Enrica ha 54 anni, ma una mente di bambina, talvolta anche disturbata. Sua mamma Iolanda ha 81 anni, suo papà è morto. Ha anche un fratello e una sorella, sposati; ma abitano in un altro quartiere.
Iolanda ha voluto tenere con sè «la sua bambina». Le tiene la mano per farla addormentare quando si coricano insieme sul letto matrimoniale. Ma col passare degli anni le sue forze si sono esaurite. E i «capricci » di Enrica si son fatti più clamorosi, più tirannici, più assillanti. Il televisore non può mai essere spento, le tapparelle devono essere abbassate, addosso porta centinaia di ornamentini e straccetti che non toglie mai… e son sempre nuovi «capricci». Guai a non soddisfarli prontamente: gli urli fanno tremare le pareti. Iolanda si sente imbarazzata con i vicini,…
Enrica è grossa e pesante e quasi immobilizzata. Portarla al bagno cambiarla è sempre più difficile. Iolanda ha paura di cadere con sua figlia. Lavarla, la lava solo a pezzettini. Madre e figlia non escono più di casa, da due anni, mai.
Mariangela e Nicole, sentono di questa situazione e vanno a visitare Iolanda e Enrica. Vedono che è una vita impossibile da tirare avanti, anche se Iolanda è sveglia e piena d’amore per la figlia.
Cercano una soluzione. Assistenza domiciliare, non si riesce a ottenerla. Il Don Guanella rifiuta: Enrica a 54 anni è troppo anziana per esser inserita. Parlano della situazione in una riunione della Caritas della prefettura. C’è anche suor Anna della «Congregazione Mariana delle Case della Carità». E suor Anna apre la porta della Casa della Carità nella parrocchia della Magliana.
Una casa della carità non chiude la porta a nessuno, ma questo lo vedremo dopo.
Ora suor Anna deve andare a conoscere Enrica e farsela amica: la mamma non accetterebbe di mandarla fuori di casa se non fosse più che convinta che nella nuova casa dove la figlia andrà starà bene.
Il giorno fissato per l’incontro, Mariangela e Nicole sono già in casa di Iolanda. Quando suor Anna suona alla porta, Iolanda sta accudendo alla figlia nel bagno. Quando sente le voci fuori della porta grida a Mariangela di far accomodare la suora in salotto. «Tanto per cominciare in bagno io ci vivo», dice suor Anna, entrando in bagno a dare una mano.
Enrica è subito attirata da suor Anna. Chiama Anna la bambola preferita.
Quando Enrica è accompagnata alla Casa della Carità la mamma, andando via, dice accorata a suor Anna: «Come farà ad addormentarsi la sera senza la mia mano?». «Gliela do io la mano» risponde Anna,«Il mio letto è accanto al suo».
Suor Anna ha 30 anni, suor Maria Teresa 21. Oltre a Enrica, la «bambina» di 54 anni, che ora è tranquilla e non vive più di fissazioni, nella casa sono altre due donne con handicap mentale, sette tra 80 e 90 anni, una di 70 e una ammalata di sclerosi a placche. Tutto si fa insieme: dormono nello stesso locale, mangiano alla stessa tavola lo stesso cibo, dicono insieme le preghiere della giornata, insieme partecipano alla eucarestia. Altre persone, una ventina, vengono più o meno regolarmente a dare una mano; e a imparare! Dalle 7 alle 23 la porta della casa si apre per chiunque, uomo o donna, vecchio o giovane, abbia bisogno di aiuto, materiale o spirituale. Questa è una Casa della Carità.
E l’altro tesoro?
Le Case della carità sono un trentina. Ombre e Luci le presentò nel quarto numero del 1989. Ne parliamo di nuovo perché sono una grande esperienza di cristianesimo e una soluzione realistica per la crisi della parrocchia. Uso la parola «grande» e la parola «soluzione» nel loro pieno significato e valore, non gonfiandole e usandole a sproposito come è abituale nel nevrotico blabla che affoga le nostre orecchie e la mente.
Come tutte le cose grandi, è semplice. Parte dal vangelo. Chi non lo crede verità, passi oltre, però può sempre andare per qualche ora in una casa della carità: verrà accolto senza esami e avrà la possibilità di aprire una nuova pagina della sua vita.
