Sono la mamma di una ragazza portatrice di handicap grave.
Quando è nata Monica, nonostante si fosse presentata a noi già con dei problemi gravi, l’abbiamo accolta con gioia perché era un’altra vita che entrava nella nostra famiglia e noi siamo sempre stati convinti che un figlio è una benedizione del Signore. Avevamo già un figlio, Andrea, che ci aveva dato dei problemi appena nato, però visto che nel giro di pochi mesi si erano risolti, così si pensava che sarebbe stato anche per Monica. Certamente col passare del tempo ci sarebbero stati dei miglioramenti e poi sarebbe arrivata la guarigione. Questa era la nostra convinzione. Invece non fu così.
Passava il tempo e i problemi diventavano sempre più seri. Le peregrinazioni da un medico all’altro, da uno specialista di casa nostra a un luminare lontano, non davano nessun frutto alle nostre speranze. La stanchezza di questa situazione, di questa continua tensione provocò una reazione di rifiuto. Continuammo a combattere per la sua salute, ma chiusi nella nostra situazione abbastanza anomala.
Quando andavamo in Chiesa e lei disturbava con i suoi gridolini e il suo continuo camminare, la gente si voltava a guardare, qualcuno zittiva, e noi si era abbastanza mortificati e non vivevamo nemmeno un po’ l’importanza della Santa Messa. Abbiamo smesso di andare in Chiesa. Quando si andava a casa di qualcuno c’era sempre il timore che disturbasse o che rompesse qualcosa. Abbiamo smesso di andare dagli amici anche prima della Messa perché nessuno veniva mai a farci visita.
Siamo rimasti nel nostro guscio convinti che né la Chiesa né la società fossero in grado di accoglierla. Colmò la misura il rifiuto da parte della scuola. La frequentava già da 5 anni, ma a un certo punto la lasciarono a casa perché disturbava, ed era la scuola speciale per handicappati!
Abbiamo continuato il nostro cammino sentendoci soli più che mai, con una certa acredine nei confronti della società in genere.
E poi per noi diventava una situazione di comodo, perché lei era più tranquilla e noi eravamo più tranquilli. Si fa per dire, perché non era certo una vita molto facile.
Poi vennero degli amici, che raccolsero e che l’accettavano per quello che era e che con delicatezza ma con fermezza ci portarono ad Assisi con altre famiglie e altre persone sofferenti.
E lì capimmo per la prima volta che anche Monica aveva un suo posto ben preciso nella Chiesa. Anche lei aveva un compito speciale: testimoniare attraverso la sua sofferenza l’amore di Dio. San Francesco ce lo testimoniava, aveva amato i poveri, gli ammalati, gli handicappati perché in loro vedeva la presenza di Dio.
Il suo esempio fu per noi riaccendersi di una luce.
Una luce che ci avrebbe portato un cambiamento grosso.
Si trattava di mettere in discussione il nostro modo di vivere, quindi di cambiare vita, di scomodarci, di condividere con altri la nostra sofferenza e dire a tutti che Monica era un segno tangibile della presenza di Gesù in mezzo a noi.
Sentimmo rinascere in noi con una fede nuova, il coraggio, l’entusiasmo. Accettammo con gioia rinnovata e sotto un’ottica diversa questa creatura che nella sua sofferenza innalzava il nostro compito di genitori a valori nuovi e più alti. Persino il suo comportamento cambiò. Si sentì accettata e non solo dal fratello che l’amava teneramente, dai nonni che l’adoravano e da noi che eravamo il suo mondo, ma anche da amici, tanti amici che le davano attenzione e affetto.
Poi si ammalò Andrea e venne a mancare, ma pur nel nostro grande dolore, accettammo la sua perdita nel nome del Signore. Egli aveva voluto così, e così era.
Andammo poi a Lourdes in pellegrinaggio. Io distrutta dalla recente scomparsa di Andrea, davanti alla Vergine l’ho sentita così vicina a me, capace più di tutti di capire il mio dolore! Lei, la mamma universale, che aveva accettato la nascita di un Figlio, consapevole di quello che sarebbe successo di Lui, così umile e grande allo stesso tempo, e che non per se stessa, ma per tutto il genere umano, si era fatta strumento nelle mani di Dio, era lì davanti a me.
Guardavo la statua, ma vedevo al di là di essa. Vedevo la persona che era stata, donna come me, mamma come me, disperata come me.
Aveva visto morire suo Figlio, e le era rimasta l’umanità intera da prendere per mano e portare davanti a quella croce eretta per la nostra salvezza.
Anch’io avevo visto morire mio figlio, e mi era rimasta Monica.
Quella bambina, che per la società non contava niente perché non avrebbe mai potuto eccellere in quelle cose che erano importanti per quella stessa società, costituiva per noi la salvezza perché col suo amore ci aiutava a vivere.
Una volta ancora ci accorgevamo quanto grande era l’amore di Dio per noi.
Attraverso la sua sofferenza per la perdita del fratello, dalla quale era rimasta sconvolta, ci richiamava al nostro dovere, ci chiedeva amore.
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E noi dicemmo sì al suo bisogno, e sì al Signore, quel sì che Maria aveva detto con tanta umiltà e consapevolezza quando stato annunciato il Figlio. Non è sempre facile, perché i problemi ci sono e bisogna cercare di risolverli, e ci sono ancora le angosce per quello che abbiamo vissuto, però cerchiamo sempre di vivere coerenti con la nostra accettazione della vita, perché la vita è il dono più grande che Dio ci ha dato. E poi c’è una cosa che per noi è gratificante e a cui non sapremmo mai rinunciare contro tutte le sofferenze del mondo: la presenza di Monica tra noi.
Lei è l’amore per l’amore che ha per noi, è la fiammella per la speranza che accende in noi, lei soprattutto è un richiamo alla fede perché molto spesso durante il giorno ripete: «Santa Maria Madre di Dio».
Il Signore le ha affidato un compito particolarmente grande e lei lo svolge mettendo in discussione la nostra stanchezza, la nostra debolezza, la nostra autocommiserazione.
– Monica Varoli, 1988
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.23, 1988
Sommario
Articoli
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