme. Nella società moderna queste comunità sono un segno e un esempio stimolante della “civiltà dell’amore”.
vivono una vera trasformazione. Lentamente passano dal caos alla vita. Ci fanno così scoprire che “amare” non è in primo luogo fare qualcosa per qualcuno, ma fargli scoprire il suo valore: rivelargli che è bello, che è importante; che la sua vita è preziosa. Questa rivelazione avviene attraverso gli occhi, le mani, il tono della voce, attraverso tutti i gesti quotidiani del corpo. Avviene attraverso una qualità di ascolto, di presenza e di pedagogia nella fedeltà e nel tempo. Questa attenzione benevola a poco a poco diventa comunione dei cuori, infatti perfino la persona con handicap grave risponde all’amore coll’amore. La comunione è diversa dalla generosità. Nella comunione c’è una reciprocità di relazione, un andare e un venire dell’amore; ognuno dà e ognuno riceve. Ognuno è in ascolto dell’altro e diventa vulnerabile davanti a lui. La comunione non è né fusione, né controllo, né potere, né possesso. È una relazione di fiducia reciproca, basata su una condivisione non solo dei valori di ciascuno, ma anche delle sue povertà e dei suoi limiti, essa trasforma l’immagine ferita e deprimente della persona in un’immagine positiva, facendogli scoprire il suo valore, la sua dignità e dandogli speranza e una ragione di vita.
(…)
La comunione è il luogo di guarigione dei cuori chiusi nello sconforto della malattia mentale, dell’alcolismo, della vecchiaia, di tutti gli uomini e di tutte le donne che si sentono oppressi da una forma di povertà materiale o umana. La comunione è al centro della vita delle persone con handicap mentale, che non arriveranno mai al pieno sviluppo della loro intelligenza e della loro autonomia, ma che possono raggiungere una vera maturità del cuore.
Una comunione che ci trasforma
Questo richiamo alla comunione trasforma la vita di coloro che accettano di entrare in relazione con queste persone, come gli assistenti dell’Arche o perfino i genitori. In effetti, molti giovani e meno giovani oggi hanno sovra-sviluppate le loro conoscenze e le loro competenze, in uno spirito di competizione aggressiva e di ricerca di potere, anche spirituale. Pensano che per essere e vivere si debba vincere a ogni costo, essere migliori, dominare sugli altri e inseguire il successo. Questi giovani, inconsapevolmente, trascurano lo sviluppo del loro cuore; forse hanno paura; restano degli immaturi sul piano dell’affettività e della sessualità. Faticano a trovare la loro unità interiore. Diventando amici di persone con un handicap, scoprono il loro cuore, non come luogo di sensazioni e di emozioni passeggere, ma un cuore plasmato di luce, di intelligenza, capace di generare altri alla libertà e alla vita. Così nasce una unità tra la loro testa e il loro cuore. E un lungo itinerario di maturazione e di trasformazione.
In realtà questa trasformazione è dolorosa; infatti le persone con handicap non sempre sono tranquille e chiamano alla comunione. Talvolta sono piene di collera, di depressione, di violenza e di rifiuto della vita a motivo delle frustrazioni legate ai loro handicap e ai rifiuti subiti. Queste persone rivelano tutta la loro povertà e la loro incapacità di amare a quanti cercano di entrare in relazione con loro. Vivere con loro li fa toccare un mondo di tenebre, di paure, di angoscia e di violenza nascosto in loro stessi.
Fino a quel momento, questo mondo di tenebre era nascosto o coperto dietro muri psicologici che lo incanalavano in pregiudizi, verso una ricerca di potere, un bisogno di dominare o di controllare. Certamente questi muri sono necessari a un certo punto della vita per proteggere la persona, ma a poco a poco devono cominciare a dissolversi per consentire alla persona di entrare in una relazione di comunione, di vulnerabilità, di fiducia e di umiltà con un altro, soprattutto con chi è diverso, più povero. Soltanto allora possono scoprire in lui tutto ciò che è bello e vero a immagine di Dio.
Ma quando, per una forza di amore interiore, questi muri cadono, angosce e perfino violenze possono arrivare al livello di coscienza. Coloro che osano sperimentare questa comunione perdono una certa identità di potere, e alcune certezze su se stessi. Hanno bisogno di un buon accompagnamento umano, spirituale e talvolta psicologico. per poter riconoscere e integrare al tempo stesso le loro capacità di tenerezza e le forze caotiche di paura nascoste nel loro essere. Hanno bisogno di essere aiutati a crescere in una vita di comunione e in verità, integranti le leggi umane. Allora molti compiono il passaggio dalla fede e dalla fiducia solo umana nella persona con un handicap mentale, a una fede e a una fiducia nell’Amore, in Dio e in Gesù. Scoprono il cuore ferito e amante di Gesù dolce e umile di cuore, il Sacro Cuore e la comunione con il suo Corpo Eucaristico.
