«Chicco è davvero un bambino fortunato»!
Queste parole dette qualche tempo fa dal mio medico di famiglia mi spingono ad esprimere qualche riflessione sulla mia esperienza di mamma di un ragazzo con handicap.
Sì, Chicco, il bambino «fortunato», è un ragazzo sedicenne con sindrome di Down, una malformazione alla mano destra e problemi dovuti a una cardiopatia congenita.
Se il medico si fosse espresso così 16 anni fa, lo avrei preso per pazzo e forse avrei reagito con violenza, perché anch’io, come tutti i genitori che scoprono di avere un figlio «diverso», ho attraverato periodi di sconforto e di ribellione.
Oggi però, dopo 16 anni di lungo cammino insieme a lui, comprendo il significato di questa frase, perché Chicco è oggi un ragazzo sereno che vive in una famiglia serena. Ha i suoi impegni e i suoi interessi, è socievole con tutti e certo non gli mancano gli amici. In famiglia si vive una vita «normale»: il papà lavora come dirigente industriale, io insegno nella scuola media, i due fratelli frequentano l’università, Chicco frequenta un centro-servizi delle ACLI. Quando facciamo un viaggio o una vacanza, Chicco è sempre con noi; al ristorante, in albergo, in casa di amici o conoscenti sta con noi senza problemi. Per noi Chicco oggi è un figlio, non un problema quotidiano da affrontare con sofferenza.
Certo, quanta strada abbiamo fatto in questi 16 anni!
Una strada disseminata di ostacoli, ma nessuno insuperabile se affrontato con coraggio e con fede.
Se vado indietro col pensiero, ricordo il primo passo compiuto per uscire dalla disperazione: dopo essermi tante volte chiesta «perché proprio a me, Signore?» un giorno alTimprovviso è sgorgata dal mio cuore un’altra domanda: «perché non a me, Signore?». Avevo forse qualche merito speciale per evitare le sofferenze?
Il Signore era stato sempre generoso con me: non mi era mai mancato nulla nella mia vita, avevo realizzato ogni mio sogno; avevo tutto quanto si può desiderare: una famiglia d’origine serena e unita, un marito e due figli meravigliosi, un lavoro che amavo, una buona posizione sociale ed economica e, cosa non meno importante, la fede. Ora, di fronte a quella prova non potevo
lasciarmi abbattere dalla paura e dallo sconforto. E poi non ero sola: mio marito era presente costantemente con la concretezza e il senso pratico proprio degli uomini; gli altri bambini amavano e vezzeggiavano il fratellino senza porsi problemi; la nonna e la zia erano disponibili a dare una mano a sostenere con me la fatica quotidiana che comportava la cura di un bimbo fragile e delicato.
Non sempre facile era il rapporto con il mondo esterno. Ricordo quanta rabbia provavo quando qualcuno, pensando di dirmi parole di conforto, parlava di mio figlio come di «una croce»: non ho mai pensato a lui in questi termini e la compassione degli altri era per me più dura dell’indifferenza.
Momenti difficili ce ne sono stati tanti, soprattutto le frequenti malattie, i numerosi ricoveri in ospedale, la paura, provata tante volte, di perderlo.
Ho corso il rischio di commettere un grosso errore in quel primo periodo: provavo il bisogno di dedicarmi totalmente a Chicco, un po’ per naturale amore materno, un po’ anche per farmi carico delle sue sofferenze, forse per coprire un latente senso di colpa per averlo generato così. Rinunciavo ad ogni svago, non lo lasciavo mai, nemmeno alle persone di famiglia, avevo deciso di lasciare l’insegnamento per dedicarmi totalmente a lui.
Fortunatamente mio marito mi forzò piano piano a uscire dal guscio e ora lo ringrazio per questo: se avessi continuato in quel modo, non sarei più stata una moglie e una madre serena e certamente la mia famiglia ne avrebbe risentito negativamente. Gli altri bambini avevano bisogno di una madre equilibrata e serena e avrebbero avuto col fratellino rapporti «normali» solo se io fossi stata capace di non fare pesare su di loro i suoi problemi. Dopo un anno di aspettativa, ripresi anche l’insegnamento e ancora oggi il Preside di allora ricorda come mi presentai a lui la prima volta: con Chicco in braccio.
Man mano che Chicco cresceva, ho dovuto affrontare tanti problemi, sempre nuovi, ma ormai mi sentivo forte dentro: il Signore, con la sua Grazia, mi dava la forza di andare avanti senza lasciarmi cadere nello scoraggiamento.
Ho trovato spesso negli altri incomprensioni, indifferenza, ma ho trovato anche tante persone che mi hanno dato una mano per permettere a Chicco di crescere nel corpo nello spirito e nel cuore: medici, insegnanti, terapisti, educatori e, in questi ultimi anni, soprattuto i generosi amici di Fede e Luce.
Quante cose Chicco mi ha insegnato! Guardando il mondo attraverso i suoi occhi, ho imparato a riconoscere i veri valori e a dare importanza all’essenziale; ho imparato a valutare le persone per quello che sono dentro, non per quello che appaiono; ho scoperto il vero senso dell’amicizia e della solidarietà. Oggi Chicco è per la famiglia forte elemento di unione, fonte di gioia e di amore.
Voglio concludere questa «confessione», forse un po’ confusa ma sincera, con un acrostico dedicato a Chicco dal suo insegnate di lettere, a conclusione della scuola media:
Per William (Chicco) Diliberto, alunno ed amico.
W
I
Lunghi
Lieti
Indimenticabili
Amichevoli
Momenti
Di vita trascorsi
Insieme.
L‘esistenza,
Ineffabile
Banco di
Esperienze,
Renda il tuo «esserci»
Terapia per i cuori di tutti,
O caro amico!
– La mamma di Chicco, 1994
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.45, 1994
Sommario
Editoriale
Perché ci hai abbandonato? di M. Bertolini
Dio così lontano e così vicino
Mi sentii tradita di una mamma
Ma Lui dov’era? di G. Cosmai
A scuola con Chicco in braccio della mamma di Chicco
La fede è un incontro di J. Lebreton
Altri articoli
L’armadio dei giocattoli di M.C. Chivot
Inaugurazione di Casa Loïc di A. Mazzarotto
La tenerezza di Dio Anonimo brasiliano
Convegno sulla catechesi nell’area dell’handicap
Rubriche
Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Proviamoci un'altra volta
Libri
Due libri sulla psicologia, P. Vitz e P.Raab
Competere col dolore, F. Guglielmotti
Il mio cielo è diverso, F. Emer
Val la pena di vivere, U. Peressini