Invece di tenere da parte le persone minorate – come spesso succede – dobbiamo dar loro il primo posto nelle chiese, nei nostri quartieri, sul posto di lavoro… Non è così semplice. Eppure Gesù cosa ha fatto? Apriamo il Vangelo di S. Luca al capitolo 4°. Fin dalla prima predicazione, nella sinagoga di Nazareth, chiede la parola, sceglie un brano del profeta Isaia: «Lo spirito del Signore è sopra di me. Mi ha consacrato e mi ha mandato ad annunciare la Buona Novella ai poveri, a guarire i cuori spezzati dalla sofferenza, ad annunciare ai prigionieri la libertà, a ridare la vista ai ciechi». Finita la lettura dice: «Queste parole del profeta che avete udito, oggi si compiono».
Di fatto, subito, Gesù va verso i poveri, fra lo scandalo dei dottori della legge e dei capi religiosi. Lo ritroviamo con tutti gli emarginati dell’epoca: i ciechi, i sordomuti, gli storpi, i lebbrosi… i veri poveri di allora, gli esclusi! E’ «il segno» messianico per eccellenza. Ed aggiunge: «Beati quelli che non si scandalizzeranno per il mio modo di fare».
Infatti, agli occhi degli uomini, questo modo di fare è evidentemente uno scandalo. Per noi, al contrario, che vogliamo seguire le orme di Gesù, è una luce. In tutte le nostre comunità parrocchiali, famiglie, quartieri, sull’esempio di Gesù, dobbiamo dare il primo posto ai poveri. Ma il primo posto anche nei nostri cuori per trattarli sempre con rispetto e con la delicatezza che hanno diritto di aspettarsi proprio perché sono deboli, fragili, ultrasensibili, e perché in loro, noi cristiani, sappiamo di amare Gesù stesso. E vi assicuro, perché l’ho vissuto, se siamo verso di loro testimoni della tenerezza di Dio, saremo meravigliati da ciò che vedremo!
Ho potuto constatare nel «foyer» della «Forestière» che,da quattro anni, accoglie persone profondamente handicappate, cioè incapaci di camminare o di mangiare da soli, i miracoli operati dall’amore, dalla tenerezza dello sguardo, dalla tenerezza delle parole, dalla tenerezza del tatto.
Chiedo allo Spirito Santo di aprirci il cuore, a tutti, per affrontare una questione molto delicata. Gesù non si è accontentato di andare verso i poveri, per testimoniare il suo amore. Ha vissuto con loro, come povero, ha condiviso la loro vita fino alla fine. E’ più difficile fare come Gesù, dividere veramente la vita con loro. Per essere con loro i testimoni della tenerezza di Dio, non dobbiamo avere paura di trovare il tempo per amarli. Per stabilire con il povero una relazione di fiducia e di vera amicizia, ci vuole tempo: la fedeltà non appartiene al relativo ma all’assoluto. E la fedeltà, la si prova. La fiducia, la si merita. Ma questa fedeltà piena di tenerezza non può venire che da Dio. In lui, tenerezza e fedeltà non sono che una cosa sola. Dal momento che è dono di Dio, non cessate di chiedergliela. Se cessate di andare a cercarla a quella doppia tavola dove Gesù nutre i suoi discepoli – la tavola della sua Parola e la tavola del suo Corpo – perdereste molto presto questo dono di Dio. E vado più in là. Se cessaste di contemplare la presenza viva di Gesù, nella sua Parola e nella sua Eucarestia, presto cessereste di contemplarla nel povero. E presto sarebbe finita la vostra fedeltà nella tenerezza.
I poveri, testimoni della tenerezza di Dio
E vengo alla parte del mio articolo apparentemente più paradossale: se mettiamo i poveri al centro delle nostre comunità, se cerchiamo di essere per loro i testimoni della tenerezza di Dio, loro lo saranno per noi. E ci sarà questo meraviglioso scambio, voluto da Dio, e ricordato con insistenza da Giovanni Paolo II nel suo messaggio di Pasqua: perché se hanno bisogno di noi, noi soprattutto abbiamo bisogno di loro.
