G. e M. Labrousse, genitori di tre figli, tra cui Paolo, portatore di handicap, ripercorrono un pò della loro storia umana, simile a quella di tante famiglie, anche se unica. I genitori che hanno conosciuto la stessa prova, si ritroveranno in queste riflessioni e nel loro atteggiamento.
Il momento nel quale l’handicap di nostro figlio ci viene annunciato, prima o dopo la nascita, — handicap di ogni tipo e di ogni gravità — è il momento della prova brutale alla quale nessuna di noi è preparato.
Tutto sembra fermarsi. Ogni progetto di vita sognato e sperato a due, al momento del matrimonio, ogni speranza ambiziosa che tutti i genitori ripongono sul bambino che nasce e che cresce, tutto sembra precipitare di colpo.
Un colpo tremendo
E’ il momento della negazione: «Non a me! Non a lui!», è il momento dell’aggressività che riversiamo indistintamente su tutti: su di noi, sui medici, sui parenti e i vicini, su Dio stesso. «Come può permettere la sofferenza dell’innocente, di questo innocente che è un altro me stesso?». Per alcuni fra noi questa storia particolare comincia, a volte, prima della nascita: è il caso di un rischio dovuto all’ereditarietà o a una malattia prenatale (come la rosolia) o quando gli esami prenatali — sempre più sofisticati — rivelano o lasciano prevedere una anomalia. Questo periodo è reso ancor più difficile da quando l’interruzione di gravidanza viene talvolta presentata ai genitori come una soluzione «tecnica», in modo quasi automatico, dopo una diagnosi prenatale a grave rischio.
Tutto il vocabolario utilizzato da medici e giuristi è stato rimodellato per far pressione sui genitori: si parla di prevenzione dell’handicap, quando invece si tratta di eliminare un essere umano handicappato. Si arriva, perfino, a colpevolizzare quei giovani genitori che non cedono a quella che si presenta come una liberazione.
Ora è una realtà
E’ qui, ora il nostro bambino, così
piccolo, così indifeso, così povero. Non sappiamo se ce la farà. Corriamo da specialisti, da chirurghi, per fare infiniti esami, interventi, medicinali… Lo riprendono all’ospedale, per tre settimane, per tre mesi.
Pensiamo che soffra, ma lo possiamo vedere solo attraverso un vetro; non possiamo prenderlo fra le braccia, non possiamo stringerlo al cuore. Quando ritorna a casa, i doveri quotidiani ci assorbono totalmente, ci lasciano estenuati. Quante ore per farlo mangiare! Si stanca subito. Come comunicare con lui? Sembra non reagire alle nostre parole, ai nostri gesti affettuosi.
Non sappiamo come andare avanti. Possiamo davvero sperare in un progresso, visto che i giorni passano e che la differenza con i bambini della sua età si fa sempre più grande? Ogni settimana, ogni mese aumentano l’impressione e la presa di coscienza della sua «diversità». I nostri innumerevoli sforzi hanno un senso, una speranza di portare qualche risultato?
Possiamo vivere solo nel presente dal momento che il ritmo naturale di genitori il cui figlio cresce, si risveglia, impara a camminare, a parlare, si è infranto.
Gli altri vanno a scuola
Fra i quattro-sei anni, comincia un’altra tappa; accanto a noi, prendono sempre più importanza gli educatori, psicologi, terapisti… II loro intervento fino ad ora era stato soprattutto di guida, di consiglio, di aiuto in vista di sostenerci nel compito di genitori.
Ora devono sempre di più intervenire su nostro figlio. Dobbiamo dividerci i ruoli, tessere con loro pian pianino legami di intesa; farli diventare nostri compagni di vita.
Sarà spesso cosa difficile; nostro figlio è ancora così dipendente da noi; abbiamo l’impressione di venir spodestati. Altri, forse, saranno tentati di rimettersi completamente a loro, perché loro «sanno»; inconsciamente si sentiranno sollevati. Stabilire una sana relazione con loro, attiva da parte dei genitori, senza inutile aggressività, dipenderà molto dall’atteggiamento che avranno i terapisti. Se sanno informare con correttezza e sincerità, potranno chiedere a noi genitori di armonizzare, per il bene del bambino, il nostro atteggiamento con quello loro; utilizzare le stesse tecniche di comunicazione, evitare questo o quel comportamento o attività che può nuocere alla salute fisica o mentale del bambino e ritardare il suo sviluppo. Possono soprattutto insegnarci progressivamente a non essere ossessionati dall’handicap, dalle dipendenze; a essere all’ascolto di tutte le sue capacità, di tutte le ricchezze della sua personalità, quelle ricchezze per noi così difficili da scoprire.
