Puoi descriverti e dire qualcosa sulla tua famiglia?
Io sono casalinga. A 23 anni ho avuto il primo bambino che è… spastico. Da qui è cominciato un po’ tutto. Dopo tre anni è nato il secondo bambino e ho vissuto per anni chiusa in casa. Pensavo in qualche modo di proteggerlo questo mio figlio da tutte le cose, dagli sguardi delle persone che potevano dire: «Hai un figlio diverso!». Anche se lui in quel periodo non poteva capire, ero io che mi preservavo da questi sguardi indiscreti.
Sono stata molti anni chiusa in casa per questo.

Quando e come hai cambiato atteggiamento verso tuo figlio e verso gli altri?
Il primo cambiamento è stato quando ho visto che qualcuno guardava mio figlio in modo diverso da come lo guardavano per la strada. Qualcuno è andato oltre l’apparenza, ha visto lui internamente. Mi hanno chiesto di affidarlo non perché era capace di fare cose, di parlare, di mangiare, di tenersi pulito; l’hanno voluto per quel che era e io ho visto le cose in un altro modo, ho ritrovato fiducia.

Chi ti ha chiesto di affidarlo e perché?
Quando io ti ho incontrato a scuola, tu mi hai parlato della possibilità di mandare Pablo a un soggiorno-campeggio con dei giovani. Poi è arrivata una ragazza a scuola, — era Guenda che mi ha chiesto come viveva Pablo, come mangiava, come dormiva, come si comportava con gli altri. Il fatto che lei se l’era preso in braccio, lo teneva in un modo… io parlavo ma vedevo che in quel momento per lei l’importante era mio figlio. Già solo guardandola, ho sentito dentro: «Ma allora, Pablo vale qualcosa non solo ai miei occhi». Io avevo paura che gli altri non capissero quanto valore aveva per me questo figlio. Lei lo aveva capito, lo teneva in un modo, come se fosse un gioiello. Intanto l’idea del campo mi era sfuggita. Poi quando Guenda è venuta a dirmi: allora si parte? con quel modo… Guenda è fantastica per queste cose, è un dono grandissimo che ha.

«Ma allora Pablo vale qualcosa non solo per me!»

Pablo è andato al campo e io mi sono trovata sola, con Daniele che aveva 5 anni. Mi ricordo che per la prima volta sono uscita sola con lui; andavamo a prendere il latte, alla Standa, su e giù per le scale mobili — quando mai l’avevo fatto? Però è anche vero che non riuscivo proprio a camminare, mi si «intruppavano» i piedi, perché mi mancava qualcosa: ‘sta carrozzina che ho sempre avuto davanti… Aspettavo sempre una telefonata. Quando mi hanno telefonato per chiedermi se lasciavo Pablo per un’altra settimana, ho detto: «Pablo si è dimenticato di noi!». Mio marito ha precisato: «Di te forse, ma non di me!».
Sono andata a trovarlo al campo. Io sono sempre stata portata verso quest’atmosfera di cose vere; di vivere insieme in un certo modo; senza astio o piccolezze o stupidaggini. Io lì, in quella giornata ho vissuto quello che avrei voluto da sempre, sognato da sempre. Tutti mi dicevano che non era possibile. Mi avevano smorzata. Invece lì era vero: io, arrivata lì… mi ero allontanata da Dio, anche se l’ho sempre amato. Non era il mio solo un andare in chiesa; mi partiva dentro. Quando è nato Pablo mi sono sentita… tradita, da quel qualcosa che io ho sempre adorato, sempre amato, qualcosa che partiva da dentro di me. Quando, arrivata lì, ho trovato tutti quei giovani che con mio figlio ed altri come lui, cantavano: «Io ho un amico che mi ama, il suo nome è Gesù», ho detto: «Alla malora! Se ama loro, se ama mio figlio, amerà anche me». E mi sono sciolta. «Anch’io allora faccio parte di loro; loro vivono queste emozioni con mio figlio, lui è mio figlio; allora anche io mi posso accodare a loro». E da lì è cominciato tutto. Io in quel campo ho vissuto momenti indimenticabili.

Ti ha sorpreso, ti è dispiaciuto che Pablo abbia detto le prime parole proprio al suo primo campo?
Una gioia indescrivibile. Io avevo fatto quel che ero riuscita a fare. Non potevo fare di più. Il sentimento che ho provato è stato: «Che peccato averlo privato fino adesso di tutto questo!», perché è questo che gli era mancato: lo stare insieme agli altri. Lui aveva bisogno di ricevere dagli altri e io glielo avevo impedito, per paura e pensando di fare io il meglio per lui. Questa gioia mi ha spinto ad entrare ancora più dentro a questo mondo che stavo scoprendo.

Leggi anche: Per la prima volta lontano da me

Quel primo campeggio è stato per Pablo una tappa importante; ha fatto crescere lui e me, perché mi ha fatto capire che bisogna aprirsi e fare qualcosa con gli altri. Ho avuto tanta fiducia negli amici, piena fiducia: sono stata sicura che quei giovani non gli avrebbero mai fatto niente di male.