Personalmente, non saprei dire tutte le grazie che ho ricevuto da quando vivo con loro. E’ come una cura di «disintossicazione», di purificazione del cuore. Fanno cadere le maschere; ci si ritrova per quel che si è, nella verità. E se si arriva ad accettare i propri limiti, invece di nasconderli, ci si sente come liberati!
E’ una prima lezione. E vi assicuro che è grossa. Ma c’è di più.
I gesti di Filippo
Ecco un esempio: Filippo è sordomuto dalla nascita, è handicappato mentale ed è leggermente paralizzato: con lui non è possibile alcuna comunicazione d’ordine intellettuale. Vive con gli occhi… e con il cuore.
Siamo in settembre al momento di riordinare la cucina dopo pranzo. Tutti si danno da fare: spugne, strofinacci, tavole da pulire, pavimento da spazzare. Filippo, che durante le vacanze a casa, non ha certamente aiutato, si è eclissato nella stanza vicina che noi, pomposamente, chiamiamo salotto e si è sistemato sul divano. Veronica, la responsabile della Comunità, va a chiamarlo ma lui si rifiuta.
Comincia una lotta fra i due. Veronica ha la peggio. Cristoforo, un assistente va ad aiutarla. In due, riescono a calmare Filippo. Ed eccolo davanti ad una pila di piatti da mettere a posto: almeno questo! E’ un minimo, se si vuol far parte della comunità. Filippo, forzato ed adirato, esegue, ma sentiamo tutti che è furioso. Finito di mettere a posto i piatti, se ne va, sbattendo violentemente la porta. L’atmosfera è pesante. Come andrà a finire?
Siamo attorno alla tavola per il caffè: nessuno ha voglia di berlo. Veronica mi dice: «Padre Stefano, prima che Filippo vada a lavoro, vorrei far la pace con lui. Vado a cercarlo». Nello stesso tempo sentiamo un rumore: è Filippo che con uno slancio si getta su Monica. Ho un attimo di paura. Ma Filippo aprendo le braccia, la abbraccia. Viene poi verso di me e fa lo stesso, e senza far altro, va al lavoro. Restiamo senza parole.
Nella mia lunga vita di sacerdote, non ho mai visto una riconciliazione come questa: meraviglia dello Spirito Santo nel cuore di un uomo, nel cuore di un povero.
Michele
Attualmente vivo in una nuova comunità dell’Arche, dove ogni giorno celebro la messa alle 18,30. Una volta alla settimana, alle 11,30 perché vi possano partecipare anche gli esterni.
Fin dalla prima volta, Michele viene verso di me al momento della Comunione. Un assistente lo trattiene per la manica. Michele non ha ancora fatto la Prima Comunione. Dopo la Messa viene a trovarmi in sacrestia. Mi fa capire, con un linguaggio stentato, che desidera fare la Comunione. Gli dico di venire a trovarmi.
Viene. Gli mostro il libro tratto dal film su Gesù. Sulla copertina il nome di Gesù è scritto a grossi caratteri:
«Sai leggere questo nome?». No.
«E’ Gesù, hai sentito parlare di Gesù?» «No.»
«E Dio? Ne hai sentito parlare?»
A queste domande, Michele mi guarda con la bocca aperta: per lui è cinese: devo partire da zero.
Mi conosce? Mi ama?
Allora comincio a dire tutto quello che vedo dalla finestra: il cielo, le nu¬
vole, gli alberi, le piante,
gli animali, il sole…
«Vedi, tutte queste cose non si sono fatte da sole. E’ Dio che le ha fatte. Egli è l’onnipotente. E’ buono. Lo chiamiamo il Buon Dio.
