È noto che gran parte dei ragazzi sordi conserva una certa percentuale di udito che, attraverso la rieducazione e l’uso dei moderni amplificatori, serve come importante complemento alla percezione dei linguaggio orale: questo purtroppo non è il caso di Nicoletta. Essa è affetta da sordità profonda senza alcun residuo uditivo; vive in un mondo di assoluto silenzio, silenzio profondo, difficilmente concepibile da noi udenti e dagli stessi sordi dotati di residui. Questi casi così gravi esistono purtroppo -anche se non in alta percentuale ed allora si hanno a disposizione solo la percezione visiva e l’aiuto di apparecchi vibro-tattili.
Come Nicoletta divenne sorda profonda
Fino a due anni Nicoletta ebbe uno sviluppo normale in ogni settore. A quell’età, colta da febbre altissima e vomito, venne curata per sette giorni per «cistite». Successivamente fu notato che la piccola presentava disturbi motori e venne ricoverata in una clinica pediatrica con diagnosi di «atassia acuta post infettiva». Rimase in ospedale per 40 giorni durante i quali subì una notevole diminuzione di peso, cominciò a parlare sempre meno e smise completamente di camminare. La madre racconta che, in uno degli ultimi giorni di degenza, la bimba riprese a camminare da sola, rifiutandosi però di farlo alla presenza dei medici. Intanto il linguaggio regrediva lentamente fino alla scomparsa totale; così come, lentamente ma inesorabilmente, la bambina cessò di udire.
A partire da quel momento essa palesò un graduale processo di trasformazione nel comportamento: ciò è comprensibile. Nicoletta, che per due anni aveva parlato e udito, che aveva avuto un vissuto normale, ora era costretta a una vita di isolamento, di non realizzazione, di frustrazione. Fu quest’ultima a provocare una reazione aggressiva, che andava dall’irrequietezza alla distruttività, all’apatia; la piccola non mostrava alcun interesse per il suo ambiente, sembrava priva di qualsiasi reazione affettiva e dava a vedere di odiare tutti, a cominciare dalla madre. Bambina e genitori cominciarono le loro tristi peregrinazioni da uno specialista all’altro; ognuno faceva una diagnosi, ma l’una differiva dall’altra: cofosi, afasia, oligofrenia, perdita del linguaggio dovuta a fatti emozionali, autismo ecc. E ogni medico significava un nuovo trauma che provocava nella bambina reazioni sempre più violente. Finalmente l’illustre Prof. O. Tosti dell’Istituto Pendola di Siena, senza far diagnosi, suggerì quella che, a suo avviso, era l’unica strada da percorrere: far seguire Nicoletta da una logopedista che possibilmente avesse esperienza anche nel caso delle persone con difficoltà in generale. Cominciava a delinearsi cosi il nuovo profilo della bambina: quello di un soggetto colpito da sordità profonda acquisita, con conseguenti turbe relazionali.
Nicoletta non aveva ancora l’età per frequentare la scuola elementare per cui, inizialmente, il mio intervento si limitò ad alcuni consigli ai genitori: la bambina doveva essere trattata come se comprendesse il linguaggio verbale, evitando atteggiamenti iperprotettivi; doveva essere inviata alla scuola materna, vivere una vita normale sia in famiglia che in classe. Dopo alcuni mesi qualcosa cominciò a cambiare e in me si fece sempre più strada la conferma che si trattasse di sordità profonda.
Dal disegno alla parola
In quel periodo Nicoletta disegnava molto, a casa e a scuola; disegnava ciò che vedeva intorno a sé: scenette di vita familiare o racconti di gite; soprattutto l’attraeva il mondo degli animali. Fu quindi il disegno ad assumere l’importanza principale nella comunicazione, l’intermediario tra lei e me, e per molto tempo io sfruttai questo canale espressivo che lei amava. Insieme al disegno Nicoletta faceva volentieri i primi esercizi di pre-grafismo e di preparazione al calcolo, ma, se si accorgeva che certe sollecitazioni avevano per scopo l’emissione vocale, si irrigidiva e ripiombava nel suo atteggiamento ostile e aggressivo.
