Ho vissuto vari campeggi con Francesco: lui era il «responsabile», io stavo con Sabina. Ma lui non la lasciava mai per più di cinque minuti: parlarle, farla ridere, coccolarla, era più importante di ogni altra cosa. Così noi imparavamo che lei non aveva bisogno solo di essere accudita, ma poteva essere contenta se le si dedicava qualche attenzione particolare. Questo un genitore lo sa.
In campeggio, tutte le notti, dopo una giornata densa di lavoro, avventure e disavventure, si doveva vegliare fino a tardi per accompagnare Sabina a fare la fatidica ultima pipì. Spesso si doveva aspettare fino alle due, le tre, e dovevamo fare i conti con il sonno.
Noi amici potevamo organizzarci tutti i turni che volevamo, ma non c’era verso di mandare Francesco a dormire. Non era sfiducia in noi, ma quelle ore facevano parte della sua vita tanto quanto tutte le altre e non voleva trascurarle. Da una vita, ormai, dedicava pochissimo tempo al sonno! Un modo di essere padre. E poi gli piaceva rimanere a chiacchierare con chi di noi rimaneva sveglio. Così succedeva che a vegliare le «ore della pipì» eravamo anche in tre o quattro.
Quelle notti sono diventate importanti anche per me. Nel silenzio della notte, nella grande e vuota cucina della casa parrocchiale, ci fermavano a parlare, ognuno di se stesso, o del campeggio, raccontavamo la nostra storia, imparavamo a conoscerci. Quando la stanchezza, il silenzio, l’attesa ci accumunavano, allora nascevano l’amicizia, le rivelazioni, le risate e, perché no, magari una spaghettata, se la pipì tardava particolarmente.
In quelle notti cominciavo a capire chi c’era dietro quella persona che di giorno vedevamo non prendersi troppo sul serio, non sentirsi mai al centro dell’attenzione, né degli altri né di se stesso (un ottimo modo per fare il «responsabile» senza farne sentire il peso).
Imparavamo da lui a conservare il senso delle proporzioni: la grandezza dell’amore di Dio per noi e le nostre piccole realtà quotidiane, come la sua: pappa, pipì, un canto o un gioco con tutti, un bagno in mare, gli spaghetti con le vongole, una gita in pulmino con quei suoi amici un po’ «sgangherati» agli occhi della gente.
Proprio niente per cui montarsi la testa!
Il bello è che queste povere cose le viveva come se fossero le uniche al mondo degne di tutta la dedizione: un papà o una mamma sanno cosa vuol dire accudire un figlio che non è più bambino e quanto questi umili gesti siano «tutta la loro vita», molto più che gesti.
Niente di cui vantarsi, però, niente per cui passare alla storia!
Nelle «ore della pipì» capivo che lui prendeva sul serio una cosa sola: che Dio è Dio e si manifesta nei più piccoli. Amarli e mettersi al loro servizio umilmente è fare la Sua volontà. Farsi piccoli con loro è la cosa più «seria» della vita, una precisa scelta.
Francesco sapeva che giocare con Sabina, darle da mangiare, vegliare per lei, erano cose «importanti», il ruolo che il Signore gli aveva affidato. La sua parte nella realizzazione del disegno di Dio.
C’è chi vive le «ore della gloria» e non è che una pagina di un libro di storia; c’è chi vive le «ore del potere» e non è che qualche foto sul giornale; e c’è chi vive le «ore della pipì» e rimane nei nostri cuori come un esempio che non finisce mai. E non si sente troppo importante neanche adesso che in Cielo occupa un posto ben più «prestigioso» di quello che aveva qui con noi.
– Anna Cece
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.20, 1987
Sommario
Editoriale
Basta poco per non farci sentire soli di Mariangela Bertolini
Dossier: Il ruolo del padre
Sono il papà di Francesca... di Antonio
Il padre assente di E. C.
Con suo padre di Redazione
Umili gesti che sono tutta una vita di Anna Cece
Quanti sanno...? di Paolo Bertolini
Atteso a braccia aperte: domande al medico M.O. Réthoré
Altri articoli
Il Chicco — (casa-famiglia dell'Arche) di Anna Cece
Che cosa è l'Arche
Rubriche
Dialogo aperto
Vita di Fede e Luce
Libri
Handicap e comunità cristiana di Renato Rondini
A nome di tutti i miei di Jean-Pierre Goetghebeur