Finalmente l’ho trovata! Si chiama Casa della Carità. Anzi: Case della Carità, perché ora sono una trentina, compresa l’ultima aperta questo dicembre a Roma, nel quartiere della Magliana (casadellacarita.it).
Il nome Casa della Carità non suona molto bene, ma la sua realtà è letteralmente rivoluzionaria. La Casa della Carità accoglie stabilmente, in una istituzione che è esattamente una famiglia numerosa, persone rifiutate che non hanno dove andare. La Casa è affidata alla parrocchia e alla responsabilità della comunità parrocchiale e ha come capofamiglia uno o due componenti della Congregazione Mariana delle Case della Carità.
Le Case non fanno convenzioni, cioè non chiedono denaro a enti pubblici.
Per descrivere la storia, le caratteristiche, il significato di queste Case, mi affido alle parole di fratel Romano Zanni, sacerdote, attuale (nel 1989 N.d.R.) priore generale della congregazione che sono andato a conoscere nella Casa di Reggio Emilia.
Prima però voglio dare ragione di quel «finalmente» iniziale. Conosciamo molte e anche belle e umanissime istituzioni della Chiesa, di congregazioni religiose, di diversi tipi di associazioni (compresa l’Arche di Jean Vanier dal quale Fede e Luce e anche questo giornale discendono). Però non sono al centro di quella cellula della comunità cristiana che è la parrocchia.
Eppure Jean Vanier, o il cardinale Martini (come lo sentimmo nell’incontro delle Comunità Fede e Luce di Assisi nel 1987) e in genere i migliori uomini della Chiesa ci ripetono che come cristiani dobbiamo rimettere il «povero» al centro, nel cuore anzi, della comunità cristiana. È intorno a questo povero che è come Cristo — ci avverte il Vangelo — che la comunità cristiana può riacquistare il senso che sembra trovare con sempre maggior difficoltà. Invero la comunità cristiana si occupa in certa misura di questi poveri (poveri di salute, di cultura, di facoltà mentali o fisiche, di denaro). Ma non li tiene al suo centro. Dedica loro case o istituti talvolta belli, scientificamente aggiornati e pieni di carità, ma in luoghi a parte. Le Case della Carità invece sono al centro della parrocchia.
Questa realtà, che se noi cristiani non siamo ciechi e sordi al Vangelo può essere un fondamentale seme nuovo nella Chiesa, nacque nel 1940 a Fontanaluccia, un paesuccio in cima all’Appennino modenese, presso il Passo delle Radici, che non era neppure raggiunto da una strada. Lì — racconta fratel Romano — nel 1938 arrivò un nuovo parroco, don Mauro Prandi.
Il paese era di quella miseria che chi non l’ha vista non può capirla.
C’erano alcuni minorati mentali, anche gravi. Allo scoppio della guerra, da lì a due anni, con gli uomini richiamati e le donne a dover fare tutti i lavori dei campi avarissimi, del bosco e della casa, quei minorati si trovarono più che mai abbandonati a se stessi per la maggior parte della giornata, insidiati anche da pericoli morali. Prima don Mario pensò a ricoverarli presso un qualche istituto di carità come il Cottolengo di Torino, ma questo avrebbe portato a staccarli completamente dalla loro realtà familiare e paesana.
Don Mario, che predicava ai parrocchiani che i poveri sono «il tesoro della Chiesa», secondo le parole di San Lorenzo riportate negli Atti dei Martiri, domandò a sé e alla comunità se non sarebbe stato assurdo privarsene.
Una donna del paese, che aveva due figlie minorate mentali, diede alla parrocchia una sua casetta adiacente, purché vi venissero accolte le figlie. La gente andò a prendere sabbia dal fiume, legna dal bosco; aggiustarono la casa, la dipinsero, la dotarono dei mobili essenziali. Alcune ragazze a turno vi prestavano servizio volontario. Era una casa della parrocchia, mantenuta e servita dalla comunità!
Tutto cominciò così, molto semplicemente, con l’idea che come c’è nella parrocchia un tabernacolo che custodisce l’eucarestia, così deve essercene un altro che custodisce l’altra presenza di Gesù, i «poveri».
Don Mario capì presto che per dare continuità alla cosa occorreva al suo interno un’anima consacrata, e si mise alla ricerca di suore. Ma lì mancava tutto: strada, luce, telefono; le suore che arrivavano non resistevano. Avviò allora l’esperienza delle suore consacrate all’interno della casa, e la prima fu Maria una giovane volontaria, oggi madre generale. Però si mantenne sempre per le Case della Carità, la caratteristica di essere opere della parrocchia e nella parrocchia. Nelle Case, le suore e poi i fratelli della Carità, consacrati, garantiscono la continuità, ma il servizio, il lavoro è garantito dalla comunità parrocchiale. Questo carattere originale anticipò di molti anni il Vaticano II e il principio dell’inserimento delle persone con handicap nella società. Lì, vicino la chiesa, al centro della comunità, vanno a messa la domenica, possono uscire, sono sotto l’attenzione della comunità, non sono tolte dal loro ambiente.