«Lui aveva bisogno di ricevere dagli altri e io glielo avevo impedito, per paura e pensando di fare io il meglio per lui»

Quanti campeggi hai fatto fino ad oggi?
Sette o otto; qualcuno Pablo li ha fatti senza di me; gli altri con me, cosa che ormai ritengo un po’ negativa.

Quale immagine suscita in te la parola «campeggio»?
Beh, un’oasi. Lì siamo quel che siamo, non c’è sopraffazione. Ognuno dà quel che può dare. Io mi trovo bene perché ho trovato la mia giusta dimensione. Io lavoro, ma mi sento privilegiata di vivere con loro. Loro possono benissimo fare senza di me, e mi sento bene perché mi fanno usufruire di tutto quello che loro fanno.
Io son lì, guardo, sono contenta. Ritorno a casa appagata, di cosa non lo so; dico appagata perché viviamo dieci giorni di vita bene, di piccole cose: cucinare, lavare i panni, i bagni, mangiare, il pregare che è un momento grandissimo. Abbiamo avuto dei momenti di preghiera che sono… Ricordo: vedi, l’altr’anno, la conosci la casa lì, c’era un’ora che non è né giorno né notte, dove sembra che il tempo si ferma, che c’è soltanto in lontananza qualche uccelletto che fa cip cip e la campana che si sente. Lì, lì, bisognerebbe portarselo dietro; ti vien da dire: voglio vivere questo momento sempre. Ho visto certe volte Nanni in quel cortile, seduto per terra accanto a Davide: m’ha dato un’emozione, una sensazione di cosa vera… questi sono i momenti più belli che io vivo al campo. Vedi tutti quei figli attorno a te: loro, vedi, «vonno» questa vita che si dovrebbe fare sempre. Tu devi vedere quando c’è il momento di fare le cose, Giovanni con che impegno apparecchia e come lo fa! Claudia, con che impegno lava i piatti! Loro sono veri, devono far quello, lo fanno, nel modo migliore e sono contenti. Noi, invece, spesso corriamo, per andar a cercar altro…
Quando siamo tutti insieme a pregare, capisci quali sono le cose che appagano, che li appagano. Loro vogliono questa vita.

Quali sono i punti più importanti in un campo?
Per gli amici, è venire disponibili dentro l’animo. Sapere essere se stessi, senza sovrastrutture, senza l’idea di voler apparire bravi e forti. «Vengo per dare il mio tempo, per vivere insieme!». Questa è già una base importante.
Per il ragazzo con handicap, è importante che possa fare un po’ di crescita, un passo avanti, ma non bisogna pretendere troppo in dieci, quindici giorni. E per questo ci vuole tanta umiltà; bisogna mettersi vicino ad ognuno di loro, mettersi al loro ritmo, al loro posto. Certi genitori pretendono chissà che; il loro desiderio rende il loro figlio nervoso e l’amico frustrato.
L’altro aspetto importante per aiutare la persona con handicap, è il comportamento degli amici, il modo, l’atteggiamento; è necessario creare un’atmosfera di pace, di serenità, proprio per ovviare ai momenti difficili e di tensione inevitabili.

Che cosa è per te essenziale nell’organizzazione del campo?
Che l’amico conosca bene il ragazzo con handicap che gli viene affidato, così si trova meglio lui e il ragazzo. Vedi, prima, quand’erano bambini, in un certo senso era più facile. Ora, anche i ragazzi con handicap sono cresciuti, hanno una loro volontà, un loro carattere, a volte forte. Se l’amico li conosce bene, troverà meno difficoltà.

«Se tu vuoi veramente bene a tuo figlio, fallo crescere, dagli una spintarella. Non lo tener frenato!».

Che cosa diresti a dei genitori per incoraggiarli a lasciar partire per le vacanze il figlio con handicap?
Io vorrei che Pablo andasse nei prossimi campi da solo, perché io devo imparare a staccarmi da lui. Io devo vivere questa esperienza; lui deve imparare a sapere che io non sono qui sempre.

Hai fatto fatica con qualche persona al campo?
Fatica netta, no; qualche sfumatura, sì, ma riesco a capire cosa c’è dietro le persone…
Con uno ho avuto paura e agitazione: non sono riuscita a entrare nella sua vita. Ci ho preso anche uno schiaffone in faccia, perché aveva la forchetta in mano; io ho parato la forchetta, ma lo schiaffone me lo sono preso. Ma non mi ha fatto male lo schiaffo, ma il fatto che non sono riuscita a capirlo.

«Quel primo campeggio è stato per Pablo una tappa importante: ha fatto crescere lui e me».

Che cosa pensi, in generale, dei genitori di figli con handicap?
Io… mi sento una poverella insieme ai poverelli.
Ti accorgi di quanta fatica fanno a superare certe difficoltà… Mi fa pena vedere come vivono; alcuni hanno un’apparenza che può sembrare cruda, e poi scopri tutto quel dolore interno… qualcuno mi pare che voglia nascondersi questo dolore…

Leggi anche: Festa in casa con lui

Che cosa vorresti fare per loro?
Penso che tante cose ce le dovremmo dire, ma so anche che la verità fa male e per un genitore scoprire che s’è creato una montatura per sopperire ad altre difficoltà, è dura; ma bisogna essere tanto sinceri con se stessi e saper tirar fuori.

