Ecco un’altra di quella comunità o associazioni che mostrano che il cristianesimo primario e autentico è vivo e che le parole di Gesù Cristo duemila anni dopo sono una forza che cambia la vita degli uomini e che salva. Questi della Comunità fondata e, oggi, guidata da don Oreste Benzi, credono veramente alle parole di Cristo: «Quel che avete fatto a uno di questi piccoli l’avete fatto a me», e ci fondano le loro vite. Infatti, semplicissimo è il loro programma: conformare la propria vita a Gesù povero e servo, condividendo direttamente la vita degli ultimi. Attenzione, non «aiutare gli ultimi», ma «condividere la vita con loro».
Qui a Vicenza, in via Bixio 8 c’è una casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII. Sono venuto a conoscerla. Ho appuntamento a metà pomeriggio con il padre (la figura paterna, dicono loro) Mario Catabiani. Sopra il campanello sono scritti tutti i nomi della famiglia. Una giovane signora mi fa entrare. Mario ancora non è venuto; posso aspettarlo nel soggiorno.
Nel soggiorno, ordinato e pulito né più né meno che in una normale casa, è seduta una ragazza sui ventanni, taciturna,^ un po’ imbrodata. Mi presento. Si chiama Carmelina. Mi domanda che sono venuto a fare. Sono venuto a parlare con Mario, anche di questa loro casa, Mi chiede dove abito.
«A Roma».
«A Roma c’è un parco giochi?»
«Si. Uno grande che si chiama Luna Park. E a Vicenza?»
«Si, anche a Vicenza. Io ci sono andata».
Fra ogni domanda e risposta Carmelina aspetta qualche secondo. Le dico che dovrei correggermi degli appunti, le dispiace?
Senza rispondere, Carmelina va alla credenza, prende due quaderni e una penna, torna al tavolo, li apre e si mette a copiare con la mano sinistra in bella grafia su un quaderno una pagina dell’altro. Per un po’ scriviamo, senza parlare. Entra un ragazzo sui sedici, con in mano delle scatole di medicinali: mi da fastidio se fa qui delle inalazioni? No! Per cosa le fa? Mi spiega il suo problema. Gli chiedo se è sua la bella chitarra lì sul divano. Si.
«Sei bravo?»
«Insomma… »
«Che ti piace di più suonale?»
«Il country. Vuoi sentire un po’?»
Suona, bene, un paio di pezzi.
Gli chiedo se conosce «Blowing the wind».
Me la suona.
Da fuori una voce femminile chiama Carmelina: serve una mano di là. Ma Carmelina fa finta di non sentire.
Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII in una delle case-famiglia.
Vai Carmelina, che devi aiutare, dice il ragazzo.
Carmelina si alza sbuffando e esce sostenuta. Mezzo minuto dopo ritorna: o è stata velocissima, o ha piantato tutto lì appena cominciato.
Dalla porta entrano i rumori e gli odori dei preparativi per la cena.
Arriva Mario. E in carrozzella; usa poco le mani.
Gli chiedo delle case famiglia della Comunità.
Comunità come?
La Comunità Papa Giovanni XXIII non è fatta di case famiglia o comunità alloggio.
La comunità è composta dalle persone (uomini e donne, laici e preti, sposati e celibi) che riconoscono in se stessi la particolare vocazione di vivere la vita di Gesù nel suo aspetto di povero e servo e di condividere la vita con gli ultimi. L’elemento comunitario e solo riconoscersi nella chiamata e riconoscere di voler camminare insieme. Quindi si attua in forme diverse: come figure paterne o materne in casa-famiglia; o sposati con propri figli e formando una famiglia aperta, che accoglie altri, specie con l’affidamento; come celibi. La condivisione non si attua per forza accogliendo il povero in casa famiglia; può essere che egli abbia bisogno di fare un tratto di strada assieme, magari finché guarisce o trova casa o un lavoro: «Il povero ti prende e tu non lo lasci finché ha bisogno».
I membri della comunità hanno un normale lavoro in fabbrica o in ufficio o in laboratorio, oppure studiano all’università, o scelgono di impiegare tutto il loro tempo in casa-famiglia per poter accrescere la sua capacità di accoglienza.
Come si sostiene economicamente
Giuridicamente, la Comunità è un’associazione. Le entrate sono costituite dai redditi di chi lavora, dalle rette pagate dagli enti pubblici e dalle offerte. «Si vive e non c’è problema, perché si mette tutto insieme, secondo la scelta negli atti degli apostoli».
Vogliamo che il rapporto con l’ente pubblico sia serio: che paghi per i ragazzi che gli assistenti sociali, le USL, i comuni ci mandano, dal momento che i ragazzi ne hanno diritto. Non vogliamo fare beneficienza all’ente pubblico, ma a chi non ha niente e nessuno. « Per esempio, qui abbiamo un extracomunitario invalido al cento per cento, che ha appena il permesso di soggiorno, ma nessun diritto né pensione né retta».