A sei anni Nicoletta cominciò a frequentare la mia classe ortofonica composta da cinque bambini sordo-profondi; furono giorni e settimane difficili perché, superata pian piano la diffidenza nei miei confronti, divenne terribilmente gelosa: nessun alunno doveva starmi vicino. Inoltre persisteva nel suo atteggiamento di rifiuto per qualsiasi esercitazione che avesse attinenza con la voce, anche se mascherata o indiretta. Era però indispensabile passare all’emissione sonora. Mi venne in aiuto (e quale aiuto!) il «Voice light» che la scuola acquistò dietro mia segnalazione. Gli altri bambini furono subito interessati ed entusiasti ed anche Nicoletta subì ad un certo momento il «fascino» della luce che si accendeva. Era evidente che dovevo arrivare ad avere l’attiva partecipazione della bambina, senza la quale non avrei raggiunto risultati positivi. Quale valore avrebbe avuto una vocale, una parola pronunziata solo per imposizione o «ubbidienza», se non rispondeva a una esigenza interiore? Dovevo quindi puntare sui reali interessi di Nicoletta, su ciò che la incuriosiva, perché solo così avrei potuto canalizzare la sua attenzione per farle utilizzare il linguaggio come mezzo di conoscenza e di espressione.
Ho detto che Nicoletta amava molto disegnare ed -era orgogliosa che le insegnanti del complesso venissero a complimentarsi con lei. In seguito vinse numerosi premi e concorsi. Ebbi allora una intuizione. Criticabile? Forse, ma in quel momento ero convinta che il fine giustificasse il mezzo. Erano ormai anni che cercavo di farle emettere un suono : e dirò che, scoraggiata stavo ancora una volta per arrendermi.
Una mattina la bambina disegnò un paesaggio nel cui centro troneggiava un bellissimo albero, che ella indicava insistentemente con un dito. Come al solito voleva attaccare il disegno alla parete ed io le feci capire che doveva ripetere «albero». Solito atteggiamento di rifiuto, al quale seguì il mio diniego; vi furono alcuni minuti di schermaglia; finalmente prevalse in Nicoletta il desiderio di vedere appeso il suo capolavoro. A un certo momento tentò di emettere la «a» ; in effetti fu solo l’atteggiamento della bocca per pronunciare la vocale, ma per me era tutto. Vinta dalla commozione strinsi a me la bambina fino a soffocarla. Solo chi sa che cosa significa soffrire, attendere di giorno in giorno uno spiraglio di speranza, può comprendere la mia gioia. Da quel momento ebbe inizio un nuovo periodo. Il comportamento di Nicoletta andò cambiando e ogni giorno un piccolo passo andava formando una nuova personalità, che palesava la disponibilità a vivere con gli altri e come gli altri compagni.
Il linguaggio è vibrazione ritmica
Come è giunta Nicoletta da quella prima «a» alla capacità di comprendere il linguaggio verbale e di comunicare oralmente?
Con molta cautela e con un’attenzione pedagogica individualizzata, iniziai gli interventi necessari per produrre la parola articolata, supplendo con la vista e il tatto la mancanza del mezzo di acquisizione per via acustica. Annettei anche molta importanza a certe modalità ritmiche che consistevano inizialmente nel far percepire a Nicoletta l’esistenza di vibrazioni tramite il contatto corporeo con strumenti e oggetti vari. Il movimento era vibrazione, la vibrazione era ritmo, con l’alternanza delle pause. Anche il linguaggio è vibrazione ritmica, e Nicoletta, quasi senza rendersene conto, si sedeva, attratta, su di un cubo vibratorio da me ideato che le faceva «sentire» il linguaggio.
