L’ educazione sessuale non si riduce a un insieme di informazioni su come avviene l’incontro genitale, su quali possono esserne le conseguenze e sull’uso dei contraccettivi. L’educazione sessuale non è il promuovere occasioni per sperimentare la genitalità. L’educazione sessuale rientra nella più vasta educazione della persona al rispetto di se stessi e degli altri, all’autocontrollo, all’ascolto, alla comunicazione e al confronto con gli altri, all’accettare gli altri per quello che sono e all’accoglierli, a vivere accanto a persone dell’altro sesso sapendo prima di tutto instaurare rapporti di amicizia, e poi servire, donare, condividere con gli altri.
Tali obiettivi si possono raggiungere con educatori adulti che siano essi stessi esempi di stile di vita e che sappiano comprendere e relazionarsi alle persone a loro affidate.
Occorrono ambienti dove persone di sesso diverso possano incontrarsi, conoscersi, fare esperienze comunitarie, cooperative, al fine di maturare rapporti di rispetto, di stima, di valorizzazione reciproca, di condivisione serena e gioiosa.
Ripetiamo: non vogliamo proclamare che la concezione culturale ed educativa sostenuta sia sicuramente la migliore. Certamente però affermiamo che va incontro all’uomo (a tutti gli uomini) perché lo prende in considerazione per quello che è, in modo realistico e propositivo, superando i pericoli di riduttivismo o di frammentarismo (il frammentare la personalità, il dividerla a compartimenti stagni). Ribadiamo che le critiche espresse nei confronti della proposta culturale che va per la maggiore, e quindi nei confronti dei suoi sostenitori in campo sessuale, sono dettate solamente dall’esigenza di cercare il meglio per ogni uomo e offrire anche ai portatori di handicap l’opportunità di sentirsi sessuati, pienamente uomini e donne, e quindi più felici.
La persona portatrice di handicap, per il rifiuto più o meno velato delle persone che la circondano, trova serie difficoltà a sviluppare globalmente e serenamente la propria personalità. Spesso non mancano i traumi dovuti a carenze relazionali, e allora non ci si può stupire se dilagano problemi inerenti anche alla sfera sessuale. Mettiamo «anche», perché sappiamo benissimo che la persona è una e tutta la personalità nelle varie componenti, correlate tra loro, ne risente. Non c’è solo il problema sessuale! Non possiamo ridurre al «pezzettino» della sessualità gli interventi a favore di una persona psicologicamente sofferente. Non possiamo essere ingenui.
Gli educatori devono ricuperare il linguaggio corporeo, prendere piena consapevolezza che il «corpo ha un linguaggio che mi apre all’altro, alla ricerca della complementarità e dell’unità». Special- mente con l’adolescenza il modo con cui questi gesti si manifestano esprime il diverso grado di vicinanza, di compartecipazione e di comunione, esprime le intenzioni. Perciò i gesti non devono mai travalicare il rapporto fraterno e ogni educatore deve capire quando, dove e come esprimere certi gesti e certi contatti fisici, per non favorire, ad esempio, in certi soggetti un rapporto gestuale troppo intenso e perciò origine di problemi sessuali nonché di frustrazione da illusione.
L’educatore che è in relazione con il minorato psichico adolescente, giovane o già adulto, deve sapere che «ferita nel suo cuore e nella sua dimensione relazionale la persona handicappata è spesso alla ricerca di una relazione autentica nella quale essa possa essere apprezzata e riconosciuta come persona. Esiste in lei un’immensa richiesta affettiva; prova talvolta un desiderio eccessivo di essere circondata, toccata, amata: ricerca un’esperienza d’intimità da vivere con qualcuno. I gesti di tenerezza che la persona manifesta nei confronti degli altri non implicano necessariamente una ricerca di relazione sessuale». Secondo Jean Vanier «sarebbe sbagliato credere che i suoi gesti di tenerezza e di affetto siano delle ricerche di sessualità genitale». Nella grande maggioranza dei casi, si tratta di gesti spontanei e naturali attraverso i quali la persona ferita esprime che è felice in presenza di qualcuno. Questi gesti rivelano la sua ricchezza affettiva incontestabile e il suo appello alla tenerezza. Per questo è importante saper decifrare questi gesti di tenerezza».
È importante, dunque, l’accompagnamento amorevole e fraterno dell’educatore, intendendo l’amore fraterno come «senso di responsabilità, premure, rispetto, comprensione per il prossimo; esso è caratterizzato dall’assenza di esclusività (…). Nell’amore fraterno c’è il desiderio di fusione con tutti gli uomini, c’è il bisogno di solidarietà umana».
