Carissime mamme, carissimi papà, vogliamo parlare un po’ fra noi? Io sono una come voi. Cioè una mamma, alla quale un giorno, bruscamente, un medico disse che la bimba appena nata che tenevo fra le braccia con orgoglio e gioia era handicappata, era mongoloide. Chi ha avuto questa amara, dolorosa prova non può tralasciare di rivivere quel momento, anche se poi, col passare del tempo, col fare altre esperienze anche positive, tutto si calma, si ridimensiona. Ma ecco un po’ della mia storia.
Dopo 13 anni di matrimonio, ai nostri tre figli si aggiunse un’altra creatura. Mio marito ed io avevamo 44 anni: io ero stupita e felice di diventare mamma un’altra volta; accogliemmo la notizia con grande entusiasmo, anche se la maternità si presentava difficile.
Ricordo le cure, le attenzioni, l’attesa: i momenti dolcissimi della preparazione di un corredino tutto nuovo, aiutata dagli altri bambini ormai grandicelli. Tanti progetti facevamo tutti insieme, tante preghiere. I figli preparavano disegni che io ricalcavo per ricamarli su federe, lenzuo lini, ecc. Un momento di sole su tutta la casa.
Il 13 maggio 1953 nacque la nostra Pia. Attorno a noi visi contenti di parenti e amici. Nessun medico né personale della clinica parlò. Seppi la verità solo qualche giorno dopo. Impossibile descrivere il dolore, anche fisico,che provai. Sorretta da qualche parola di conforto mi rifugiai in cappella e forse fu l’ultima volta che riuscii a piangere disperatamente, pur accettando la volontà di Dio. Anche mio marito seppe dire il suo SI.
Sorvolo, perché sarebbe troppo lungo, su quegli anni e su tutti gli sforzi fatti per aiutare lo sviluppo della bambina. Col migliorare delle condizioni fisiche, si cercava tutti in famiglia di aiutare la piccola ad evolversi verso altri modi di vivere.
Una lentissima ascesa senza mai scoraggiarsi. La vedevamo muoversi, giocare, prendere contatto con le piccole realtà.
Seguivamo i primi passi, le prime parole, gli abbozzi del comportamento, un’infinità di piccole cose, di superamenti difficili, in un rinnovarsi continuo di speranze e fiducia. Insegnarle come agli altri figlioli: Pia aveva ora l’età scolastica. A questo punto superai un’altra prova.
Osteggiata, ma risoluta a spuntarla, riuscii a portare la figlia presso un istituto perché ricevesse un’educazione adatta da persone di alto livello professionale e squisitamente dedite a questa missione per vocazione.
Pensavo anche agli altri figli che avevano bisogno di un ambiente più calmo. Era uno strappo per me, ma necessario per la bambina e la serenità della famiglia. Prima di entrare in istituto Pia ricevette privatamente la Santa Cresima dal nostro vescovo, che fu l’unico a comprendere, in quel momento, il nostro desiderio. L’anno seguente, convenientemente preparata, ricevette la Santa Comunione: Pia aveva 8 anni.
Aggiungo qualche parola sulla permanenza nell’istituto. Ero convinta che lì mia figlia avrebbe ricevuto quel bagaglio di aiuti che ne a vrebbe facilitato l’inserimento sociale.
Mi rendevo conto che con tutto il suo amore, la famiglia non può arrivare a tutto. Infatti spostando il centro d’interesse solo sul figlio handicappato non l’aiuta ad evolversi nel modo giusto; può farlo diventare un piccolo egoista e, più tardi — quando nessun familiare gli sarà accanto — una persona veramente infelice. Inoltre questo momentaneo allontanamento permette agli altri figli uno spazio più sereno per maturare, insieme a noi genitori, una consapevolezza umana, ma non drammatica della situazione.
Ora però strapparsi da lei era strapparsi qualcosa dentro e comprendo quei genitori così restii a questo passo perché so che anche per me è stato un momento molto duro. Sofferenza tuttavia largamente compensata dalla riuscita. Devo tanto all’ambiente che l’ha accolta. C’era una continua collaborazione fra l’istituto e famiglia, in un ambiente gioioso, fervido di opere, stimolante per i figli e per la famiglia, nelle ore che trascorrevamo insieme.
Quando dopo 5 anni, Pia fece ritorno a casa, non si era del tutto impreparati, ma bisognava continuare il lavoro, scoprire altri, risultati delle sue possibilità, dialogare con lei. Perciò vi furono nuove persone impegnate accanto a lei, vita con gli altri, vita di gruppo sportiva e ricreativa, viaggi ecc. Insomma, è necessario favorire i contatti umani, poiché è essenziale insegnare anche a questi nostri figli ad essere generosi, buoni, dignitosi. Anche quando chiedono a noi genitori se sono malati, occorre saper dire con tranquillità che non siamo tutti uguali, che c è chi può fare tante cose e chi no, chi studia e chi non può, ma che l’importante è far bene e con gioia quello che si riesce. Insisto sull’educazione, soprattutto alla luce della Fede, della pratica religiosa, che questi nostri figli sentono molto. Chi è abituato a vivere loro accanto, sa quanto c’è nell’espressione di fede degli handicappati, la speciale disponibilità all’ascolto, alla sofferenza altrui che captano e cercano di consolare a modo loro, ma sempre in maniera commovente.
Noi due viviamo ora sole da dieci anni. Gli altri figli sono sposati. Nelle drammatiche ore che seguirono la morte di mio marito, io temevo ne ricevese una scossa per tutta la vita, perché cadde davanti a lei. Quando qualcuno mi diceva parole di conforto, lei, sempre seduta accanto a me, rispondeva: È il Signore che l’ha chiamato» e dava coraggio a me.
Poi abbiamo ricominciato subito la nostra vita, giorno dopo giorno, cercando di costruire sempre qualcosa di nuovo, grati a chi ci porge la mano con gesti di amicizia e solidarietà. Dialoghiamo fra noi al mattino, poi ciascuna segue il suo programma. Pia aiuta nei lavori domestici presso una casa di soggiorno per persone anziane, che lei chiama «la sua seconda casa». Ogni mattina, sempre da sola, esce per le commissioni, prende il bus. Cerco di renderla indipendente il più possibile. È giusto che abbia le sue amicizie.
È giusto che impari a scegliere qualcosa per lei, che esprima il suo gusto per qualche oggetto, ma che sappia anche chiedere alla venditrice, senza vergognarsi, di aiutarla a contare la moneta che conosce poco. Deve accettare questo limite, senza farne un dramma.
Sento che devo ringraziare il Signore per la strada che ha voluto per noi, perché così abbiamo imparato che non siamo mai soli, che molti altri nostri fratelli devono soffrire in mille altri modi. Abbiamo imparato a considerare che, pur nella lenta maturazione che può durare una vita, anche un dolore come il nostro può trasformarsi in dono.
– una Mamma, 1990
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.32, 1990
Sommario
Lezione di danza insieme di Mariangela Bertolini
Abib, Mohamed, Naima
Accogliere un bambino autistico di Beatrice Frank
Io sono una come voi: una mamma
Preghiera della malattia
Una passegiata in campagna di Gilberte Roger
Chi ha avuto paura fa gratis un altro giro di Riccardo Guglielmin
Ma non sono sola di Gaia Valmarin
Malattia mentale e legge di Sergio Sciascia
Malattia mentale - Una soluzione giusta di Sergio Sciascia
Rubriche
Libri
Il tuo nome è Olga di J. M. Espinàs
Il corpo spezzato di J. Vanier
Bibliografia italiana sui disturbi dell'Udito, della Vista e del Linguaggio di S. Legati