Per poter disporre sempre dell’interesse della bambina, mi adeguavo alla realtà circostante che sollecitava in lei e negli altri i vissuti più comuni che Nicoletta disegnava spontaneamente. Sotto il disegno scrivevo la parola preceduta dal soggetto. La bambina ricopiava come aveva fatto fin dai primi giorni di scuola, ma soprattutto incominciava ad osservare le mie labbra e ad avvertire col tatto ora un soffio, ora una piccola esplosione, ora certe vibrazioni fonematiche che indubbiamente le rievocavano le prime piacevoli esperienze vibratorie: era l’inizio della lettura labiale.
Seguì un periodo di attesa — necessaria perché Nicoletta esercitasse la sua attenzione visiva e imitativa — prima che cominciassero ad apparire espressioni orali. Non mi importava, a quel momento, che la dizione fosse inesatta perché era pressante il mantenimento della spontaneità del linguaggio; mortificare Nicoletta battendo e ribattendo per una giusta pronuncia avrebbe potuto farla ripiombare in quel silenzio e in quella mutolezza psichica molto più grave di quella derivante dalla mancanza di udito.
In questo delicato periodo mi avvalsi della collaborazione costante della madre, perché continuasse l’opera tesa a far prendere coscienza alla bambina della importanza del linguaggio come mezzo di comunicazione, e a farle regolare la voce in modo naturale rapportandola alle semplici azioni della giornata, nelle circostanze in cui sentiva il bisogno e il desiderio di esprimersi.
Il programma che si svolgeva in classe era quello normale di ogni prima classe di udenti, il metodo era quello globale applicato sia alla scrittura che al linguaggio orale. Inoltre l’esperienza mi andava dimostrando che la lettura e la scrittura hanno per il bambino affetto da sordità profonda grave un valore predominante ( per dirla col Cardano il sordo parla scrivendo e ascolta leggendo). Infatti per il non udente lettura e scrittura sono il supporto su cui si articola la struttura del linguaggio verbale, per fargli raggiungere competenze linguistiche e competenze prattognosiche. Il bambino sordo in questa fase arricchisce e differenzia il lessico, procede gradatamente nell’organizzazione della frase e utilizza il linguaggio scritto come «strumento di mediazione» per l’acquisizione di quello orale, di usi cognitivi e comunicativi.
Mi rendo conto che queste cose si fa presto a dirle, ma qui è proprio il caso di affermare che tra il dire e il fare c’ è di mezzo un mare di problemi, di tentativi, d’inventiva anche, di studio continuo, perché la difficoltà più forte non è data dal riuscire a far pronunciare al sordo il fonema, visto che questo s’imposta e si realizza attraverso una tecnica precisa; il problema è fargli organizzare frasi in un coordinamento logico-semantico; lavoro questo che si attua durante la scuola dell’obbligo e richiede tempi di realizzazione variabili da soggetto a soggetto.
Inserimento progressivo in una classe normale
Per Nicoletta restava ancora un altro problema: l’inserimento in una classe di udenti. Affrontammo la questione all’inizio del secondo anno scolastico e molte furono le domande che rivolgevo a me stessa. Come avrebbe reagito Nicoletta? Sarebbe bastato il mio apporto specialistico anche se giornaliero? Il problema venne ampiamente dibattuto alla presenza della madre e successivamente in una riunione di genitori e insegnanti. L’unica a non avere esitazioni era la madre la quale, ritenendo prematuro il totale inserimento della figlia, accettava come positivo quello parziale. La sua esperienza infatti, arricchita dai tanti momenti che la bambina viveva in famiglia, le aveva fatto capire che si verificavano ancora frequenti equivoci sulla semantica del linguaggio e che l’inserimento totale sarebbe stato pura demagogia, con grave danno della bambina stessa. Insisteva la Signora Magda: «È demagogia voler mandare Nicoletta nella classe degli udenti, perché non è preparata e forse ripiomberebbe in un atteggiamento di negativismo. Ritengo assurdo e dannoso questo tipo di inserimento che fa leva sull’amore per i nostri figli sostenendo che sono come gli altri e ingannandoci promuovendoli indiscriminatamente da una classe all’altra.»
