Accingendomi a scrivere queste righe su mio figlio Antonio e sulla sua storia, sento d’essere in bilico tra il proponimento di attenermi alla fredda narrazione dei fatti — di per sé già tanto eloquenti — e la tensione emotiva che inevitabilmente rinasce nel trattare un argomento che così profondamente ha inciso nella mia vita. Mi pare che quella della lettera possa essere per me la forma migliore per raccontare la storia di un rapporto doloroso all’inizio e irto di impensabili difficoltà, risoltosi poi nel modo che dirò per la mia decisa volontà di non darmi per vinto e di non lasciare nulla di intentato, sperando anche contro ogni speranza.
Una lettera che potrebbe essere scritta così.
«Caro Antonio, quando nascesti, in quell’ormai lontano settembre 1957, fui un uomo felice. Avevo anch’io un figlio, il primo, sano e bello, un esserino implume che sarebbe cresciuto, che avrebbe corrisposto ai grandi progetti che gà accarezzavo nei suoi confronti…
A sette mesi avesti una febbre violentissima. A dieci, eri già irriconoscibile.
Cominciò presto il giro estenuante degli specialisti, fino alla diagnosi agghiacciante del prof. Ungari. Eri un bambino spastico, mi disse. Sembrò che il mondo mi cadesse sopra. Non capii bene, afferrai solo confusamente che qualcosa di molto grave ti era accaduto, Antonio, che qualcosa di molto grave era accaduto a tua madre e a me.
Che fare? pensai. Arrendermi, ripiegarmi su me stesso e piangere per tutta una vita? Decisi di rimboccarmi le maniche e agire, anche contro ogni speranza.
Qualcuno mi parlò dell’A.I.A.S., Associazione per l’Assistenza agli Spastici, nata da poco e che aveva appena aperto una sede a Roma, in via degli Scipioni 132. Cominciai a farti frequentare quell’ambulatorio e offrii all’A.I.A.S. tutta la collaborazione che potevo, ritagliandola dal mio tempo libero che sacrificai interamente a questo mio nuovo impegno. Presto divenni tesoriere dell’Associazione e mi adoperai per farla crescere e diffondere su tutto il territorio nazionale.
Gli anni passavano, caro Antonio, ma io cominciavo a vedere risultati meravigliosi dovuti a due ragioni: alla tua partecipazione attiva e profonda al programma riabilitativo che si veniva realizzando e alle grandi capacità tecniche di una persona che fu per te, tu lo sai caro Antonio, come una seconda madre. Parlo della terapista Maria Bucuddu che né tu né io potremo mai dimenticare e che fino al 1970 per te profuse tutte le capacità della sua arte.
E come potremo dimenticare Jarka, la terapista venuta dalla Cecoslovacchia, che per quattro anni ti ebbe in cura presso l’Associazione “Anni Verdi”, come non ricordare il nostro carissimo Tony Gemayel, che con tanta intelligente passione ha proseguito nell’opera intrapresa?
Quante care e brave persone, Antonio, alle quali dobbiamo tutta la nostra riconoscenza.
In dodici anni eri rinato. Prima eri rigido come un tronco, non parlavi, non potevi deglutire, non avevi il controllo degli sfinteri, e ora muovevi i tuoi primi passi, mangiavi, parlavi e potevi persino frequentare una scuola. Ricordo che ad “Anni Verdi” era stata istituita una Sezione distaccata dell’Istituto Magistrale Vittoria Colonna (la cosiddetta scuola speciale). Oggi considerano un errore le scuole speciali, tuttavia è lì, caro Antonio, che hai fatto i tuoi progressi lenti ma evidenti, è lì che hai preso il tuo bel diploma da maestro nel 1976, a 19 anni, come tutti i tuoi coetanei, il che ti ha dato tanta fiducia in te stesso. Ecco perché credo nella riabilitazione, ecco perché ne ho fatto lo scopo della mia vita. I suoi effetti positivi li ho visti, direi li ho toccati con mano su di te e su decine di altri ragazzi che a me si sono poi affidati.
Mettendo a frutto tutta la mia esperienza maturata negli anni precedenti, nel 1977 creai l’A.L.M., Associazione Laziale Motulesi, puntando proprio sui “lesi nel moto”, su coloro cioè che meno degli altri disabili hanno mezzi di difesa nei confronti dell’ambiente circostante. In seguito, avendone la possibilità, ho accettato nel nostro Centro di via Laurentina 5, anche ragazzi affetti da altre patologie, tuttavia ancora oggi la stragrande maggioranza dei nostri ospiti, come sai, sono proprio motulesi (73 su 120).
Possiamo ora fare un bilancio retrospettivo, caro Antonio.
Vederti ora, per tua madre e per me, è avere superato ogni aspettativa. Oggi dipingi, inventi oggetti d’arte in ceramica presso il nostro laboratorio, scrivi poesie, componi articoli per il nostro giornale, ti muovi autonomamente con la tua piccola auto a tre ruote, prendi la metro, viaggi, hai risolto i tuoi problemi affettivi con Simona, la tua compagna di vita.
Io ti guardo costantemente e vedo che fai ancora ogni giorno qualche progresso, sotto la sicura guida della terapista Elvira Sabelli.
Sei pieno di interessi, fai il tifo per la Roma, insomma partecipi alla vita come tutti gli altri.
Certo, Antonio, lasciamelo dire. Hai potuto raggiungere questi risultati perché ti sei impegnato in prima persona, indubbiamente. Ma anche perché dietro di te c’è stata una famiglia che non si è lasciata abbattere, che non si è arresa mai, che ha sempre preferito l’azione alle vane lamentele. Tu, in qualche modo, hai determinato la nostra vita, la nostra vocazione. Tuo fratello Bruno è diventato un ottimo fisioterapista e tua sorella Rita è infermiera professionale nell’ospedale di S. Giovanni. Tutti siamo rimasti coinvolti in attività sanitarie.
Come posso concludere questa breve lettera, mio carissimo Antonio? Che la tua, che la nostra esperienza possa servire da esempio a quei ragazzi, a quei genitori-che vivono un’avventura come la tua, come la nostra. Sappiano costoro che mai bisogna disperare, mai arrendersi, mai adagiarsi e rassegnarsi. E invece partecipare, lottare, impegnarsi attivamente in prima persona, senza mai delegare a nessuno la nostra capacità di reagire ai colpi della sorte.
È questo, caro Antonio, l’augurio che faccio ai ragazzi come te e ai genitori che, come me, si sono trovati e si trovano ad affrontare problemi simili ai tuoi».
– Giuseppe Sorce, 1990
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.30, 1990