Una vita turbata
Anche se nostro figlio trova posto in un centro o in una scuola, la vita famigliare è segnata dalle difficoltà dovute al suo handicap: trasporti per portarlo a scuola, alle terapie; serate o week-ends e vacanze da organizzare in funzione di quanto per lui è bene o possibile. Per ogni mamma di famiglia, il tempo libero è spesso carico di incombenze; quando un figlio è handicappato, per le cure, per seguirlo nei compiti, se va a una scuola normale?
E per tutti, fratelli e sorelle compresi, questo o quel tipo di divertimento, di passeggiata, saranno possibili se il figlio ha un handicap motorio? Si potranno invitare gli amici a casa se lui ha uno strano comportamento, se a volte è aggressivo o instabile?
Molto dipenderà dall’ambiente che 10 circonda: dalla famiglia, dai parenti, dalla possibilità che sia accolto per un pomeriggio dai nonni, zii e zie, da amici. Quanti genitori hanno visto fuggire, al momento dell’annuncio dell’handicap, quelli fra parenti e amici che sembravano loro più vicini, quelli dai quali si aspettavano un sostegno materiale e affettivo?
Alcune famiglie, in questi casi, si sono ripiegate allora nella prova, chiudendo il figlio handicappato e chiudendosi loro stesse in una sorta di ghetto.
Troppe persone dell’ambiente familiare hanno spesso un atteggiamento troppo prudente, troppo riservato, pensando di essere inopportune, quando proprio un gesto, anche minimo, l’accoglienza in casa per qualche ora, permetterebbe di spezzare quel muro.
Troppi vicini, troppi passanti, fanno pesare sul bambino con handicap e sui suoi genitori, uno sguardo di incomprensione, a volte, di rimprovero, che viene così fortemente risentito come un segno di rifugio.
Una vita spirituale cambiata
La prova che colpisce i genitori, ma anche i fratelli e le sorelle, provoca in tutti uno choc che rimbalza sul loro sistema di valori e modifica il loro rapporto profondo con Dio e con gli altri. Ciò che prima sembrava importante, appare ora molto secondario nei confronti delle domande essenziali: «Perché questa sofferenza? Che senso ha? Perché Dio permette questo scandalo?».
Gridiamo verso di Lui e Lui non risponde. Ogni giorno porta con sé nuove difficoltà; quelle dell’adolescenza, quelle dell’età adulta. E l’inquietudine più grande, vissuta come un’angoscia: «Che cosa sarà di lui quando noi non ci saremo più?» «Come sopporterà questa separazione e questa sofferenza?».
Alcuni rimangono alla stadio della rivolta, altri si avviano a una triste rassegnazione.
Eppure, conosciamo tanti genitori che lottano e che, progressivamente, assumono la situazione; con l’aiuto della Fede passano da un atteggiamento di depressione alla vera accoglienza. Quanti fratelli e sorelle di persone con handicap, vediamo, la cui maturità, formatasi nella prova, è superiore a quella dei giovani della loro età. Queste famiglie, queste persone, che in un primo tempo si sono piegate sotto lo choc, ricostruiscono un nuovo equilibrio, certo sempre fragile, ma fatto di coraggio e di lucidità. La nostra vita spirituale sarà passata attraverso il fuoco della sofferenza. Avrà perduto, senza dubbio, ogni forma di angelismo, perché la fede, è anch’essa molto fragile. Una ricaduta, un aggravamento, possono sempre farci ricadere nell’angoscia e anche nella rivolta. Ma nostro figlio ci avrà insegnato che le vere qualità dell’uomo non sono nella bellezza e neH’intelligenza. Incontriamo tante persone con handicap che sanno illuminare con la loro presenza chi sta loro accanto. Per quanto colpite e provate nel loro corpose nello spirito, sappiamo che ognuna di loro, così come nostro figlio, è insostituibile.
– Giacomo e Maria Labrousse, 1991
(O. et L. n. 92).
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.33, 1991
Sommario
Con la vostra collaborazione - Inchiesta di Mariangela Bertolini
Famiglie diverse? di Giacomo e Maria Labrousse
Educare è desiderare di Marie H. Mathieu
La Stelletta di Nicole Schulthes
Quel che mancava ai nostri figli di Laura Delay
Rubriche
Libri
L'omino di vetro di M.C. Barbiero
Vita! riflessioni sulla cultura dell'hadicap di C. Imprudente
Il mio piede sinistro di C. Brown