Nel Vangelo Gesù parla molto dei poveri, quelli che non hanno forza, non hanno sicurezze, non hanno stima … Ne parla direttamente e per parabole: sono l’argomento principale dopo il Padre. Gesù dice «Mi avrete sempre con voi nei poveri»; dice: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero ammalato e mi avete curato…»; dice: «Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me».
Come tanti uomini santi, riconosciuti o no, don Mario Prandi (morto nel 1986) accetta come verità le parole del Vangelo. E’ parroco in un paesino sull’Appennino Reggiano alla fine degli anni Trenta. Fontanaluccia è un paese povero «in anni duri, e ha alcuni ancora più poveri degli altri.
Don Mario ricorda ai parrocchiani che Gesù Cristo presente nella eucarestia è custodito e onorato nel tabernacolo centro della chiesa e delle liturgie, infatti è il «tesoro» della parrocchia. Ma dove sta l’altro Gesù Cristo? Quello che è nei poveri, quello che ha fame, è ammalato…? Anche quest’altro Gesù è un tesoro per la parrocchia; eppure i cristiani lo mandano via, nel ricovero, nel brefotrofio, nel Cottolengo. Se crediamo nel Vangelo, questo Gesù dobbiamo tenerlo con noi, servirlo, onorarlo, imparare dal suo insegnamento.
Ogni parrocchia, dice don Mario, deve avere al suo centro un secondo tabernacolo, una Casa della Carità dove sono i più poveri.
Nel 1941, nel centro di Fontanaluccia, apre la prima Casa della Carità. Forse nessuno se ne rende conto, ma è una rivoluzione nella storia dei cristiani, del loro modo di esercitare la carità.
Ancora oggi, di fronte al povero, al vecchio impedito, al malato cronico, noi bravi cristiani ci organizziamo per mandarli «da un’altra parte». Diamo offerte, costruiamo case, sosteniamo suore e frati che prendano cura di quei poveri e al massimo si facciano vivi con bollettini e moduli di conto corrente; talvolta li ammiriamo e lodiamo perché si dedicano a quelle persone così — diciamocelo francamente — sgradevoli. Alcuni di noi, pochi, vanno a dare una mano «là». La Casa della Carità cambia questo «là» in «qua», al centro di quella comunità cristiana chiamata parrocchia.
Il «Secondo tabernacolo» di Fontanaluccia è stato risistemato, è mantenuto, è mandato avanti dalla comunità parrocchiale. Ma c’è bisogno di qualcuno che ci viva dentro e ci si impegni per la vita. Prima viene una ragazza: si chiama Maria. Poi vengono altre due ragazze, la Carolina e l’Almina. Nel 1942 diventeranno le prime suore della nuova congregazione, secondo la regola delle carmelitane. Della congregazione fan parte anche frati e laici.
Don Mario non considera la Casa della Carità un’opera assistenziale, ma religiosa. Nella Casa c’è Gesù nel tabernacolo e ci sono i suoi migliori amici. E’ privilegio e vantaggio per noi cristiani stare con loro, ospitarli, onorarli.
La Casa della Carità, pensa don Mario, può «ridare un volto veramente cristiano alla comunità parrocchiale».
Provvede la Provvidenza
Che cosa è oggi una Casa della Carità?
In sostanza è una grande famiglia, dove il ruolo di padre è del parroco, il ruolo di madre è di due o più sorelle, dove lavorano più o meno regolarmente, fratelli, ausiliari, collaboratori, famiglie. La casa non vuole finanziamenti o convenzioni, intanto perché non si considera opera assistenziale, poi per non sottostare alle regole degli enti pubblici che ne snaturerebbero il carattere di famiglia. La Casa non impone rette: l’ospite che ha qualcosa, una pensione, la mette in comune con chi non ha nulla. La casa è mantenuta dalla provvidenza, sotto forma di doni delle persone. Quel che avanza — e spesso avanza — a fine anno viene donato al vescovo per altre povertà. Metter da parte sarebbe una prova di sfiducia verso la provvidenza, la quale invece dimostra regolarmente che più si dona, più si riceve.