Altri sacerdoti, vedendo i frutti soprattutto spirituali dell’esperienza chiesero altre Case della Carità: oggi sono 15 nel Reggiano, 3 nel Modenese, 3 nel Bolognese, 1 a Parma, Vicenza, Firenze e Roma, 6 in Madagascar, 1 in India. Queste ultime sono espressione della missionarietà della diocesi e non di un istituto. Quando partì il primo gruppo di 11 persone, era costituito di preti, suore, laici, coppie sposate.
È rivoluzionario questo legame delle Case con la diocesi, con la parrocchia. «Noi — insiste fratel Romano — siamo diocesani a pieno titolo e non per un fatto giuridico, ma perché in concreto siamo animatori della carità della parrocchia e della diocesi». Dovunque viene impiantata, questa iniziativa comincia a suscitare solidarietà al livello della compassione: si pensa di cercare un’assistenza per «quei poverini». Questo è il contrario allo spirito della Casa.
Ma poi la gente scopre nel povero la capacità di dar senso alla realtà, di ridimensionare le cose, infine ne scopre la ricchezza, il dono di grazia che attraverso casi Dio vuol dare. «Regolarmente assistiamo al ribaltamento dalla commozione per il poverino al vedere nel povero un fratello che ci può insegnare».
La casa diventa allora il centro della parrocchia, anche perché diviene modello di vita, di semplicità, di fraternità, di testimonianza, di ricostruzione comunitaria, trovandosi insieme persone tanto diverse per età, per malattia, che riescono a vivere in un’armonia inusuale nelle famiglie. La casa diventa perciò un centro di ri-vitalizzazione della comunità parrocchiale.
Gli edifici delle Case sono sempre proprietà delle parrocchie. Chiediamo che il padre della casa sia il parroco, anche se la suora provvederà alle incombenze quotidiane.
Don Mario insisteva che la carità è essenziale alla vita della parrocchia. Una eucarestia che non sfoci nell’attenzione agli ultimi nella comunità è una eucarestia mutilata. Istituita da Cristo come dono della vita, non ammette che chi vi partecipa non porti a sua volta la vita agli altri. Il vescovo di Reggio Emilia Baroni, gran sostenitore delle Case della Carità, diceva che essa permette alla eucarestia di essere vera. E mons. Nervo, già presidente della Caritas italiana ha detto in una omelia che l’eucarestia che non va ai poveri è un aborto, perché è principio di vita che muore lì nel momento liturgico. Le Case della Carità, dice il vescovo, sono case eucaristiche perché vivono della eucarestia, ma soprattutto diventano eucarestie viventi.
La Chiesa deve tornare a questo: è il suo problema di sempre. L’eucarestia come atto liturgico entrò senza problemi nella Chiesa, ma, come si legge nei primi documenti, subito sorse la tendenza a farne una «bella» funzione che poi finiva lì. E cominciò la terribile frattura tra fede e vita, tra il momento liturgico domenicale e la settimana. «Il fatto di avere vicino al tabernacolo eucaristico quello in cui — diciamo noi — si adora Cristo nei poveri, dà la continuità di liturgia».
In più ci sono gli aspetti sociali, pedagogici, terapeutici di questa esperienza. Lo stile di vita «familiare» ha portato a recuperi incredibili, sia di anziani che di handicappati mentali, che han lasciato stupiti gli specialisti, anche quelli rimasti scettici al primo incontro con questa realtà.
«Una carità che parte da quelle premesse di fede, che parte dall’eucarestia, ti porta a un dono totale, e porta tra gli ospiti stessi (non li chiamiamo ricoverati) all’aiuto reciproco, all’ascolto gli uni degli altri, certo anche tra contrasti, tra battibecchi, ma alla fine ci si ritrova uniti nell’eucarestia, che celebriamo ogni giorno nelle Case».
Per ogni Casa c’è una schiera di laici della parrocchia che vengono con la loro amicizia, ma anche con la competenza tecnica. «Tra frati e suore della Congregazione Mariana delle Case della Carità, siamo circa 110 sparsi nel mondo, ma ci sono anche circa settecento persone che si sono impegnate prendendo il crocefisso dalle mani del vescovo, cioè ricevendo un mandato straordinario a servire i poveri nel nome della Chiesa, nell’ambito della Congregazione, nello spirito del servizio all’uomo nel quale riconosciamo Gesù. La forza di questa congregazione è dunque in quel laicato di cui fan parte anche famiglie che vivono nelle loro case lo spirito delle Case della Carità, avendo accolto persone in difficoltà.
