Lorenza venne al mondo con grave difficoltà nel 1955: alla sua nascita furono necessarie quasi un’ora di rianimazione e cure intensive per alcune settimane. Ci dissero che era stata salvata. Era la nostra prima figlia. Non immaginavo allora che questa nascita difficile avrebbe avuto ripercussioni su tutta la vita. Era salva, tutto era in regola.
Ci vollero tre mesi perché i familiari ci facessero prendere coscienza che le difficoltà di Lorenza erano anormali. La rivelazione dell’handicap fa un male atroce. Penso al vecchio Simeone quando dice a Maria che una spada le trapasserà il cuore. Anche lei, senza dubbio, non sapeva esattamente quale sarebbe stata la sofferenza che le veniva annunciata. È un po’ la situazione dei genitori dei figli gravemente handicappati: una rivelazione che giorno dopo giorno sconvolgerà la loro vita.
Lorenza ci ha lasciato nel 1982, aveva 27 anni. Non ha mai camminato né parlato, usava a malapena le mani. Bisognava lavarla, portarla, farla mangiare; si bagnava di notte e a volte di giorno. Era catalogata come disabile profonda con un quoziente di intelligenza basso. Ma come accettare che il proprio figlio non possa imparare a leggere, a scrivere, a contare? Per noi era la cosa più traumatizzante. Questo handicap fisico e mentale così pesante l’abbiamo vissuto, io e mio marito, scoprendo poco alla volta i limiti di Lorenza e, forse ancora più lentamente, le sue ricchezze.
Oggi posso parlare perché dopo sette anni ho avuto il tempo per «ruminare» tutto ciò nel mio cuore. Bisogna che il chicco di grano muoia per dare frutto. La morte di Lorenza è stata per noi qualcosa di più difficile da portare di tutta la sua vita. Con il tempo, è stata proprio questa morte che ci ha permesso di capire i passi di Dio verso di noi.
«L’hai chiamata per portare frutto». Quando mi è stato proposto questo titolo ho pensato: mi piace, perché dirò la mia certezza: La vita di Lorenza , questa vita così poco importante all’apparenza durante 27 anni, ha un senso. Ma per scoprirlo bisogna oltrepassare la barriera dell’handicap. Ciò non è dato al mondo che giudica secondo i suoi valori, un mondo del quale alcuni membri possono proclamare ufficialmente che bisognerebbe sopprimere alla nascita quelli che non avranno «una vita degna di essere vissuta».
In che cosa la loro vita non è degna di essere vissuta?
Era felice di vivere
Posso affermarlo: Lorenza era gravemente handicappata e ha avuto una vita felice. Non dico che non abbia sofferto per il suo handicap, fisicamente e moralmente; dico che ha pienamente risposto all’appello che era il suo. Lorenza era molto allegra e piena di umorismo. Tutti ricordano il suo riso così comunicativo.
La libertà di un bambino molto handicappato si esprime anche nel suo modo di rispondere ai sentimenti di chi gli è vicino. Li percepisce con intensità. Noi amavamo Lorenza e lei ci amava — noi, i familiari, gli amici — in modo straordinario, senza ripiegamento su se stessa. Dopo la sua morte nostro genero ci disse che quando aveva avuto i primi contatti con la nostra famiglia la persona che lo aveva accolto meglio era stata Lorenza.
Perché si manifestino le opere di Dio
«L’hai chiamata per portare frutto».
Questa chiamata che Lorenza ha ricevuto non è straordinaria. È quello che il Signore fa sentire a tutti e a ciascuno in particolare.
«Andate nella vigna». Tutti sono chiamati, a tutte le età, in tutte le situazioni. Tutti i battezzati devono essere testimoni della Buona Novella da portare al mondo.
Allora realmente un bambino molto handicappato può essere testimone del Signore? Giochiamo con le parole?
Si può ammettere che da questo male da cui è stato colpito possa uscire un bene, e quale bene?
«Perché si manifestino le opere di Dio» rispose Gesù ai suoi dicepoli che volevano sapere la ragione della cecità del cieco nato.
Non conosco nella Scrittura risposta altrettanto chiara nel senso di certe vocazioni. I nostri figli handicappati sono dei profeti, come ogni battezzato, chiamati a far conoscere le opere di Dio che si manifestano in loro. La loro vita è un messaggio che bisogna imparare a leggere. Ci ho messo molto tempo per capire questo ruolo di testimone attribuito a Lorenza. Avevamo chiesto che fosse cresimata perché avesse la pienezza dei doni di questo sacramento. Ma in nessun momento mi era venuta l’idea che avesse un ruolo di testimone da vivere nella Chiesa e nel mondo.
Lorenza ci ha insegnato
«L’hai chiamata per portare frutto, per manifestare le opere di Dio», questo Dio tanto vicino, che si manifesta là dove è inaspettato. Il frutto della vita di Lorenza, della vita di questi ragazzi grandi handicappati, è un frutto di conversione per gli altri. Ci vogliono la loro debolezza e la loro povertà per raggiungere i nostri cuori e cambiare i nostri pensieri e le nostre vite.
Lorenza ci ha reso più «permeabili», più sensibili a molte sofferenze, alla solitudine, alla fatica, allo scoraggiamento di chi ci circonda. È salvato chi sa chiedere all’altro: «Qual è il tuo tormento?»
