Ciò che è bello nel lavoro dell’insegnante è, a mio parere, la varietà. Ogni gruppo-classe è diverso da quello del corso precedente e, all’interno del gruppo, nel corso dell’anno si evidenziano il ragazzo timido e quello sicuro di sé, il tipo cordiale e lo scontroso, il volenteroso e l’indolente, lo studente «sveglio» ma sfaticato e quello «lento» ma costante e diligente; c’è chi apprezza e gode anche delle piccole cose e chi è indifferente a tutto. Ci sono ragazzi non belli e non intelligenti che ti conquistano con il loro affetto e la loro disponibilità; ci sono bambini belli, svegli e pieni di salute che sono insopportabili perché abituati a considerarsi il centro del mondo che li circonda.
Ora mi chiedo: in queste sicuramente generiche classificazioni, in queste «categorie» di comportamento, possono essere inclusi i ragazzi con handicap che ho avuto nei miei gruppi-classe, che ho seguito individualmente con il sostegno, che ho conosciuto e frequentato in altre circostanze?
Premesso che le mie osservazioni non possono e non vogliono riferirsi ai ragazzi molto colpiti (che vivono una situazione del tutto differente), posso asserire che i ragazzi handicappati che ho incontrato, presentavano, come tutti i loro coetanei, tratti particolari del carattere e atteggiamenti diversissimi nei confronti dell’impegno e della vita associativa e quindi che anche i loro comportamenti si differenziavano, più o meno coincidendo con le «categorie» già delineate. Nel corso dell’anno e nello svolgimento dell’anno scolastico infatti, a seconda di questa «disposizione iniziale» e, naturalmente sollecitato dall’ambiente che lo circonda, anche il ragazzo con handicap, come ogni altro compagno, all’interno del gruppo assume un ruolo preciso, conquista uno spazio più o meno ampio, e in una specie di classifica interna, si colloca in una posizione più o meno favorevole. Ammesso infatti che il ragazzo con handicap mentale si trovi sui gradini più bassi per quanto riguarda la comprensione di un problema astratto o la organicità del linguaggio, può però conquistarsi migliori e buone posizioni, con le altre attività e, in momenti diversi della vita di classe, guadagnandosi il titolo di «buon alunno» e «buon compagno di classe».
Chi è il buon compagno di classe? Il buon compagno di classe è soprattutto il ragazzo che è contento di stare con gli altri, che sa osservare ed ascoltare, che sa essere un buon alleato nei giochi, un amico solidale, una presenza serena; il buon compagno accetta lo scherzo, ride e si preoccupa con gli altri, lavora volentieri in gruppo per uno scopo comune. Ecco: un ragazzo così avrà sempre «quotazioni alte», sarà ricercato e benvoluto, non strapperà compatimento e pietà ma otterrà solidarietà e amicizia.
Ma quali sono i ragazzi (qui parlo in generale di tutti i ragazzi) che sanno istintivamente, una volta entrati nel mondo della scuola, comportarsi nel modo più giusto, che poi vuol dire muoversi lieti, a proprio agio, tra insegnanti e compagni?
Sono quelli che hanno avuto già prima in famiglia, da genitori, fratelli e parenti, le preziose prime indicazioni, gli esempi, lo stile di vita, che nessun altro potrà dar loro meglio in seguito.
In famiglia questa prima e fondamentale educazione comporta, si sa, amore, dolcezza e fermezza, serenità e autorità, grande impegno e attenzione soprattutto da parte dei genitori e qualche sforzo e piccole rinunce ed obblighi da parte del bambino: tutte qualità, impegni e doveri che vanno moltiplicati nel caso di un figlio con handicap.
A un bambino così. Infatti ad un figlio che soffre, portatore di handicap, che deve sostenere spesso lunghe cure e fisioterapie e, a volte, soggiorni in ospedale, ad un bambino così — chi non se ne rende conto? — si vorrebbe dare solo tutto quello che può renderlo più sereno, più allegro, più libero da impegni e doveri.