E per te che cosa vorresti, di essenziale naturalmente?
Io sono sempre stata tanto dura con me stessa; non sono arrivata ancora a niente, ma vedo un barlume di quello che più mi serve, di quello che desidero… mi infastidisco a comprarmi un paio di scarpe; io ho bisogno di cose più importanti; non mi interessa la villeggiatura in un posto chissà dove, perché a me mi servono le cose che partono da un solo punto: noi dobbiamo fare in modo che la nostra vita parta dal vangelo, non solo parlato, ma di vangelo vissuto. Se riusciamo a fare questo, possiamo scoprire che un po’ di paradiso sulla terra c’è!

 
*    *     *
 

Parlare per Ombre e Luci

Leggi Ombre e Luci?
Si, lo leggo subito e per intero, appena il postino me lo porta; mi metto a leggerlo anche se sto spazzando per terra; lascio qualsiasi cosa, perché è una ventata che mi arriva. Vorrei avere un giornalino tutti i giorni per riagganciarmi a tutto, perché le cose di tutti i giorni non è che portano a uno stato interno di pace. Lo trovo interessante, mi piace la prima pagina e quando scrivono le mamme. Ho letto un articolo di un’amica, non so chi sia, che ha una sofferenza grandissima dentro di lei. Quanto mi ci sono ritrovata! Mi piacerebbe conoscerla perché ho capito che cerca qualcosa di più, però da sola non ce la fa.

Secondo te, che senso ha Ombre e Luci per la società?
Io penso che non voglia solo far conoscere la persona handicappata, quanto far capire cosa c’è dietro alla persona con handicap: quello che vive, cosa e in che modo vivono i genitori; gli amici, come si mettono di fronte a questa realtà. Questa è una cosa importantissima, non tutti la capiscono. Io li do a tutti i numeri che ricevo, difatti non ne ho più uno a casa. Perché sono centrate delle cose importanti, quelle per esempio che non riusciamo a far capire in parrocchia e al nostro parroco.

Allora, ti senti libera di parlare per Ombre e Luci?
Mi sento in imbarazzo per paura di non essere all’altezza, però sono contenta di parlare di queste cose che sento dentro. È come se mi guardassi in uno specchio e questo mi fa piacere.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.25, 1989

Sommario

Editoriale

E pagano pure! di Mariangela Bertolini

Articoli

Allora, si parte?! di Rita Ozzimo racconta
Tante bellissime cose di Giuliana Loiudice
Guardavano, guardavano! di Nanni
Al tepore di un amore semplice di Alberto Petri
«Voglio mostrarvi una strada» di P. Louis Sankalé
Come si organizza un campo di Barbara e Chiara

Rubriche

Dialogo aperto
Vita di fede e luce - Un cammino insieme
Le risposte dei parroci al questionario

Libri

Attività creative di Sally M. Atack
Aiutami a giocare di D.M. Jeffree
La Sindrome di Down di Cliff Cunningham

Puoi descriverti e dire qualcosa sulla tua famiglia?
Io sono casalinga. A 23 anni ho avuto il primo bambino che è… spastico. Da qui è cominciato un po’ tutto. Dopo tre anni è nato il secondo bambino e ho vissuto per anni chiusa in casa. Pensavo in qualche modo di proteggerlo questo mio figlio da tutte le cose, dagli sguardi delle persone che potevano dire: «Hai un figlio diverso!». Anche se lui in quel periodo non poteva capire, ero io che mi preservavo da questi sguardi indiscreti.
Sono stata molti anni chiusa in casa per questo.

Quando e come hai cambiato atteggiamento verso tuo figlio e verso gli altri?
Il primo cambiamento è stato quando ho visto che qualcuno guardava mio figlio in modo diverso da come lo guardavano per la strada. Qualcuno è andato oltre l’apparenza, ha visto lui internamente. Mi hanno chiesto di affidarlo non perché era capace di fare cose, di parlare, di mangiare, di tenersi pulito; l’hanno voluto per quel che era e io ho visto le cose in un altro modo, ho ritrovato fiducia.

Chi ti ha chiesto di affidarlo e perché?
Quando io ti ho incontrato a scuola, tu mi hai parlato della possibilità di mandare Pablo a un soggiorno-campeggio con dei giovani. Poi è arrivata una ragazza a scuola, — era Guenda che mi ha chiesto come viveva Pablo, come mangiava, come dormiva, come si comportava con gli altri. Il fatto che lei se l’era preso in braccio, lo teneva in un modo… io parlavo ma vedevo che in quel momento per lei l’importante era mio figlio. Già solo guardandola, ho sentito dentro: «Ma allora, Pablo vale qualcosa non solo ai miei occhi». Io avevo paura che gli altri non capissero quanto valore aveva per me questo figlio. Lei lo aveva capito, lo teneva in un modo, come se fosse un gioiello. Intanto l’idea del campo mi era sfuggita. Poi quando Guenda è venuta a dirmi: allora si parte? con quel modo… Guenda è fantastica per queste cose, è un dono grandissimo che ha.