Questa comunione semplice e umile con le persone deboli diventa non solo un luogo di maturazione umana ma un luogo di comunione con Gesù e in lui e con lui, con il Padre. Dio non è forse nascosto in questa comunione? “Ubi caritas et amor, Deus ibi est.” “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1 Gv 4,7). Questa comunione introduce progressivamente nella stessa vita di Dio Trinità, che è comunione e dono d’amore, e nel mistero annunciato da Gesù: “Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato” (Le 9,48).
La comunità’: luogo della comunione
La vita di comunione esige una comunità calda, affettuosa e competente. Se la comunità può essere un luogo straordinario di appartenenza, dove non ci si sente più soli, essa è anche un luogo faticoso di purificazione. La vita comunitaria con le sue difficoltà di relazione ci rende mondi. Essere mondati, sfrondati, è necessario per liberarsi dai falsi “io” e raggiungere l’unità interiore e la maturità umana. Le comunità dell’Arche sono fondate sulla sofferenza e sulla croce, ma sono anche comunità di resurrezione. E proprio perché sono comunità di resurrezione è possibile questa purificazione. Le persone con un handicap, come pure gli assistenti e i genitori, sono chiamati ogni giorno a vivere il mistero pasquale. La comunità fornisce il sostegno necessario, ravviva le motivazioni e dà un senso alle sofferenze per mezzo della parola comunitaria e della parola di Dio; la comunità chiama ciascuno a camminare umilmente nella preghiera e nello Spirito Santo; la comunità nutre i cuori con l’Eucarestia.
La prima missione dell’Arche è questa vita comunitaria con le persone con un handicap mentale, inserita in paesi o in quartieri di una città e nella Chiesa locale. La vita comune vuol essere un segno per la Chiesa e per il mondo, segno che rivela la bellezza delle persone deboli e l’amore di Gesù che ci chiama tutti, forti e deboli, ad amarci gli uni gli altri e ad aprirci a coloro che sono diversi o sofferenti.
La vita quotidiana di queste comunità è semplice. Ogni giorno è simile al precedente. C’è la sveglia, il sonno, il pasto, il lavoro, i tempi della preghiera e della festa. E ciononostante ogni giorno è pieno di imprevisti. Le comunità dell’Arche intendono essere profondamente umane, evangeliche e contemplative, vivendo ogni giorno alla presenza di Gesù nascosto nel cuore della comunità e nel cuore di ognuno. Noi siamo chiamati a vivere la benedizione, annunciata da Gesù, lavandoci i piedi gli uni gli altri, con gesti di comunione e di servizio e mangiando insieme alla tavola dei poveri: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i tuoi ricchi vicini… Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato” (Lu 14, 12-13)
Che giorno emozionante
Con entusiasmo, un giorno di giugno ricevetti da Lucia Casella la notizia che ero stato invitato a partecipare all udienza in Vaticano con il Santo Padre in occasione del Premio Internazionale Paolo VI, conferito a Jean Vanier per aver contribuito in maniera rilevante alla cultura di ispirazione religiosa.
È stato un giorno molto emozionante quel giovedì 19 giugno perché ho potuto rivedere da vicino Jean Vanier, il Papa e i ragazzi dell’Arca.
Durante l’udienza mi sembrava un sogno la sua presenza semplice e gioiosa in mezzo a noi e con la mente ripercorrevo gli anni passati, quando ancora piccolo l’ho visto per la prima volta a Roma ad un incontro internazionale di Fede e Luce.
Anche in un momento bello e importante per lui, ha voluto la nostra presenza per dimostrare l’amore e il rispetto verso i deboli con i quali condivide anche la sua vita.
Infine un grazie speciale a tutti gli amici di Fede e Luce di Roma che ho conosciuto ai campi estivi, che non solo mi ospitano, quando desidero venire a Roma, ma anche mi aiutano durante la mia permanenza: con la loro disponibilità ho potuto conoscere le bellezze della città e tanti altri nuovi amici.
– Gianni (Comunità S. Lorenzo – Abano T.), 1997
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.59, 1997
Sommario
Editoriale
La loro vita nei film di M. Bertolini
Articoli
«Figli di un dio minore»
«L’ottavo giorno»
«Rain man»
«Il mio piede sinistro»
Catalogo ragionato di film dedicati al tema della disabilità
Il compleanno di Chiara
Premio «Paolo VI» a Jean Vanier
La nostra casa di M. Bartesaghi
Libri
Venite e vedete – Un ritiro con Jean Vanier
E dopo parliamo d’amore