Ma se si pensa a quella che sarà la sua vita futura, ad una sua vita lontano da casa cui ha diritto come tutti, al posto che dovrà occupare in mezzo agli altri, nella scuola, nei laboratori, nei gruppi ricreativi, a tutti i momenti di vita associativa che vorrà e potrà condividere, allora si capisce che, da subito, bisogna guidarlo, prepararlo, attrezzarlo, direi, perché lui, più debole e vulnerabile per alcuni aspetti, diventi, per altri, più forte e più preparato, perché conosca il segreto di rendersi più amabile nelle diverse circostanze che si troverà ad affrontare.
Anche per lui. Ed ecco quindi, anche per lui, come insegnano psicologi ed educatori, l’importanza delle buone abitudini, dei piccoli graduati doveri, delle giuste equilibrate proibizioni. Se avrà imparato dalla mamma e dal papà la gioia di stare con gli altri, il rispetto per gli altri, la fiducia negli altri, il piacere di dare e di ricevere dagli altri, quando sarà «con gli altri», sarà più sicuro e protetto.
Quando cominciare: da subito, dalla culla — dicono gli esperti — ma noi diciamo anche: «da quando possiamo… da quando capiamo di aver sbagliato e vogliamo aiutarlo meglio… da quando avevamo smesso perché eravamo stanchi e scoraggiati ma poi decidiamo di riprendere con lui e per lui il cammino bello e difficile della educazione…».
A scuola. Altri esempi a questo proposito, mi suggerisce l’esperienza della scuola.
Ho avuto in classe ragazzi con leggeri handicap, che apparivano costantemente preoccupati dallo sguardo e dal giudizio degli altri e ragazzi con handicap più severo, che affrontavano sorridendo doveri scolastici e compagni turbolenti. Ho visto ragazzi handicappati in prima fila nei giochi e nelle recite e altri «normali» apatici ed immalinconiti per qualche chilo in più o per qualche brufolo ostinato…
Ci sono ragazzi
poco intelligenti che hanno con gli insegnanti rapporti vivaci e sinceri; altri, bravissimi nello studio, che restano diffidenti e timorosi davanti all’adulto in cui scorgono solo il giudice, o peggio, il nemico.
Mi accorgo che i ragazzi più semplici, meno tesi ad ottenere successi, sono quelli che hanno più amici; non sono oggetto di invidia, di confronto e, a loro volta, non provano gelosia o rivalità.
Ho avuto in classe Roberto che, con una frase scherzosa sapeva sdrammatizzare il litigio tra due compagni; Fabrizio che, con grande sensibilità, si improvvisava consolatore e difensore dei compagni puniti; Anna che diveniva attivissima e preziosa in occasione delle piccole recite; i tre sono portatori di handicap mentale medio-lieve.
Ciò che è importante. Così, passando in rassegna i miei alunni di tanti anni di scuola, confrontandomi anche con l’esperienza dei colleghi, mi sembra si possa affermare che i ragazzi allevati con amore e serenità, educati al rispetto di alcuni valori fondamentali, siano essi forti o fragili fisicamente, rapidi o lenti nell’apprendimento, riescono a vivere con serenità la vita di gruppo; trovando un proprio ruolo riescono ad accettare gli altri e a farsi amare dagli altri che è quanto di più importante, penso, possiamo sperare di ottenere per noi e per chi ci è caro.
– Maria Teresa Mazzarotto, 1988
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.24, 1988
Sommario
Editoriale
Non solo da leggere di Mariangela Bertolini
Articoli
Paolo e Chiara di Irma Fornari
Dalla scuola con amore di M.T. Mazzarotto
Se ha buone abitudini sarà più accettato
«Casa del Sole», casa della serenità di N. Schulthes e S. Sciascia
Come comportarvi quando incontrate una persona portatrice di handicap
Rubriche
Dialogo aperto
Vita di Fede e Luce - Un cammino insieme di L. Brambilla
Vita di Fede e Luce - Perché è cambiata la mia vita di F. Guglielmi