«Ma allora Pablo vale qualcosa non solo per me!»

Pablo è andato al campo e io mi sono trovata sola, con Daniele che aveva 5 anni. Mi ricordo che per la prima volta sono uscita sola con lui; andavamo a prendere il latte, alla Standa, su e giù per le scale mobili — quando mai l’avevo fatto? Però è anche vero che non riuscivo proprio a camminare, mi si «intruppavano» i piedi, perché mi mancava qualcosa: ‘sta carrozzina che ho sempre avuto davanti… Aspettavo sempre una telefonata. Quando mi hanno telefonato per chiedermi se lasciavo Pablo per un’altra settimana, ho detto: «Pablo si è dimenticato di noi!». Mio marito ha precisato: «Di te forse, ma non di me!».
Sono andata a trovarlo al campo. Io sono sempre stata portata verso quest’atmosfera di cose vere; di vivere insieme in un certo modo; senza astio o piccolezze o stupidaggini. Io lì, in quella giornata ho vissuto quello che avrei voluto da sempre, sognato da sempre. Tutti mi dicevano che non era possibile. Mi avevano smorzata. Invece lì era vero: io, arrivata lì… mi ero allontanata da Dio, anche se l’ho sempre amato. Non era il mio solo un andare in chiesa; mi partiva dentro. Quando è nato Pablo mi sono sentita… tradita, da quel qualcosa che io ho sempre adorato, sempre amato, qualcosa che partiva da dentro di me. Quando, arrivata lì, ho trovato tutti quei giovani che con mio figlio ed altri come lui, cantavano: «Io ho un amico che mi ama, il suo nome è Gesù», ho detto: «Alla malora! Se ama loro, se ama mio figlio, amerà anche me». E mi sono sciolta. «Anch’io allora faccio parte di loro; loro vivono queste emozioni con mio figlio, lui è mio figlio; allora anche io mi posso accodare a loro». E da lì è cominciato tutto. Io in quel campo ho vissuto momenti indimenticabili.

Ti ha sorpreso, ti è dispiaciuto che Pablo abbia detto le prime parole proprio al suo primo campo?
Una gioia indescrivibile. Io avevo fatto quel che ero riuscita a fare. Non potevo fare di più. Il sentimento che ho provato è stato: «Che peccato averlo privato fino adesso di tutto questo!», perché è questo che gli era mancato: lo stare insieme agli altri. Lui aveva bisogno di ricevere dagli altri e io glielo avevo impedito, per paura e pensando di fare io il meglio per lui. Questa gioia mi ha spinto ad entrare ancora più dentro a questo mondo che stavo scoprendo. Quel primo campeggio è stato per Pablo una tappa importante; ha fatto crescere lui e me, perché mi ha fatto capire che bisogna aprirsi e fare qualcosa con gli altri. Ho avuto tanta fiducia negli amici, piena fiducia: sono stata sicura che quei giovani non gli avrebbero mai fatto niente di male.

«Lui aveva bisogno di ricevere dagli altri e io glielo avevo impedito, per paura e pensando di fare io il meglio per lui»

Quanti campeggi hai fatto fino ad oggi?
Sette o otto; qualcuno Pablo li ha fatti senza di me; gli altri con me, cosa che ormai ritengo un po’ negativa.

Quale immagine suscita in te la parola «campeggio»?
Beh, un’oasi. Lì siamo quel che siamo, non c’è sopraffazione. Ognuno dà quel che può dare. Io mi trovo bene perché ho trovato la mia giusta dimensione. Io lavoro, ma mi sento privilegiata di vivere con loro. Loro possono benissimo fare senza di me, e mi sento bene perché mi fanno usufruire di tutto quello che loro fanno.
Io son lì, guardo, sono contenta. Ritorno a casa appagata, di cosa non lo so; dico appagata perché viviamo dieci giorni di vita bene, di piccole cose: cucinare, lavare i panni, i bagni, mangiare, il pregare che è un momento grandissimo. Abbiamo avuto dei momenti di preghiera che sono… Ricordo: vedi, l’altr’anno, la conosci la casa lì, c’era un’ora che non è né giorno né notte, dove sembra che il tempo si ferma, che c’è soltanto in lontananza qualche uccelletto che fa cip cip e la campana che si sente. Lì, lì, bisognerebbe portarselo dietro; ti vien da dire: voglio vivere questo momento sempre. Ho visto certe volte Nanni in quel cortile, seduto per terra accanto a Davide: m’ha dato un’emozione, una sensazione di cosa vera… questi sono i momenti più belli che io vivo al campo. Vedi tutti quei figli attorno a te: loro, vedi, «vonno» questa vita che si dovrebbe fare sempre. Tu devi vedere quando c’è il momento di fare le cose, Giovanni con che impegno apparecchia e come lo fa! Claudia, con che impegno lava i piatti! Loro sono veri, devono far quello, lo fanno, nel modo migliore e sono contenti. Noi, invece, spesso corriamo, per andar a cercar altro…
Quando siamo tutti insieme a pregare, capisci quali sono le cose che appagano, che li appagano. Loro vogliono questa vita.

