Per scrivere questa testimonianza, ho cominciato col ricordare la lunga cronologia della malattia di Stefano, dai primi sintomi allarmanti verso l’età dei 15 anni: le nostre prime reazioni di rifiuto di fronte al suo comportamento incomprensibile, i nostri sensi di colpa spesso amplificati dalle parole degli psichiatri… I periodi di crisi alternati ai periodi di superamento, i passaggi da ospedali a centri di post-cura, i tentativi di ripresa nelle scuole superiori, il ritorno ad ambizioni più modeste. Dobbiamo riconoscere che dopo l’accumularsi di tante prove, ci sentivamo logorati, vulnerabili, irritabili, chiusi. Più difficile di tutto è senz’altro l’inquietudine continua quando Stefano sparisce per 15 giorni nei dintorni, quando troviamo pezzetti di carta su cui parla di suicidio; quando trasforma la casa in un campo di trincea, quando il medico dice: «È il prototipo dello schizofrenico», quando ci viene annunciata una serie di elettro-narcosi, quando ci viene detto: «Non possiamo far granché per lui; riprendetelo».
La nostra vita di coppia era scossa da «zone di turbolenza». Si prospettavano nuove situazioni dopo più di vent’anni di matrimonio. Il problema di Stefano era sotteso ad ogni nostra relazione così da deprimerci a vicenda, anche se inconsciamente. Eravamo di fronte ai nostri limiti, alle nostre povertà, alle nostre divergenze anche. Fino ad allora, di solito, ci eravamo trovati d’accordo sui micro-problemi che normalmente pone la vita famigliare. Ora non eravamo più sulla stessa lunghezza d’onda; reagivamo spesso in modo diverso. Stefano non aveva con mia moglie le stesse reazioni che con me, non eravamo coinvolti allo stesso modo nella sua malattia. Le preoccupazioni per Stefano erano sempre presenti. Non potevamo più assaporare le piccole gioie quotidiane (passeggiate, spettacoli, viaggi, progetti…). Facevamo il vuoto attorno a noi, evitando i contatti con gli amici perché ci sentivamo ormai diversi da loro. Anche la mia vita professionale ne subiva il contraccolpo. Tutto quanto avevo fatto con gusto e con grinta, prendeva ora un aspetto fittizio e derisorio. La giornata cominciava senza slancio, si svolgeva nella malinconia e temevo, alla sera, il faccia a faccia delle nostre due tristezze. Era il tunnel. Per fortuna, se il tunnel ha un’entrata, ha anche un’uscita. Ho capito gradatamente che non era tutto nero. Se avevo accettato a fatica la malattia di Stefano con tutte le conseguenze per il suo avvenire, allo stesso tempo provavo un certo sollievo perché questo spiegava i suoi comportamenti inquietanti. Ammiravo anche il coraggio con cui, alla fine di ogni crisi, si metteva a ricostruire la sua vita, ogni volta con un po’ più di realismo. In occasione delle molteplici visite agli ospedali specializzati, ho scoperto il mondo della malattia mentale che fa tanta paura alla gente. Ho scoperto che questo mondo aveva le sue ricchezze, che l’aiuto reciproco vi prende spesso un aspetto quasi evangelico, che i malati conservano intatti certi aspetti del loro essere e che l’avvicinarli diventava più famigliare. Gli altri nostri figli reagivano ognuno a modo suo, ma senza animosità e potevamo contare su loro per darci il cambio in caso di emergenza. Abbiamo anche avuto la fortuna di incontrare un sacerdote che ci ha messi in relazione con un gruppo così da sentirci meno soli.
La malattia di Stefano ha messo alla prova la mia fede in Dio. Ciò che mi ha aiutato, è scoprire un Dio vicino agli uomini. Ho annotato questo versetto del Salmo 33: «Il Signore è vicino al cuore che soffre, salva lo spirito smarrito». Leggendolo, l’inquietudine per Stefano si placa. Anche per questo mi sento molto legato all’episodio dell’incoronazione di spine fra la gloria effimera delle Palme e la gloria eterna di Pasqua. Anche in mezzo alle onde, anche in una situazione senza uscita, il Cristo mi viene incontro, viene per amarci, viene per condividere e per capire. Ecco dove sono, dove siamo… Nulla per Stefano è risolto; l’ultima esperienza di post-cura, a base di lavori manuali, è stata ancora una volta un insuccesso. Mi tormento ancora: «Di che cosa vivrà? Dove vivrà?…». Eppure l’inquietudine in noi è diventata meno oppressiva. Vivere un giorno dopo l’altro. A poco a poco le piccole gioie riprendono il loro sapore: l’arrivo di otto nipotini, le ricerche di Stefano per trovare un club di giocatori di carte, iscriversi ai corsi regionali di disegno, comprare con la sua pensione un computer. Abbiamo trovato dei punti d’appoggio per non lasciarci asfissiare dalla malattia, per imparare ad addomesticarla…
– J.P. Walcke, 1988, da Ombres et Lumiére n.79
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.21, 1988
Sommario
Articoli
Saverio, nostro fratello di Mario Damiani
La malattia mentale di M.E.
Bloccati nel silenzio di Jean Vanier
Addomesticare la malattia di J.P. Walcke
Era la mamma ma anche un’altra persona di C.D.
Dove vivono, come vivono
Villa S. Giovanni di Dio di Nicole Shulthes
Comunità terapeutica di Primavalle di Sergio Sciascia
Risultato dell’inchiesta "Aiutateci a migliorare Ombre e Luci"
Cosa ha detto Papa Wojtyla sull'epilessia di Redazione