La Casa si dimostra un dono per la comunità parrocchiale. Crea visibilmente unità e comunione attorno al Signore. E’ scuola di vita secondo lo spirito delle opere di misericordia. Dimostra la presenza della divina provvidenza e che a Dio ci si può affidare. Con la sua pratica quotidiana di vita comunitaria, di preghiera, di servizio, di liturgia, di adorazione, è il terreno naturale perché ognuno scopra la propria vocazione, nel senso di «scoprire » il proprio battesimo e che cosa il Signore vuole «da me». E’ un «grande lenzuolo» che copre i peccati, poiché Dio molto perdona a chi molto ama!
Aiuta a crescere
La Congregazione delle Case della Carità è un’associazione pubblica di cristiani composta di:
- Sorelle (un centinaio);
- Fratelli, una ventina;
- Secolari;
- Cooperatori (un migliaio), che hanno promesso pubblicamente adesione allo spirito e allo stile di vita delle Case della Carità, e come segno, hanno ricevuto un crocefisso che portano sempre con sè;
- Ausiliari, persone di ogni età che stanno facendo esperienze più o meno prolungate e frequenti di vita, di preghiera, di spiritualità in una Casa della Carità, percorrendo un cammino alla fine del quale può esserci la promessa del cooperatore;
- infine Famiglie (una decina) che si sono impegnate pubblicamente a vivere secondo i principi delle Case della Carità, arricchendo così il dono avuto col battesimo e col matrimonio.
In tutto sono coinvolte due-tremila persone.
Nelle case della Carità lavorano anche degli obiettori in servizio civile, il Capitolo generale della Congregazione del 1990 si è interrogato se fosse secondo lo spirito della case tenere persone per eseguire solo un servizio, senza che fossero coinvolte nell’aspetto cristiano che è il principale. La risposta è stata che la Casa deve aiutare ognuno a crescere, a rispondere alla sua chiamata universale alla santità. I poveri sono al centro, ma tutti sono chiamati. E la chiamata in queste Case, con l’amore e il senso religioso che le pervade, è particolarmente forte, infatti diversi obiettori, venuti per un semplice servizio, han cominciato a interrogarsi e hanno intrapreso un cammino di crescita cristiana, di fede.
Aperte a tutti
Come si apre una casa della carità?
Intanto deve volerla il parroco. Case della Carità possono essere solo in parrocchia. Il parroco, un sacerdote, qualche laico, si mettono in contatto con la Congregazione, fanno un po’ di esperienza in una delle Case. Quindi la Congregazione manda delle sorelle e dei fratelli a fare un po’ di animazione nella parrocchia perché la gente capisca lo spirito, il valore, il significato della Casa e la sua origine. Principalmente, che la casa è prima di tutto un dono fatto alla comunità parrocchiale. La parrocchia mette a disposizione i locali per la casa; il parroco sarà il padre; alcune sorelle saranno la madre; il Signore è il padrone di casa; l’alimento economico e organizzativo è fornito dalla provvidenza.
Simbolo della casa è un cesto con tre pani. Rappresentano le «Tre Mense» che nutrono la Casa, cioè tutti quelli che in un modo o nell’altro vi partecipano: la mensa eucaristica, la mensa della parola di Dio, la mensa dei poveri.
Ogni casa è aperta a tutti quelli che vogliono anche solo venire a dare una mano, o a pregare, o a celebrare la messa: basta telefonare per conoscere gli orari.
– Sergio Sciascia, 1992
Sergio Sciascia, nasce a Torino nel 1937 ma si trasferisce a Roma con la famiglia pochi anni dopo. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per lo scrivere e per il capire le cose che lo circondano, e di questi due aspetti farà il mestiere di una vita. Una collega, amica della primissima Fede e Luce romana, mette in contatto Sergio con Mariangela Bertolini e con l’idea di trasformare il ciclostilato “Insieme”che legava le poche comunità italiane di Fede e Luce in qualcosa di più. Era l’autunno del 1981. Nasceva Ombre e Luci e Sergio accettava di esserne il direttore responsabile.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.40, 1992
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Alessia di gli amici di Alessia
Case della Carità di Sergio Sciascia
Settore catechesi delle persone con handicap di Redazione
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