Quali sono i punti più importanti in un campo?
Per gli amici, è venire disponibili dentro l’animo. Sapere essere se stessi, senza sovrastrutture, senza l’idea di voler apparire bravi e forti. «Vengo per dare il mio tempo, per vivere insieme!». Questa è già una base importante.
Per il ragazzo con handicap, è importante che possa fare un po’ di crescita, un passo avanti, ma non bisogna pretendere troppo in dieci, quindici giorni. E per questo ci vuole tanta umiltà; bisogna mettersi vicino ad ognuno di loro, mettersi al loro ritmo, al loro posto. Certi genitori pretendono chissà che; il loro desiderio rende il loro figlio nervoso e l’amico frustrato.
L’altro aspetto importante per aiutare la persona con handicap, è il comportamento degli amici, il modo, l’atteggiamento; è necessario creare un’atmosfera di pace, di serenità, proprio per ovviare ai momenti difficili e di tensione inevitabili.

Che cosa è per te essenziale nell’organizzazione del campo?
Che l’amico conosca bene il ragazzo con handicap che gli viene affidato, così si trova meglio lui e il ragazzo. Vedi, prima, quand’erano bambini, in un certo senso era più facile. Ora, anche i ragazzi con handicap sono cresciuti, hanno una loro volontà, un loro carattere, a volte forte. Se l’amico li conosce bene, troverà meno difficoltà.

«Se tu vuoi veramente bene a tuo figlio, fallo crescere, dagli una spintarella. Non lo tener frenato!».

Che cosa diresti a dei genitori per incoraggiarli a lasciar partire per le vacanze il figlio con handicap?
Io vorrei che Pablo andasse nei prossimi campi da solo, perché io devo imparare a staccarmi da lui. Io devo vivere questa esperienza; lui deve imparare a sapere che io non sono qui sempre.

Hai fatto fatica con qualche persona al campo?
Fatica netta, no; qualche sfumatura, sì, ma riesco a capire cosa c’è dietro le persone…
Con uno ho avuto paura e agitazione: non sono riuscita a entrare nella sua vita. Ci ho preso anche uno schiaffone in faccia, perché aveva la forchetta in mano; io ho parato la forchetta, ma lo schiaffone me lo sono preso. Ma non mi ha fatto male lo schiaffo, ma il fatto che non sono riuscita a capirlo.

«Quel primo campeggio è stato per Pablo una tappa importante: ha fatto crescere lui e me».

Che cosa pensi, in generale, dei genitori di figli con handicap?
Io… mi sento una poverella insieme ai poverelli.
Ti accorgi di quanta fatica fanno a superare certe difficoltà… Mi fa pena vedere come vivono; alcuni hanno un’apparenza che può sembrare cruda, e poi scopri tutto quel dolore interno… qualcuno mi pare che voglia nascondersi questo dolore…

Che cosa vorresti fare per loro?
Penso che tante cose ce le dovremmo dire, ma so anche che la verità fa male e per un genitore scoprire che s’è creato una montatura per sopperire ad altre difficoltà, è dura; ma bisogna essere tanto sinceri con se stessi e saper tirar fuori.

E per te che cosa vorresti, di essenziale naturalmente?
Io sono sempre stata tanto dura con me stessa; non sono arrivata ancora a niente, ma vedo un barlume di quello che più mi serve, di quello che desidero… mi infastidisco a comprarmi un paio di scarpe; io ho bisogno di cose più importanti; non mi interessa la villeggiatura in un posto chissà dove, perché a me mi servono le cose che partono da un solo punto: noi dobbiamo fare in modo che la nostra vita parta dal vangelo, non solo parlato, ma di vangelo vissuto. Se riusciamo a fare questo, possiamo scoprire che un po’ di paradiso sulla terra c’è!

 
*    *     *
 

Parlare per Ombre e Luci

Leggi Ombre e Luci?
Si, lo leggo subito e per intero, appena il postino me lo porta; mi metto a leggerlo anche se sto spazzando per terra; lascio qualsiasi cosa, perché è una ventata che mi arriva. Vorrei avere un giornalino tutti i giorni per riagganciarmi a tutto, perché le cose di tutti i giorni non è che portano a uno stato interno di pace. Lo trovo interessante, mi piace la prima pagina e quando scrivono le mamme. Ho letto un articolo di un’amica, non so chi sia, che ha una sofferenza grandissima dentro di lei. Quanto mi ci sono ritrovata! Mi piacerebbe conoscerla perché ho capito che cerca qualcosa di più, però da sola non ce la fa.