La vita spirituale è il campo nel quale questi nostri figli ci danno di più. Farò due esempi.
Il senso . dell’attesa
«Aspetta» è la parola che ho detto di più a Lorenza. Avevo tante cose da fare. Il tempo è una delle ossessioni che pesa sui genitori di figli handicappati. Trovare il tempo, essere lì in tempo, avere tempo per occuparsi del figlio tutti i giorni, trovare il tempo per gli altri, per la famiglia, per il lavoro. «Aspetta!» e Lorenza aspettava, spesso con molta bontà. Altre volte manifestava la sua impazienza in modi diversi. Sapere aspettare l’Altro, aspettare Colui che viene… È un’eco dell’Avvento. L’importanza dell’azione è rimessa al suo posto. I nostri figli non fanno praticamente nulla. Sanno aspettare e desiderare questa venuta dell’altro. Quello che sa desiderare la Sua venuta, vegliare e aspettare, quello il Signore lo serve Lui stesso.
I nostri figli handicappati ci rivelano un’altra dimensione: La dipendenza. Nel- Lorenza con la sorella Elisabetta al mare le case di accoglienza speciali, fatte per loro, gli adulti sono tributari degli altri in tutti gli atti della loro vita. Questa dipendenza è un male terribile. Non potere fare nulla da soli, o così poco: nemmeno girarsi nel letto quando si ha male, mangiare quando si ha fame, spostarsi. Il grande sforzo di tutta la rieducazione fin dalla più tenera età è vincere questa dipendenza e renderli più autonomi possibile. Ma ci sono limiti che non si possono far indietreggiare e Lorenza sapeva accettarli meravigliosamente così come tanti altri giovani handicappati come lei.
Mi ricordo uno di loro che ero andata a trovare all’ospedale dopo un’operazione. Il suo vicino di letto, per attirare la mia attenzione, mi disse: «Signora, come è strano Francky; quando fa cadere qualcosa che non può raccogliere dice : Amen».
I nostri giovani adulti accettano la dipendenza totale di trovarsi nudi, con il loro corpo deformato, quando vengono curati e lavati. Da sempre sono abituati alle mani dei genitori, ma quando si tratta di quelle di giovani professioniste… È qui che il «saper essere» ha più importanza del «saper fare» perché i nostri giovani, qualsiasi sia il loro handicap, sono sensibilissimi nello scoprire il rispetto, l’amore oppure l’indifferenza, anche il disprezzo, di chi si occupa di loro.
Un’educatrice mi ha raccontato che un giorno che aveva cambiato Lorenza che si era sporcata dalla testa ai piedi, questa le aveva preso la mano e l’aveva baciata. Essi sono i nostri maestri. Ci inducono a meditare sulla Lavanda dei piedi: c’è chi, come il Signore, lava quelli dell’altro e c’è chi accetta di essere lavato. Noi accettiamo così male le nostre dipendenze occasionali dovute a infortuni, alla malattia, all’età.
La dipendenza è un male in sé che limita un essere nel suo corpo, nel suo spirito, nelle sue possibilità, ma può trasformarsi in valore essenziale e spirituale nel momento in cui liberamente vi si consente. Il peccato dell’umanità è quello di volere «deificarsi» e non accettare alcuna dipendenza, neppure nei confronti di Dio. Oggi in modo particolare, oggi che l’uomo, ebbro del suo potere e del suo sapere, pretende di gestire la vita e la morte a suo piacimento.
Un’altra rivelazione
Ci fu un periodo in cui avevo un desiderio immenso che Lorenza dicesse la parola «mamma». Cercavo fra l’altro, toccandole il mento, di provocare delle vibrazioni e speravo che il suono che ne derivava meccanicamente si avvicinasse a questa parola.
Una sera, inginocchiata vicino a lei, mi sforzavo di fargliela dire. All’inizio questo fu per lei un divertimento; aveva un’espressione burlona e sembrava dire: puoi sempre accanirti, ma sai molto bene che non la pronuncerò. Poi ne ebbe abbastanza; io continuavo: volevo tanto sentire quel nome. Allora il suo sguardo ebbe un’espressione straordinariamente parlante. Esprimeva un’immensa tenerezza e voleva dire: «Che può significare per te che io non te lo dica con la bocca? Posso dirtelo in un altro modo.» Questa comunicazione profonda ci insegna a indovinare ciò che esprimono i gesti, lo sguardo, le grida, il sorriso; ci insegna ad avvicinarci agli altri e a capirli senza ricorrere alle parole. Ci insegna inoltre a pregare senza parole in una comunione interiore.
Dove cercarti, Signore?
È proprio perché le opere del Signore si manifestano in loro che i nostri figli ci insegnano a credere. La nostra fede non consiste nel credere che Dio esiste, ma che Dio entra nella nostra vita, che è vicino e che bisogna cercarlo. Dove? Cristo ce lo ha detto: «Ciò che farete ai più piccoli dei miei lo farete a me.» Il più piccolo, colui al quale bisogna dare da mangiare e da bere, colui che è prigioniero del suo corpo è il nostro figlio gravemente handicappato. Egli ci è stato dato perché il mondo possa scoprire un certo viso del Signore e la sua presenza.
– Marie Claude Fabre, 1990, tratto da Ombres et Lumière n. 89
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.30, 1990