Anche se la memoria non mi aiuta credo di non essermi chiesta molti perché sul modo di vivere dei miei fratelli, un modo diverso dal mio. ma normale ai miei occhi. Una realtà diventata «anormale» quando sono entrata nella scuola e che, nel corso degli anni, mi ha fatto scoprire le mie difficoltà, i miei bisogni, le mie carenze. La mia realtà personale e famigliare è diventata problema quando gli altri me lo facevano pesare e mi trattavano con pietà. Sì, perché senza saperlo mi portavo addosso una realtà molto grande: avevo due fratelli e una sorella con handicap grave, tutti e tre seduti su una carrozzella.
Abitavo in un piccolo paese di tremila abitanti, in aperta campagna, dove tutti ci si conosce. Di conseguenza tutti mi conoscevano e mi avvicinavano come la «sorella dei tre bambini infermi».
Credo che in tali confronti io abbia sentito in maniera più forte cosa significhi la sofferenza, o, meglio ancora, la diversità, l’handicap, termine che ancora non conoscevo ed era poco usato. Questa sofferenza psicologica era tutta mia, i genitori non avevano tempo, erano troppo presi dalla loro realtà e non si sono accorti di me. Non hanno sentito i miei pianti, spesso soffocati per non farmi vedere, non hanno sentito i miei perché gridati al vento correndo per i campi. Nessuno ha sentito.
Ho brutti ricordi della scuola dell’obbligo, soprattutto il modo diverso con cui mi trattava il personale docente, il prendermi in giro da parte dei compagni e l’usarmi come capro espiatorio. In quei momenti ho desiderato molto avere un fratello o una sorella che prendesse le mie difese, che mi aiutasse. Invece niente, non potevo contare su nessuno. E come in molte famiglie come la mia, cioè con la presenza dell’handicap, spesso c’è anche un dissapore più o meno forte tra i genitori. Tra i miei è abbastanza accentuato, soprattutto lo è stato nel passato.
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Non saprei esprimere la fatica vissuta, la sofferenza, o meglio il dolore vissuto in certi momenti; dolore appesantito dal fatto di avere dei fratelli e di non poterci contare: non esistevano, eppure c erano. Quante volte mi sono rivolta a loro dicendo: «Perché non mi aiutate? Da sola non ce la faccio! Perché non vi muovete?» Non mi hanno aiutata come avrei voluto, ma almeno mi hanno ascoltata, cosa che pochi hanno fatto, e so anche che il loro sguardo era molto attento.
Il tempo è passato. Nel frattempo il fratello maggiore, Enzo, ha raggiunto il Padre. In famiglia molte cose sono cambiate e altre sono rimaste le stesse. Spesso mi sono arrampicata sugli specchi per conquistare qualcosa, un posto nel mondo, una dignità personale. Soprattutto ho rotto più volte il naso per poter essere quella che sono, staccandomi quell’etichetta che mi avevano appiccicato, cioè «la sorella di…». Non perché rifiuto la mia realtà, ma perché ho il diritto di essere persona, e considerata tale al di là della situazione in cui vivo. Ci sono stati incidenti che mi hanno fatto male, dovuti anche al fatto che chi mi viveva accanto (genitori, parenti, educatori, coetanei) non vedeva le mie fatiche e le mie ferite. Io sola sentivo di essere immersa in una realtà malata che mi avvolgeva.
Oggi posso distinguere le diverse solitudini in cui ho vissuto: la solitudine come figlia, l’unica che protesta, che si fa sentire, che esige e pretende di essere ascoltata anche se non lo sarà, che ha delle esigenze diverse da quelle degli altri figli.
La solitudine nelle amicizie: quanta fatica trovare amici, e mantenerli. Già, perché i tempi a mia disposizione sono sempre stati molto diversi dai loro; e chi è disposto ad aspettare, avere pazienza? E perché non avvicinarsi all’handicap, visto che io vi sono comunque legata?
La solitudine rispetto all’altro: legarsi con una come me, in tale situazione.