Secondo te, che senso ha Ombre e Luci per la società?
Io penso che non voglia solo far conoscere la persona handicappata, quanto far capire cosa c’è dietro alla persona con handicap: quello che vive, cosa e in che modo vivono i genitori; gli amici, come si mettono di fronte a questa realtà. Questa è una cosa importantissima, non tutti la capiscono. Io li do a tutti i numeri che ricevo, difatti non ne ho più uno a casa. Perché sono centrate delle cose importanti, quelle per esempio che non riusciamo a far capire in parrocchia e al nostro parroco.

Allora, ti senti libera di parlare per Ombre e Luci?
Mi sento in imbarazzo per paura di non essere all’altezza, però sono contenta di parlare di queste cose che sento dentro. È come se mi guardassi in uno specchio e questo mi fa piacere.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.25, 1989

Sommario

Editoriale

E pagano pure! di Mariangela Bertolini

Articoli

Allora, si parte?! di Rita Ozzimo racconta
Tante bellissime cose di Giuliana Loiudice
Guardavano, guardavano! di Nanni
Al tepore di un amore semplice di Alberto Petri
«Voglio mostrarvi una strada» di P. Louis Sankalé
Come si organizza un campo di Barbara e Chiara

Rubriche

Dialogo aperto
Vita di fede e luce - Un cammino insieme
Le risposte dei parroci al questionario

Libri

Attività creative di Sally M. Atack
Aiutami a giocare di D.M. Jeffree
La Sindrome di Down di Cliff Cunningham

Puoi descriverti e dire qualcosa sulla tua famiglia?
Io sono casalinga. A 23 anni ho avuto il primo bambino che è… spastico. Da qui è cominciato un pò tutto. Dopo tre anni è nato il secondo bambino e ho vissuto per anni chiusa in casa. Pensavo in qualche modo di proteggerlo questo mio figlio da tutte le cose, dagli sguardi delle persone che potevano dire: «Hai un figlio diverso!». Anche se lui in quel periodo non poteva capire, ero io che mi preservavo da questi sguardi indiscreti.
Sono stata molti anni chiusa in casa per questo.

Quando e come hai cambiato atteggiamento verso tuo figlio e verso gli altri?
Il primo cambiamento è stato quando ho visto che qualcuno guardava mio figlio in modo diverso da come lo guardavano per la strada. Qualcuno è andato oltre l’apparenza, ha visto lui internamente. Mi hanno chiesto di affidarlo non perché era capace di fare cose, di parlare, di mangiare, di tenersi pulito; l’hanno voluto per quel che era e io ho visto le cose in un altro modo, ho ritrovato fiducia.

Chi ti ha chiesto di affidarlo e perché?
Quando io ti ho incontrato a scuola, tu mi hai parlato della possibilità di mandare Pablo a un soggiorno-campeggio con dei giovani. Poi è arrivata una ragazza a scuola, — era Guenda che mi ha chiesto come viveva Pablo come mangiava, come dormiva, come si comportava con gli altri. Il fatto che lei se l’era preso in braccio, lo teneva in un modo… io parlavo ma vedevo che in quel momento per lei l’importante era mio figlio. Già solo guardandola, ho sentito dentro: «Ma allora, Pablo vale qualcosa non solo ai miei occhi». Io avevo paura che gli altri non capissero quanto valore aveva per me questo figlio. Lei lo aveva capito, lo teneva in un modo, come se fosse un gioiello. Intanto l’idea del campo mi era sfuggita. Poi quando Guenda è venuta a dirmi: allora si parte? con quel modo… Guenda è fantastica per queste cose, è un dono grandissimo che ha.

«Ma allora Pablo vale qualcosa non solo per me!»

Pablo è andato al campo e io mi sono trovata sola, con Daniele che aveva 5 anni. Mi ricordo che per la prima volta sono uscita sola con lui; andavamo a prendere il latte, alla Standa, su e giù per le scale mobili — quando mai l’avevo fatto? Però è anche vero che non riuscivo proprio a camminare, mi si «intruppavano» i piedi, perché mi mancava qualcosa: ‘sta carrozzina che ho sempre avuto davanti… Aspettavo sempre una telefonata. Quando mi hanno telefonato per chiedermi se lasciavo Pablo per un’altra settimana, ho detto: «Pablo si è dimenticato di noi!». Mio marito ha precisato: «Di te forse, ma non di me!».
Sono andata a trovarlo al campo. Io sono sempre stata portata verso quest’atmosfera di cose vere; di vivere insieme in un certo modo; senza astio o piccolezze o stupidaggini. Io lì, in quella giornata ho vissuto quello che avrei voluto da sempre, sognato da sempre. Tutti mi dicevano che non era possibile. Mi avevano smorzata. Invece lì era vero: io, arrivata lì… mi ero allontanata da Dio, anche se l’ho sempre amato. Non era il mio solo un andare in chiesa; mi partiva dentro. Quando è nato Pablo mi sono sentita… tradita, da quel qualcosa che io ho sempre adorato, sempre amato, qualcosa che partiva da dentro di me. Quando, arrivata lì, ho trovato tutti quei giovani che con mio figlio ed altri come lui, cantavano: «Io ho un amico che mi ama, il suo nome è Gesù», ho detto: «Alla malora! Se ama loro, se ama mio figlio, amerà anche me». E mi sono sciolta. «Anch’io allora faccio parte di loro; loro vivono queste emozioni con mio figlio, lui è mio figlio; allora anche io mi posso accodare a loro». E da lì è cominciato tutto. Io in quel campo ho vissuto momenti indimenticabili.