L’handicappato mentale adulto spesso si trova fuori dal contesto familiare ed educativo di origine ed è inserito in istituti o in comunità, seguito da nuove figure di riferimento, da nuovi educatori talvolta poco a conoscenza del passato di vita ed educativo del soggetto. Spesso questi «nuovi» educatori si trovano con handicappati adulti spenti, chiusi, schedati come un pò «autistici», dalle relazioni scadenti, dalle manifestazioni sessuali strane. Che fare? Assistere e lasciare correre? Reprimere? Cosa proporre? Come intervenire? Date le abitudini già acquisite, quali interventi sono ancora possibili? Tutte domande che con altre ritornano continuamente nella testa degli educatori, confusi, a disagio, indecisi sul da farsi, preoccupati di nascondere comportamenti e manifestazioni.
La parola d’ordine è anzitutto «comprensione».
La comprensione ingloba il capire la situazione, l’accettarla, 1’accogliere la persona per quello che è e non per come si vorrebbe che sia; il rendersi conto, ad esempio, che un handicappato mentale adulto nella gran parte dei casi non è in grado e non è nelle condizioni di poter vivere una relazione stabile di coppia e di farsi una famiglia; il permettere comunque una vita di relazione e affettiva intensa e gratificante.
Data la mancanza di totale autonomia dei mentali, per la stragrande maggioranza delle persone handicappate non c’è la possibilità di farsi una famiglia, perché essa, realisticamente, esige dalla coppia:
- fedeltà del rapporto;
- assunzione di responsabilità;
- capacità di educare;
- capacità di gestire e di organizzazione;
- autonomia economico-sociale.
Sopratutto l’handicappato mentale trova enormi difficoltà ad affrontare, da protagonista attivo e principale, il compito educativo, essendo lui stesso bisognoso di un continuo accompagnamento. «Il fatto più delicato è che spesso la persona portatrice di handicap mentale non è in grado di allevare un figlio. Una mamma mentalmente handicappata può benissimo allattare un figlio, provare molta gioia nel guardarlo, nel tenerlo in collo e nel giocare con lui, ma quando egli diventa aggressivo, difficile, angosciato, essa rischia a sua volta, di diventare terribilmente insicura e angosciata. A quel punto può abdicare alle sue funzioni di madre oppure maltrattare suo figlio. E proprio nel campo dell’educazione che la mamma handicappata rischia di non essere all’altezza. Un’autentica educazione richiede una sicurezza, una libertà e una pace interiore che spesso mancano alle persone handicappate. È grave permettere loro di avere dei figli che chiaramente non possono allevare».
L’esperienza ci dice che le case d’accoglienza miste, cioè con uomini e donne presenti e conviventi in modo fraterno, permettono un superamento o almeno un’attenuazione di manifestazioni sessuali quali la masturbazione o l’omosessualità, causate spesso da storie di rifiuto, di abbandono, di solitudine, di angoscia, di ghettizzazione, di emarginazione, di abitudini sbagliate. L’uomo è importante per la donna e viceversa. Si integrano e si rasserenano a vicenda. Lo scambio semplice di tenerezze, i contatti corporei amichevoli, le simpatie tra minorati psichici uomini e donne migliorano quegli uomini e quelle donne che li vivono.
Concludiamo dicendo che alle soglie del terzo millennio occorre uno sforzo perché la nostra società persegua risultati non soltanto sul piano scientifico-tecnologico e produttivo, ma anche su quello spirituale e della pacifica e costruttiva convivenza tra le persone. Un mondo come il nostro, così evoluto sul piano scientifico-tecnologico eppure cosi pieno di guerre e di violenze più o meno occulte, di fame e di malattie, di malati psichici e di drogati, di persone handicappate emarginate e considerate inutili zavorre, dà da pensare.
Occorre una conversione culturale e una conseguente nuova azione educativa perché la città dell’uomo possa essere veramente a misura d uomo, di tutti gli uomini, nessuno escluso. E così trovarci un giorno nella «Città del Sole», nella quale anche gli handicappati motori, sensoriali, mentali avranno il loro posto, saranno chiamati con il loro nome e cognome senza più bisogno di parole generali che indicano e sottolineano le menomazioni, saranno amati da molti e molti potranno amare. Nel tendere al sogno-desiderio della «Città del Sole» sta la possibilità dell’umanità di evolvere continuamente.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.49, 1993
Sommario
Editoriale
Un tema difficile e delicato di M. Bertolini
Articoli
Domande e osservazioni dei genitori
L'educazione sessuale delle persone handicappate di V. Mariani
All’età in cui si cambia di M. Odile Réthoré
Come dirti, come spiegarti? di M. Peeters (medico)
Dialogo come cura di A. D. (medico)
Voglio sposarmi di J. Vanier
Il coraggio di parlare con loro di A. M.
Centro Artigianale di Bastia Umbra di N. Schulthes
Rubriche
Libri
Un libro risponde di N. Livi