E ha fatto tutto questo per noi. e ci conosce».
Mi conosce? «Certo, ti conosce. E ti vede sempre: quando lavori, ti vede. E sa quello che pensi. Conosce quello che hai nel cuore e ti ama.»
Mi ama?
Gradualmente il viso di Michele si fa pensoso. Ha smesso di guardarmi. I suoi occhi, fissi alla finestra, guardano lontano. Resta così, con la bocca aperta mentre io, lentamente, ripeto le stesse piccole frasi. Sembra che le beva letteralmente. Ne sono commosso. Se ne va come uno che ha scoperto un tesoro.
Ho saputo dal suo assistente di lavoro che Michele gli ha detto meravigliato: «Formidabile, il Buon Dio ci vede, ci conosce, mi ama».
Che accoglienza della Parola di Dio in quel cuore di povero!
Il giorno dopo, Michele, che pranza nella comunità degli esterni, viene di nuovo a trovarmi, mentre sto per finire di pranzare.
Ha visibilmente fame di altre cose lui! Continuiamo la conversazione di ieri. Stessa semplicità, stessa contemplazione. Da parte sua, stesso ascolto. Alla fine credo di potergli dire: «Se Dio ci vede, noi non possiamo vederlo.
Egli non ha corpo, ma possiamo parlargli: ci ascolta, anche senza parole, nel profondo del cuore. Per questo bisogna chiudere gli occhi. Allora non vediamo nient’altro. Non c’è che Lui. Vuoi che proviamo»?. Chiudiamo gli occhi: i miei, i suoi. Lungo silenzio. Qualche parola a Dio: «Se sei qui. Ci ascolti. Ci ami. Grazie». Michele è più radioso che mai
Michele mi cerca
Quando mi lascia: «Ritornerò!».
Di fatti, non si fa pregare per ritornare. E’ lui che mi cerca.*
«Michele, sicuramente ti chiedi come sappiamo tutto questo su Dio?».
Certo.
«Vedi, Dio ha mandato suo Figlio per dircelo. E sai come è successo? Non è arrivato dal cielo, così, in tutta la sua grandezza. Suo padre ha voluto che nascesse come noi da una mamma. »
Mentre parlo mi chiedo dove sto andando, se lui mi segue. Mi interrompe: «Ah, adesso capisco cosa vuoi dire, adesso capisco». Per diverse volte ho continuato a parlare di queste cose, le circostanze di questa nascita meravigliosa di Gesù nella stalla di Betlemme, come dei pastori, dei poveri, siano stati avvisati per primi.
Egli ascolta in estasi. Un giorno prima di alzarsi per uscire dice guardandomi negli occhi: «Sai, ho capito tutto. E’ geniale!»
Ogni settimana viene regolarmente alla Messa. Si mette nella prima fila. Bisogna vedere come guarda, come ascolta. Un giorno leggo il Vangelo della Presentazione al tempio. Michele ascolta molto bene e il giorno dopo gli spiego il versetto che dice «una spada ti trafiggerà il cuore». Maria portava il neonato fra le braccia e qui le viene annunciato che il bambino sarà per lei fonte di grande sofferenza.
Parlo dell’orrore del supplizio della croce, della mamma che è lì e che assiste tutto, del corpo, della lancia e della spada che trafigge il cuore… Michele ascolta con avidità.
«Non è troppo lungo per te, Michele? Non è troppo difficile?»
«No, no ti seguo bene. Continua.»
Allora continuo e parlo della Resurrezione. «Dio ha fatto uscire suo figlio dalla tomba, l’ha fatto rivivere! Dio ricompensa sempre coloro che sono buoni. Tutti saremo giudicati alla fine della nostra vita. E’ normale.»