Ti ha sorpreso, ti è dispiaciuto che P. abbia detto le prime parole proprio al suo primo campo?
Una gioia indescrivibile. Io avevo fatto quel che ero riuscita a fare. Non potevo fare di più. Il sentimento che ho provato è stato: «Che peccato averlo privato fino adesso di tutto questo!», perché è questo che gli era mancato: lo stare insieme agli altri. Lui aveva bisogno di ricevere dagli altri e io glielo avevo impedito, per paura e pensando di fare io il meglio per lui. Questa gioia mi ha spinto ad entrare ancora più dentro a questo mondo che stavo scoprendo. Quel primo campeggio è stato per Pablo una tappa importante; ha fatto crescere lui e me, perché mi ha fatto capire che bisogna aprirsi e fare qualcosa con gli altri. Ho avuto tanta fiducia negli amici, piena fiducia: sono stata sicura che quei giovani non gli avrebbero mai fatto niente di male.

«Lui aveva bisogno di ricevere dagli altri e io glielo avevo impedito, per paura e pensando di fare io il meglio per lui»

Quanti campeggi hai fatto fino ad oggi?
Sette o otto; qualcuno Pablo li ha fatti senza di me; gli altri con me, cosa che ormai ritengo un po’ negativa.

Quale immagine suscita in te la parola «campeggio»?
Beh, un’oasi. Lì siamo quel che siamo, non c’è sopraffazione. Ognuno dà quel che può dare. Io mi trovo bene perché ho trovato la mia giusta dimensione. Io lavoro, ma mi sento privilegiata di vivere con loro. Loro possono benissimo fare senza di me, e mi sento bene perché mi fanno usufruire di tutto quello che loro fanno.
Io son lì, guardo, sono contenta. Ritorno a casa appagata, di cosa non lo so; dico appagata perché viviamo dieci giorni di vita bene, di piccole cose: cucinare, lavare i panni, i bagni, mangiare, il pregare che è un momento grandissimo. Abbiamo avuto dei momenti di preghiera che sono… Ricordo: vedi, l’altr’anno, la conosci la casa lì, c’era un’ora che non è né giorno né notte, dove sembra che il tempo si ferma, che c’è soltanto in lontanza qualche uccelletto che fa cip cip e la campana che si sente. Lì, lì, bisognerebbe portarselo dietro; ti vien da dire: voglio vivere questo momento sempre. Ho visto certe volte Nanni in quel cortile, seduto per terra accanto a Davide: m’ha dato un’emozione, una sensazione di cosa vera… questi sono i momenti più belli che io vivo al campo. Vedi tutti quei figli attorno a te: loro, vedi, «vonno» questa vita che si dovrebbe fare sempre. Tu devi vedere quando c’è il momento di fare le cose, Giovanni con che impegno apparecchia e come lo fa! Claudia, con che impegno lava i piatti! Loro sono veri, devono far quello, lo fanno, nel modo migliore e sono contenti. Noi, invece, spesso corriamo, per andar a cercar altro…
Quando siamo tutti insieme a pregare, capisci quali sono le cose che appagano, che li appagano. Loro vogliono questa vita.

Quali sono i punti più importanti in un campo?
Per gli amici, è venire disponibili dentro l’animo. Sapere essere se stessi, senza sovrastrutture, senza l’idea di voler apparire bravi e forti. «Vengo per dare il mio tempo, per vivere insieme!». Questa è già una base importante.
Per il ragazzo con handicap, è importante che possa fare un po’ di crescita, un passo avanti, ma non bisogna pretendere troppo in dieci, quindici giorni. E per questo ci vuole tanta umiltà; bisogna mettersi vicino ad ognuno di loro, mettersi al loro ritmo, al loro posto. Certi genitori pretendono chissà che; il loro desiderio rende il loro figlio nervoso e l’amico frustrato.
L’altro aspetto importante per aiutare la persona con handicap, è il comportamento degli amici, il modo, l’atteggiamento; è necessario creare un’atmosfera di pace, di serenità, proprio per ovviare ai momenti difficili e di tensione inevitabili.

Che cosa è per te essenziale nell’organizzazione del campo?
Che l’amico conosca bene il ragazzo h. che gli viene affidato, così si trova meglio lui e il ragazzo. Vedi, prima, quand’erano bambini, in un certo senso era più facile. Ora, anche i ragazzi h. sono cresciuti, hanno una loro volontà, un loro carattere, a volte forte. Se l’amico li conosce bene, troverà meno difficoltà.

«Se tu vuoi veramente bene a tuo figlio, fallo crescere, dagli una spintarella. Non lo tener frenato!».