La solitudine con i parenti: io non conduco una vita come i cugini o gli zii. Da parte loro c’è una accettazione silenziosa, ciascuno fa la propria vita, io devo fare la mia che è molto diversa dalla loro. È fatta spesso di lotte, di ingiustizie, di fatiche, di rinuncie, e perciò non c’è nulla da condividere.
La solitudine nella comunità parrocchiale e civile: abbiamo vissuto tanto pietismo, quel modo di fare che ferisce. Nessuno ci ha aiutati ad uscire dal nostro guscio (parlo al plurale perché è un peso vissuto insieme alla mia famiglia).
Enzo (ieri), oggi solo Giorgio e Cristina sono troppo gravi, e ad uscire provocherebbero molto disagio. Spesso sono stata giudicata per quello che non ho fatto, come se la colpa fosse solo mia. Come tanti altri abbiamo vissuto la diversità per quanto riguarda i sacramenti, una diversità segnata anche da frasi taglienti sul perché non ci davamo da fare. Quando mi sono resa conto dell’«ingiustizia cristiana», ho affrontato da sola la situazione e per due anni ho bussato alla porta di diversi sacerdoti per arrivare ad «ottenere» la Comunione per Giorgio e Cristina facendomela sentire come un «favore» conferitomi.
Nella comunità civile lascio a libera interpretazione, visto che è un campo scottante per tutti. Posso dire che ciò che ho affrontato — conquiste e umiliazioni — l’ho vissuto da sola perché i miei genitori hanno lasciato le redini e si sono rassegnati. Sono sola anche nel pensare alla loro salute: prima a quella di mio padre, ora soprattutto a quella di mia madre, che si lascia andare, stanca della vita e del dolore.
Avrei voluto, e lo desidero ancora oggi, avere un fratello o una sorella per potere condividere almeno in parte tutto il mio bagaglio. Quando sento qualcuno che litiga con il proprio fratello dico tra me: «Come vorrei poterlo fare anch’io, sarà fastidioso, ma può essere anche bello».
Comunque la solitudine nella sofferenza. nell’handicap, mi ha dato anche molto: mi ha educata a non perdermi sulle banalità, a mettermi all’opera senza aspettare, a credere e a contare in ciò che sono e posso fare; ad essere più responsabile come sorella, come figlia, come donna; a far silenzio e ascoltare anche chi non parla, a non pretendere che siano altri che facciano; ad apprezzare le mani che si aprono e mi aiutano. Se è vero che ho vissuto molta solitudine, è anche vero che se non ci fossero stati Giorgio e Cristina, disabili, sarebbe stato un inferno. Se loro possono essere la causa, loro per me sono anche l’àncora di salvezza che mi ha permesso di poterla vivere, ma soprattutto sono stati i mezzi che mi hanno condotta all’Essenziale, a Lui, il Signore, che ha vissuto la croce nella solitudine per condividere anche la mia. Nello sguardo profondo di Giorgio, Cristina ed Enzo, nella loro serenità ho incontrato Colui che è sempre presente.
Comunque non è stato facile e non lo è tutt’oggi: ferisce sempre il sentirsi umiliati, l’essere lasciati in un angolo della strada per pietà, l’essere giudicati per ciò che non si è o perché si è tentato di farsi portavoce di chi non ha voce. Ma la vita non è solo questo, c’è anche la grazia di un Padre che ama, ci colma di beni, e si fa amico, fratello, madre e padre nei modi che solo Lui sa.
– Luciana, (34 anni) – 1996
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.56, 1996
Sommario
Editoriale
Care sorelle, cari fratelli di M. Bertolini
Esperienze di fratelli e sorelle:
Dondolando tra l’amore e l’odio
Lo sguardo degli altri
Quando l’amore è mancato
Solitudine nella sofferenza
Finalmente sei arrivata!
Perché non mi capisci
Mi ha insegnato ad amare
Genitori: non fateci arrabbiare
Una sorella agli amici
Fratelli nella notte
Altri articoli
Vieni spirito di vita di Silvia e Monica
Il nostro cammino di Tommaso Bertolini
Essere padrino di Mario di Stefano Artero
Recensioni
Bambino con handicap, J. Levine
Ogni uomo è una storia sacra, J. Vanier
La morte amica M. de Hennezel
Recensione del film "L’ottavo giorno"