Il Giudizio lo impressiona profondamente. Ma proseguo: «Vedi, Egli è vivo ora accanto al Padre. Anche lui ti ascolta, e tu puoi pregarlo. Mi hai appena detto che tutte le sere prima di addormentarti, preghi Dio e gli domandi di aiutarti. Puoi anche rivolgerti a Gesù, perché anche lui è in cielo, e puoi rivolgerti alla sua mamma perché anche lei è in cielo con lui».
«… io lo conserverò!»
Bisognava vedere il suo viso mentre gli parlavo!
L’emozione è forte. Michele ha quasi le lacrime agli occhi. Gli dico: «Michele, adesso è ora di mettersi al lavoro, sono le due, dobbiamo smettere».
Si alza con evidente dispiacere. Il suo viso è ancora turbato da ciò che ha appena imparato. Mi guarda: «Sai…». Vuole dire qualcosa, cerca le parole ancora più del solito. «Tutto quello che hai detto… ».
Cerca ancora, poi improvvisamente, di colpo mi dice con voce forte: «… io lo conserverò». Sono molto commosso io stesso e penso alle parole che si riferiscono a Maria. Il Vangelo ci dice che anche lei «conservava» tutte queste cose nel cuore.
Non finirei mai di raccontare tutto quello che ho vissuto insieme a Michele durante i quattro mesi di preparazione alla sua Prima Comunione. Questa è legata alla promessa delle resurrezione. Michele ha appunto appena perduta una sorella di venti anni e ne è profondamente addolorato. Gli mostro la fotografia di mio padre. «Vedi, Michele, è mio padre. E’ morto. Anche lui era buono. Dio farà risuscitare anche lui. Credo che un giorno andrò a rivederlo». Michele risponde: «Oh! Credo a tutto ciò che mi dici. Ma non andare subito in cielo: ho bisogno di te».
Una catechesi meravigliosa
Michele doveva fare la Prima Comunione a Natale. Per tre giorni venne di nuovo a trovarmi poco prima che terminassi di pranzare. «Finisco di mangiare e poi vengo, Michele». Quando uscii, Michele non c’era più. Salii in camera mia senza capire. Tre minuti dopo fu bussato alla porta. Era Michele.
«Dove eri, Michele?»
«In cappella.»
«In cappella? Perché»? «Chiedevo a Gesù di aiutarmi per la Prima Comunione.»
In cinquant’anni di sacerdozio non ho mai fatto una catechesi così meravigliosa: ciò è avvenuto con un ragazzo che non sa né leggere né scrivere e che ha molta difficoltà ad esprimersi.
Io ho parlato, ma è evidente che era lo Spirito Santo ad aprire il suo cuore alla mie parole. Ho insegnato, ma nella fede è stato lui, questo povero, il mio maestro.
E’ proprio vero ciò che Gesù disse a proposito dei piccoli. Ancora oggi il Padre continua a nascondere i suoi misteri ai saggi e ai potenti di questo mondo e continua a rivelarli ogni giorno ai piccoli.
I poveri sono davvero i nostri maestri. Maestri nella fede… ma anche maestri nell’amore.
– Stefano Desmazières, tratto da O&L n. 57, 1991
Mons. Stefano Desmazières, nono figlio di una famiglia del nord della Francia, diventa sacerdote e poi vescovo di Beauvais. Al momento di ritirarsi dal ministero, sceglie di vivere in una comunità dell’Arca (dove vivono persone adulte con handicap mentale e i loro assistenti). In questo articolo ci racconta come ha preparato alla prima comunione Michele, un giovane handicappato di quella comunità.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.35, 1991
Sommario
Il momento di capire di Mariangela Bertolini
Che vita è la nostra?! Sei mamme di ragazzi con disabilità si confrontano
Anche noi siamo persone
Al primo posto di Mons. Stefano Desmazières
La voce dei genitori (risposte all’inchiesta)
Rubriche
Libri
Imparo a vestirmi da solo di Marsha Dunn Klein
Strategie educative nell'autismo di AA. VV.
Storie vere di bambini autistici di AA. VV.