Che cosa diresti a dei genitori per incoraggiarli a lasciar partire per le vacanze il figlio con handicap?
Io vorrei che Pablo andasse nei prossimi campi da solo, perché io devo imparare a staccarmi da lui. Io devo vivere questa esperienza; lui deve imparare a sapere che io non sono qui sempre.

Hai fatto fatica con qualche persona al campo?
Fatica netta, no; qualche sfumatura, sì, ma riesco a capire cosa c’è dietro le persone…
Con uno ho avuto paura e agitazione: non sono riuscita a entrare nella sua vita. Ci ho preso anche uno schiaffone in faccia, perché aveva la forchetta in mano; io ho parato la forchetta, ma lo schiaffone me lo sono preso. Ma non mi ha fatto male lo schiaffo, ma il fatto che non sono riuscita a capirlo.

«Quel primo campeggio è stato per Pablo una tappa importante: ha fatto crescere lui e me».

Che cosa pensi, in generale, dei genitori di figli con handicap?
Io… mi sento una poverella insieme ai poverelli.
Ti accorgi di quanta fatica fanno a superare certe difficoltà… Mi fa pena vedere come vivono; alcuni hanno un’apparenza che può sembrare cruda, e poi scopri tutto quel dolore interno… qualcuno mi pare che voglia nascondersi questo dolore…

Che cosa vorresti fare per loro?
Penso che tante cose ce le dovremmo dire, ma so anche che la verità fa male e per un genitore scoprire che s’è creato una montatura per sopperire ad altre difficoltà, è dura; ma bisogna essere tanto sinceri con se stessi e saper tirar fuori.

E per te che cosa vorresti, di essenziale naturalmente?
Io sono sempre stata tanto dura con me stessa; non sono arrivata ancora a niente, ma vedo un barlume di quello che più mi serve, di quello che desidero… mi infastidisco a comprarmi un paio di scarpe; io ho bisogno di cose più importanti; non mi interessa la villeggiatura in un posto chissà dove, perché a me mi servono le cose che partono da un solo punto: noi dobbiamo fare in modo che la nostra vita parta dal vangelo, non solo parlato, ma di vangelo vissuto. Se riusciamo a fare questo, possiamo scoprire che un po’ di paradiso sulla terra c’è!

 
*    *     *
 

Parlare per Ombre e Luci

Leggi Ombre e Luci?
Si, lo leggo subito e per intero, appena il postino me lo porta; mi metto a leggerlo anche se sto spazzando per terra; lascio qualsiasi cosa, perché è una ventata che mi arriva. Vorrei avere un giornalino tutti i giorni per riagganciarmi a tutto, perché le cose di tutti i giorni non è che portano a uno stato interno di pace. Lo trovo interessante, mi piace la prima pagina e quando scrivono le mamme. Ho letto un articolo di un’amica, non so chi sia, che ha una sofferenza grandissima dentro di lei. Quanto mi ci sono ritrovata! Mi piacerebbe conoscerla perché ho capito che cerca qualcosa di più, però da sola non ce la fa.

Secondo te, che senso ha Ombre e Luci per la società?
Io penso che non voglia solo far conoscere la persona handicappata, quanto far capire cosa c’è dietro alla persona con handicap: quello che vive, cosa e in che modo vivono i genitori; gli amici, come si mettono di fronte a questa realtà. Questa è una cosa importantissima, non tutti la capiscono. Io li dò a tutti i numeri che ricevo, difatti non ne ho più uno a casa. Perché sono centrate delle cose importanti, quelle per esempio che non riusciamo a far capire in parrocchia e al nostro parroco.

Allora, ti senti libera di parlare per Ombre e Luci?
Mi sento in imbarazzo per paura di non essere all’altezza, però sono contenta di parlare di queste cose che sento dentro. È come se mi guardassi in uno specchio e questo mi fa piacere.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.25, 1989

Sommario

Editoriale

E pagano pure! di Mariangela Bertolini

Articoli

Allora, si parte?! di Rita Ozzimo racconta
Tante bellissime cose di Giuliana Loiudice
Guardavano, guardavano! di Nanni
Al tepore di un amore semplice di Alberto Petri
«Voglio mostrarvi una strada» di P. Louis Sankalé
Come si organizza un campo di Barbara e Chiara

Rubriche

Dialogo aperto
Vita di fede e luce - Un cammino insieme
Le risposte dei parroci al questionario

Libri

Attività creative di Sally M. Atack
Aiutami a giocare di D.M. Jeffree
La Sindrome di Down di Cliff Cunningham

E allora si parte? ultima modifica: 1989-03-21T14:56:42+00:00 da Rita Ozzimo

Ogni mese inviamo una newsletter

Ci trovi storie, spunti e riflessioni per provare a cambiare il modo di vedere e vivere la disabilità.

Se prima vuoi farti un'idea qui trovi l'archivio di quelle passate.

Ti sei iscritto. Grazie e a presto... anzi alla prossima newsletter ;) Se ti va, quando la ricevi, facci sapere che ne pensi. Ci farebbe molto piacere.