«Lo scorso ottobre — racconta fratel Romano — abbiamo rinnovato i nostri voti con una grande cerimonia nella basilica della Ghiara. C’erano più di tremila persone. I nostri voti sono temporanei, prima per un anno, poi per tre, poi per altri tre, quindi, si prendono i voti definitivi.
La caratteristica di famiglia che abbiamo mantenuto nelle Case ci ha un po’ messi in contrasto con l’ente pubblico che segue idee diverse nel campo dell’assistenza. La famiglia con anziani, adulti, bambini rimane il luogo naturale privilegiato di sviluppo delle persone e del loro recupero.
L’ente pubblico ci obietta: voi non siete famiglia con legami di sangue. Vero, ma l’amore è molto più forte dei legami di sangue. Abbiamo delle storie di recuperi incredibili grazie a questa realtà di famiglia, che sono state anche oggetto di studi scientifici. Per esempio, dei malati psichici che nel manicomio avevano più volte tentato il suicidio, accolti nelle nostre Case non hanno più provato a uccidersi. Nelle case viviamo una vita di famiglia a pieno titolo. Ognuno fa quel che può proprio perché si sente partecipe della vita di famiglia. Le case vanno avanti col lavoro della suora, col volontariato, ma molto anche con l’aiuto reciproco degli ospiti.
Le Case si mantengono senza contributi pubblici. C’è la provvidenza di Dio molto più abbondante e sollecita dello stato nel pagare che non ci ha fatto mai mancare nulla, neanche in tempo di guerra quando la fame era comune. Nella casa di Fontanaluccia trasformata in ospedale partigiano con una cinquantina di feriti (italiani, tedeschi, inglesi, americani, russi, tutti insieme) non si patì mai la fame.
Chi viene a vivere nelle case, come avviene in ogni famiglia, porta con sé i suoi redditi (pensione, assegno di accompagnamento…) e poi c’è la provvidenza. E a fine anno ne avanza, tanto che abbiamo messo nello statuto che quel che avanza alla fine dell’anno si dà via, per non cadere nella tentazione di accumulare.
Abbiamo avuto controlli della USL e dei carabinieri del Nucleo Anti Sofisticazioni. Vengono, guardano, fanno relazioni: finora non abbiamo avuto nessun problema, anche perché con l’assessore regionale e con quello provinciale, c’è un dialogo aperto. Infatti hanno grande stima di questa esperienza, anche se l’ente pubblico fa fatica ad accettare che possa andare avanti senza il suo intervento.
Siamo stati criticati per mettere insieme persone con problemi molto diversi. Noi rispondiamo: se ritenete valida questa esperienza, come voi stessi dite, è tale per il suo modo, per il suo spirito perciò non costringeteci a cambiarlo, altrimenti dovremmo chiudere piuttosto che rovinare questo spirito. E questo spirito si rivela anche una tecnica di riabilitazione e permette alle persone con handicap mentali una vita normale, aperta, inseriti in una comunità, amati in un contesto sociale in cui si esprimono.
– Sergio Sciascia, 1989
Alda e la «sua» bambina
La bambina di nove anni, spastica gravissima, distesa, quasi immobile, come unico suono emette un lamento.
Viene portata in una casa della carità e, come il solito, è affidata a una «sorella». C’era Alda, anziana. «Alda — le dicemmo — le dai un occhio? ci pensi tu?».
Alda sedette accanto alla bimba e le parlava, le mandava via la mosca, le rassettava la copertina… andò avanti così tutto il giorno. Continuò per quasi vent’anni: quella era diventata la «sua» bambina. Se la portava fuori in carrozzina badava che non avesse aria, e a questo e a quello. E accadde una cosa straordinaria; fra le due si instaurò un dialogo: si capivano! Cosa che, né la madre che veniva tutti i giorni, né noi, si era mai riusciti a ottenere.
Alda andava in cucina e diceva: la bambina ha fame. Si andava e mangiava in un attimo. Alda diceva: oggi la bambina non mangia e non c’era modo di farle inghiottire una cucchiaiata. Alda diceva: la bambina ha mal di pancia, la bambina deve andare al bagno e puntualmente era vero.
Sono andate avanti così fino alla morte di Alda, tre mesi fa. Alda aveva profetizzato: moriremo assieme. In questi giorni la bambina sta morendo.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.28, 1989
Sommario
Editoriale
Buon Natale anche a te di M. Bertolini
Articoli
Mangiare insieme di Nicole Schulthes
Il bambino che non vuole mangiare di Paul Lemoine
I pasti di Francesca: un’avventura di Jacques La Brousse
Dove, se non in chiesa? di Joseph Bernardin, cardinale
Un grande progetto a piccoli passi di Maurice e Michèle Antoine
Le case della carità di Sergio Sciascia
Rubriche
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Per insegnare bisogna saper osservare a cura della Redazione