Avete saputo subito dell’handicap di Domenico?
Quando aspettavo Domenico, all’ottavo mese, mi sentii un po’ inquieta: sentivo che il bambino si muoveva solo da un lato. Seppi poi che aveva il cordone ombelicale attorno al collo e un piedino incastrato.
Alla sua nascita vidi e capii subito che qualcosa non andava e con mio marito scegliemmo di conoscere tutti i rischi cui sarebbe andato incontro in futuro. Devo ringraziare il vecchio medico di famiglia che ci disse: «La medicina farà tutto quanto potrà, ma nulla sostituirà le braccia dei genitori.»
Quali sostegni avete avuto?
In tutti questi anni, quello che mi ha aiutato di più è stata l’educazione forte ricevuta dai miei. La mia famiglia era di origine contadina. I figli dovevano ubbidire e far quello che dovevano fare. Questo mi è servito in seguito.
Non ci si disperava per poco, si imparava a tener duro.
Domenico imparò a leggere e a far di conto a casa. Mio marito gli aveva fabbricato un alfabeto di legno. A sei anni andò in una scuola speciale. In quinta entrò in un collegio con bambini normali grazie a un direttore oratoriano che aveva convinto i professori a tentare l’esperimento. Gli sono stata vicina lungo tutti i suoi studi, in classe come «segretaria». All’inizio, ero un problema per i professori: la mia presenza li metteva un po’ a disagio. Cercai di essere molto discreta e alla fine diventai un appoggio anche per loro.
Domenico, quali sono le maggiori difficoltà che hai incontrato?
Alla scuola speciale tutto andava bene. Non ero a disagio per il mio handicap. Le difficoltà cominciarono al liceo: la mancanza di indipendenza e di libertà di movimento; vedere gli altri giocare e correre era molto duro per me. Non potevo mangiare da solo. Fino a dieci anni ebbi un’alimentazione semi-liquida. Anche lo studio mi causava tensioni notevoli. Lavoravo ore e ore, dal mattino fino alle sette di sera. E poi c’erano le ore di rieducazione. Scrivevo a macchina, ora scrivo amano.
Presi la licenza con un «segretario». Poi cominciai gli studi superiori, per il diploma in tedesco, ma mi innamorai di un’amica che prese subito le distanze. Ne ho sofferto molto. Dopo due mesi, lasciai perdere gli studi.
Da allora, rimango a casa. Tre anni fa, ebbi una crisi depressiva. È così difficile accettare di vivere su una carrozzella, dipendere dagli altri per ogni movimento…
Ma ora posso mangiare da solo e da solo mi occupo dei miei soldi e so amministrarmi. I miei amici sono tutti partiti, sposati.
A volte mi annoio. Sono di malumore. Mio fratello si è sposato dieci anni fa. Non lo vedo più. Quando era piccolo giocava con me, spingeva la mia carrozzella.
Che cosa ti ha sostenuto? Che cosa, ora, ti sostiene?
I miei genitori che mi hanno «portato» veramente, mio fratello, gli amici, la fede. Vado in pellegrinaggio con la diocesi a Lourdes, seguo dei ritiri per giovani. Vado in un monastero vicino casa dove riesco a ritrovare la forza di andare avanti.
Il paese dove vivo conta 450 abitanti; non c’è il negozio di alimentari, nemmeno il fornaio. Vado a messa a tre chilometri da qui. Ma conosco poco i parrocchiani.
La gente non mi capisce sempre bene, ma non si deve aver paura di farmi ripetere quando nort mi si capisce.
Bisogna prendere il tempo necessario. Mi ritengo fortunato perché sono circondato da gente abbastanza intelligente per capire il mio handicap in modo da trattarmi normalmente. La gente, in generale, è gentile con me. Mi dice: non te la prendere, ripeti. Io accetto; non mi dispiace.
Mi aiuta il fatto che adesso ho meno difficoltà con chi mi avvicina. Forse perché sento che le persone sono anche loro meno a disagio e conoscono meglio i problemi delle persone con handicap. Quando ero più giovane, avevo la tendenza a sbavare ed ero costretto a portare al collo un tovagliolo. La testa mi cadeva fino alle ginocchia. Ora ce la faccio a stare eretto, grazie a tutta la rieducazione e questo facilita i contatti con gli altri.
Come passi le giornate?
Leggo moltissimo, mi interessa tutto. Sono abbonato al corriere dell’UNESCO, a Pax Christi. Faccio delle passeggiate. Vado a Parigi a visitare i musei (sto compilando una lista dei musei accessibili agli invalidi). Mi piace molto viaggiare e grazie all’associazione degli invalidi posso visitare molti paesi stranieri.
Prendo l’aereo! In treno, chi mi accompagna ha diritto al biglietto gratuito. In aereo ho degli sconti considerevoli. Posso viaggiare anche solo (per brevi tragitti a causa dei bisogni naturali!). Mi piace telefonare. È strano, al telefono mi capiscono meglio. Un esempio: l’altro giorno il gattino che abbiamo a casa aveva dei problemi: ho potuto chiamare il veterinaio.
Poco fa, hai alluso alla tua fede…
Prego, cerco di mettermi in comunicazione spirituale con Dio. Confesso che lo faccio raramente in questo periodo. In qualche modo, è una mancanza di fiducia in Lui. So che confessarmi regolarmente mi aiuta a riprendere contatto con Dio. Ogni volta che partecipo a un incontro spirituale, mi ritrovo una pace che libera il cuore.
Leggendo riviste e giornali, si trovano articoli su tutti i problemi del mondo, dei paesi, dei popoli con gravi disagi e sofferenze e che desiderano uscirne fuori. Che c’entra con la fede?, direte. È l’impegno che posso prendere verso di loro perché credo che, con la preghiera, possa esserci un’alleanza fra gli uomini e che così posso aiutarli nella loro lotta.
Come vivi il celibato?
Non ho voglia di sposarmi. Ho paura che l’amore non duri a lungo. Ma è anche una sofferenza. Il medico mi ha detto che non sono impossibilitato ad avere figli. I bambini mi piacciono tanto !
Lasciamo Domenico; siamo colpiti dalla sua serenità, che si vede conquistata giorno dopo giorno. Abbiamo avvertito il desiderio di trovare un lavoro che gli permetta di mettere in atto le sue possibilità. Vorremmo che tutti i Domenico del mondo potessero trovare una comunità di accoglienza, con giovani come loro e con persone dette «normali» alle quali — lo crediamo — possono offrire un modo «forte» di vivere e di testimoniare.
– Intervista a Domenico R., 1990, tratto da Ombres et Lumière n. 88)
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.30, 1990