Lungi dal rispondere alle molte domande che la malattia mentale suscita, queste poche righe vogliono darne un’idea (un po’) più precisa e favorire questo incontro.
Una prima precisazione consiste nel notare in modo molto schematico la differenza con l’handicap.
Ha un handicap mentale una persona «bloccata» in modo stabile nel suo sviluppo intellettivo, con poche possibilità di evoluzione (sia il blocco conseguenza di una malattia fisica o psichica).
«Malattia mentale» è un termine generale che vorrebbe significare che resta una possibilità di evoluzione, di miglioramento, perfino di guarigione, talvolta di aggravamento. Ma l’espressione significa troppo spesso paura irragionevole nei confronti di un essere incomprensibile e inquietante, che delira o che si chiude nel silenzio, per esempio.
Le due espressioni si oppongono dunque, almeno in teoria, perché in pratica, non diciamo forse che una malattia è un po’ un handicap?
Questa malattia è mentale perché colpisce le funzioni superiori: l’attenzione, la memoria, quello che chiamiamo «umore» (tristezza o euforia), la capacità di giudizio (allucinazioni, delirio…), l’affettività… Non è neurologica come un tumore, ma sconvolge la personalità più o meno gravemente, ne altera l’unità e l’armonia agli occhi degli altri.
Il giudizio e l’affettività, ad esempio, sono qualità primordiali nelle relazioni; è proprio di fronte agli altri, ai propri simili, che questi malati sono turbati e sconcertanti; è nel loro comportamento sociale che sono incomprensibili.
Espressione di una sofferenza
Nella pratica, è possibile distinguere due grandi categorie di turbamenti.
NEVROSI: paure irragionevoli (degli spazi chiusi ad esempio), chiamate fobie; ossessioni delle quali il soggetto riconosce il carattere morboso, ma che non alterano la sua capacità di giudizio o la sua condotta sociale.
PSICOSI: generalmente più gravi, alterano le relazioni dell’individuo con la realtà circostante (allucinazioni, deliri…). Di queste alterazioni il malato non ha coscienza.
Tra queste due grandi categorie ci sono situazioni intermedie, così come possono variare l’intensità o la rapidità di evoluzione. Sono state messe molte etichette su tale o tal’altra forma di malattia per differenziare le une dalle altre, senza alcuna utilità pratica. Esse non devono coprire l’essenziale: sono malattie che fanno soffrire e, allo stesso tempo, sono espressione della sofferenza di un essere nella sua relazione con gli altri e con se stesso.
Tre cause possibili
Per capire queste malattie, ci si orienta in due grandi direzioni (schematicamente) :
- la psicologia individuale e la psicanalisi studiano soprattutto la storia dello sviluppo affettivo di un individuo, lasciando in secondo piano l’influenza dell’ambiente;
- la scuola «sociologica» ha reagito agli eccessi dell’analisi individuale e mette l’accento sull’importanza dell’ambiente sociale e culturale (famigliare, scolastico, lavorativo, religioso…) nel quale l’individuo si sviluppa e al quale reagisce.
Bisognerebbe aggiungere l’origine organica di certi turbamenti (di alcune depressioni, ad esempio) o la parte organica che può esistere in molti. Oggi, il declino delle ideologie e il pragmatismo sono tali che la vecchia parola «nevrosi» è quasi sparita nella recente classificazione americana delle malattie mentali, per lasciare più libertà al medico nell’aiuto che può portare al malato.
L’aiuto che possiamo offrire
Le terapie sono di fatto entrate in un’era nuova dopo la metà degli anni cinquanta. Le scoperte, una dopo l’altra, dei tranquillanti, dei neurolettici e degli antidepressivi, fanno sì che molti turbamenti, che sembravano definitivi, possano essere migliorati per la maggior parte e, alcuni, guariti, riducendo al minimo i periodi di ricovero.
Ma l’aiuto farmacologico è solo un aspetto della terapia. L’aiuto medico dovrà prendere spesso la forma più individuale e personale di una psicoterapia, in cui il paziente potrà imparare a conoscersi meglio, ad accettare se stesso con i propri limiti, con le capacità di evoluzione. Egli potrà così ritrovare un dinamismo che gli permetta di oltrepassare i limiti che la malattia sembrava avergli imposto. Allora non è più «paziente» che subisce, che soffre, ma soggetto che, con l’aiuto degli altri e, se lo desidera, riprende il suo posto.
Questi miglioramenti sono possibili se il paziente ha la saggezza di accettare ciò che non può essere cambiato. Bisogna inoltre saper scegliere la forma di psicoterapia più adatta perché ne esistono di diverso tipo.
Bisogna anche parlare del periodo di adattamento a volte essenziale. In questo periodo il malato può riprendere fiducia in se stesso attraverso un lavoro e ristabilire con gli altri i legami tesi o spezzati dalla malattia. In questo stadio le istituzioni specializzate risultano spesso indispensabili, come anche le strutture intermedie che si stanno moltiplicando.
Attraverso questo itinerario, un malato può rendersi conto molto concretamente di intravedere un’evoluzione.
Può allora ritrovare un senso per la sua vita e scoprire che la speranza ridiventa possibile.
-di M.E., da Ombres et Lumiére n. 79
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.21, 1988
Sommario
Articoli
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La malattia mentale di M.E.
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Addomesticare la malattia di J.P. Walcke
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