come gli altri compagni
Decidemmo così di far frequentare a Nicoletta la classe ortofonica e inserirla parzialmente nella classe parallela degli udenti diretta dalla Signora Graziani. Il lavoro si svolse in perfetta armonia così da non creare nella bambina confusione e difficoltà di apprendimento, discutendo fra noi per chiarire dubbi e perplessità e magari sdrammatizzando determinate situazioni. Nicoletta con serenità ed entusiasmo si recava dai compagni udenti e lavorava con loro. La collega Graziani lasciò la scuola, ma l’inserimento parziale continuò fino alla quinta elementare con la collega Brunetti.
In quell’anno Nicoletta svolse completamente il programma di aritmetica e geometria, storia, geografia e scienze e la collega ripeteva spesso: «Io non mi accorgo affatto di avere una bambina sorda, la tratto come le altre, la seguo come le altre, ovviamente lavoro molto alla lavagna in modo che la bambina possa supplire con la vista alla mancanza di udito. È simpatica, allegra, intelligente e tutti la vorrebbero vicina di banco.
Fu in questo periodo che Nicoletta cominciò a frequentare nel pomeriggio il Centro Riabilitativo «Medaglia Miracolosa» di Viciomaggio. Credo che si possa affermare che da qui è venuto un validissimo, insostituibile contributo in mancanza del quale non saremmo giunti al traguardo attuale. Eravamo ormai arrivati alla soglia della Scuola Media con i giudizi positivi di due colleghe del plesso di Porta Bluia che confermavano la validità dell’inserimento parziale. Questo rende inutile affrontare in particolare il problema della socializzazione di Nicoletta in quanto tutta la nostra azione, diretta a dare alla bambina i mezzi di comunicazione non perse mai di vista lo scopo finale: parlare con gli altri, vivere con gli altri, senza limiti.
All’Istituto d’Arte
Nicoletta fu poi iscritta alla scuola media di Badia al Pino, dove ebbe la fortuna di trovare insegnanti disponibili con i quali attuammo una sincera ed entusiastica collaborazione, spinti anche dal fatto che la bambina dimostrava volontà e intelligenza; Nicoletta viveva con naturalezza la sua diversità in un gruppo che l’aveva accettata.
Contemporaneamente all’inserimento nella scuola di tutti Nicoletta continuava la frequenza al Centro Riabilitativo di Viciomaggio avendo così la possibilità di colmare lo svantaggio che la separava dagli altri. Terminate le Scuole Medie Nicoletta venne iscritta all’Istituto d’Arte e regolarmente promossa di anno in anno fino al conseguimento della maturità che ottenne con 50/60.
Questi risultati scolastici sarebbero forse poca cosa se ad essi non facesse riscontro la maturità di Nicoletta: chiunque può constatare la sua serenità, il suo equilibrio nell’accettare I’handicap, il suo vivere con gli altri e come gli altri della sua età, felice con il «suo Marcello» con il quale condivide l’amore per la natura, per gli animali ed una concezione «pulita» della vita.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.27, 1989
Sommario
Editoriale
Anche se non ho voce, anche se non sento... di Mariangela Bertolini
Articoli
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Storia di Angelica di Maria Monica Rossi
Dal silenzio alla comunicazione di Amneris Bellucci
Da quali segni riconoscere la sordità infantile
A tavola con una persona sorda di Michel e Laure Morice
Come parlare a una persona sorda
Ho un fratello e sorella non udenti di Nicoletta Amato
Cooperativa spazio aperto di L. Brambilla e A. De Rino
Rubriche
Dialogo aperto
Vita di Fede e Luce
Libri
L’altra gente. Convivere con l’handicap di Antonio Guidi
Il bambino con epilessia di Ch. Dravet/P. Jallon