La Casa-famiglia è una struttura dell’Associazione: stabilisce un tetto di spesa mensile, che viene rivisto ogni sei mesi, e riceve l’assegno dall’Associazione. «Alla base di questo metodo è la scelta di non essere padroni o proprietari, e di vivere una vita sobria. Le figure paterna e materna non hanno stipendio, la casa-famiglia non percepisce retta, altrimenti diventerebbe un piccolo istituto, invece vogliamo che sia una vera famiglia».
Quali limiti all’accoglienza
Quando abbiamo una richiesta di accoglienza, prima chiediamo una relazione seria. Poi valutiamo — la casa-famiglia che accoglie, voglio dire — secondo quel che possiamo dare tecnicamente, materialmente, spiritualmente: misurando le nostre forze. Naturalmente non è che ci risparmiamo. Noi mettiamo la nostra vita 24 ore su 24. Accogliamo quelli che nessuno vuole, non con il fine primario di curare o istruire, ma perché il Signore ce li manda.
Per i tossicodipendenti abbiamo varie comunità terapeutiche, specie in Emilia-Romagna. Per alcuni la casa-famiglia può andar bene nel periodo dell’accoglienza, nei mesi di preparazione mentre il ragazzo va ai colloqui prima di entrare in comunità terapeutica.
Chi manda avanti la casa-famiglia
Nella casa-famiglia prima di tutto ci sono la figura materna e la paterna, poi obiettori in servizio civile, volontari e persone che fanno l’anno di esperienza — una specie di noviziato, per verificare la vocazione — prima di decidere se entrare nella Comunità.
Come è organizzata la Comunità
La Comunità è divisa in «zone». Per esempio, la zona di Vicenza comprende una sessantina di persone. In ogni zona i membri si dividono in «nuclei», formati possibilmente di una decina di persone che vivono in stati e ambiti di vita diversi. I componenti di ogni nucleo si incontrano una volta la settimana, per discutere su problemi, per sostenersi l’un l’altro, per correzione fraterna, per alimento spirituale.
Se uno sente il bisogno di un tempo per riposare o per ricaricarsi spiritualmente, può chiedere un periodo di vacanza o di esercizi spirituali, e fra le case c’è possibilità di sostituzioni. «I figli della casa-famiglia sono figli di tutta la comunità non solo di quella casa-famiglia».
Come si entra nella Comunità
Il cammino spirituale per entrare nella comunità è ben indicato da due battute di don Benzi. «Quando una persona vuol fare l’esperienza (cioè l’anno di verifica in casa famiglia), don Benzi gli chiede se ha ginocchia buone perché per stare in piedi bisogna stare in ginocchio, cioè stare molto in preghiera. Infatti quasi tutte le case hanno la cappellina. Poi gli chiede se ha le spalle buone, per portare la croce. Non è tanto la professionalità di educatori o pisicologi che ci viene richiesta… La nostra prima professionalità è esser fedeli alla nostra vocazione, all’esempio del Signore».
Dopo l’anno di prova, la persona dichiara ai fratelli della Comunità di riconoscere in sé la vocazione e di volerla attuare insieme con loro. Questo presuppone tra l’altro la rinuncia a fare di testa propria, equivalente a un voto di obbedienza, ovvero all’impegno di agire in sintonia con la comunità.
La comunità conta circa ottocento «fratelli», ed è in crescita.
Come è diretta la Comunità
Le decisioni di importanza generale sono di solito prese da tutti i membri della Comunità insieme con il responsabile generale. Le decisioni che riguardano una zona, sono prese dai fratelli della zona insieme con il responsabile zonale. Quest’ultimo è eletto per tre anni oppure scelto direttamente dal responsabile generale. Questo è eletto per sei anni. I responsabili possono anche prendere decisioni autonomamente.
– Sergio Sciascia, 1993
Sergio Sciascia, nasce a Torino nel 1937 ma si trasferisce a Roma con la famiglia pochi anni dopo. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per lo scrivere e per il capire le cose che lo circondano, e di questi due aspetti farà il mestiere di una vita. Una collega, amica della primissima Fede e Luce romana, mette in contatto Sergio con Mariangela Bertolini e con l’idea di trasformare il ciclostilato “Insieme”che legava le poche comunità italiane di Fede e Luce in qualcosa di più. Era l’autunno del 1981. Nasceva Ombre e Luci e Sergio accettava di esserne il direttore responsabile.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.43, 1993
Sommario
Editoriale
Si fa sera di Mariangela Bertolini
Se la notte è agitata
Prima di andare a letto intervista a M.Réthoré
Se dorme male di D. Laplane
Di notte bagna... di P. Lemoine
Io grido verso te
Altri Articoli
Imparando a vivere bene con Jimmy di M.S. Tomaro
Viviamo da soli intervista a Romolo e Remo
Quando i genitori si rimboccano le maniche di Antonio e Milena
Ce l'abbiamo fatta di Milena
Rubriche
Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Proviamo un'altra volta
Libri
Cammino di preghiera, M. Quoist
Esploderà la vita, AA.VV.
La cinquataseiesima colonna, M.Gillini e M.Tonni
La forza del debole, E. Robertson