La persona handicappata mentale ha un comportamento al quale non siamo abituati; il suo modo di ragionare spesso non è coerente, non è capace di un lavoro stabile, le manca una buona parte di autonomia e quindi resta sempre dipendente. La sua vita affettiva non raggiunge la maturità. Si possono trovare tante altre differenze. Ma queste differenze sono relative. Noi vediamo una differenza quando paragoniamo due valori. Il nostro giudizio dipende allora dai valori che mettiamo in relazione.
Noi diamo importanza essenziale a efficienza, intelligenza, forza, salute, ecc. Tutti le accettiamo come valori senza troppo riflettere. Penetrano in noi da ogni parte: dalla TV, dalla radio, dai giornali, attraverso i prodotti che acquistiamo, nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo.
Facciamo parte di questo mondo che esclude i valori che non producono risultati immediati e utilizzabili direttamente nell’economia o nella politica. La persona che non risponde alle esigenze di queste categorie ben determinate è messa da parte, è considerata inutile, un grave peso sulle spalle della società. Per non ingombrarsi la coscienza, la società si protegge costruendo istituti per i non produttivi (malati, handicappati, anziani…) o raccogliendo fondi per i poveri. Ma tutte queste «opere di carità» rientrano nelle stesse categorie dei valori sopra ricordati, che sono all’origine della divisione e non unificano le persone tra loro. (Perché la guerra fra i paesi, perché i divorzi nelle famiglie, se non per le stesse ragioni?)
In un mondo in cui regnano i valori della lotta e dell’egoismo, la presenza della persona handicappata, provoca la reazione della società. Ognuno di noi conoscerà casi in cui l’ostilità si è effettivamente manifestata.
Citerò due esempi, banali, ma frequenti.
Qualche anno fa, a Bruxelles, entrai con una ragazza handicappata in un piccolo ristorante. Ci sediamo a un tavolo. Arriva subito il padrone per dirci che per noi non c’è posto, che persone così devono stare all’ospedale, che il suo ristorante non è un’organizzazione sociale, e che noi gli mandiamo via i clienti. Ci dice ancora che ci offre un pasto gratuito se andiamo in una sala separata per essere soli. Testardi restiamo al nostro posto e dopo mezz’ora di attesa, il cameriere ci porta la bibita ordinata e mi dice all’orecchio: «Andatevene o chiamiamo la polizia. Questo è un ristorante privato».
Un altro episodio, suscitò l’idea di Fede e Luce qui da noi. Una mamma con un figlio di sette anni, disturbato nel comportamento, si trova un giorno davanti al suo caseggiato. Il bambino si avvicina, a due ragazzi, di circa 16-17 anni. Vedendo il bambino che faceva loro delle domande, uno di loro dice: «È pazzo». Lo portano dietro l’edificio e uno dei due gli brucia il petto con la sigaretta. La mamma comincia a gridare, chiama la polizia. Mandano a chiamare i genitori dei due giovani.
«Questo non è il suo posto» essi rispondono «che vada all’ospedale psichiatrico così avremo tutti la pace». La polizia se ne va dichiarando che in fondo quei due giovani non hanno ucciso nessuno!
La mamma ne uscì sconvolta. Aveva trovato un rifiuto totale da parte della società civile. Due giorni dopo condusse il bambino alla parrocchia per il catechismo speciale. Dopo la lezione, entrammo in chiesa.
La messa è appena cominciata. Dico al bambino di non gridare. Sta buono. Ma ogni tanto fa qualche domanda, a bassa voce, ma abbastanza forte perché tutti in chiesa lo sentano. Segue una scena da film: tutte le teste dei fedeli raccolti si girano allo stesso momento. Siccome il bambino non cessa di far domande «a bassa voce», viene il parroco e ci dice che disturbiamo la santa messa e che è meglio che ce ne andiamo o, se vogliamo, possiamo andare nella cappella accanto.
Era troppo per quella mamma. Scacciata anche dalla chiesa!
Quattro mesi dopo, la prima comunità di Fede e Luce si incontrò nella stessa chiesa per l’Eucarestia con i bambini handicappati.
Niente da fare: la persona con handicap disturba sempre e dovunque. È la sua vocazione, la sua forza rivoluzionaria, la sua lotta per un mondo migliore!
Essa è incapace di guidare un partito politico, di risolvere problemi finanziari, di cambiare strutture economiche, di inventare una nuova forma di energia. Non utilizzerà mai la bomba atomica per far paura agli altri, ma può far più paura della bomba; essa libera energie enormi dal cuore; è al centro di un cambiamento radicale dei valori, è la speranza di un ordine politico ed economico più giusto e più umano.
Lei, che il mondo considera come poco umana, vuole, e può umanizzare il mondo. È segno di contraddizione davanti al quale ognuno è obbligato a prendere posizione.
Accanto a lei, ciascuno è rimandato alla propria coscienza e alla propria sincerità. Ognuno deve scendere nella «camera» del suo cuore e chiedersi: che cos’è che importa nella vita, nella mia vita, nella nostra vita? Sono ancora capace di credere nell’altro e di amarlo, oppure, ho paura di incontrarlo? Ho paura che mi mostri la verità? Ho paura di cambiare?
La persona handicappata mi rimanda alla mia fonte d’unità, esige da me la riconciliazione, l’unificazione di me stesso. La fonte d’unità, di pace, d’amore è in me.
Abbiamo detto che la persona handicappata orienta i valori di questo mondo verso un nuovo ordine. I nuovi valori sono essenzialmente i valori evangelici che Gesù ci ha rivelato.
Non abbiamo ancora parlato né del Vangelo né di Gesù perché in questa riflessione abbiamo voluto scoprire i valori che sono presenti in noi. Abbiamo fatto il cammino dei due discepoli di Emmaus che parlavano con Gesù senza riconoscerlo. Possiamo dire con loro: «Il nostro cuore era ardente quando ci ha parlato…»
Gesù ci accompagna sempre quando cerchiamo la verità. È lui che ci ispira quando lottiamo per la promozione della persona umana, per la giustizia, per i valori che non periscono e non decadono. È lui il capo del mondo nuovo dove non contano più i muscoli o i gomiti, ma la sincerità del cuore. È in questo mondo di Gesù che la persona con handicap prende il suo posto pieno ed è trattata come l’incarnazione di Dio in mezzo a noi.
Tutto il Vangelo è pieno di esempi dell’atteggiamento che dobbiamo avere nei confronti delle persone più sminuite. È lo stesso atteggiamento che Gesù si aspetta da noi. «Tutto quello che fate (o non fate) ai più piccoli, è a me che lo fate (o non fate)». Gesù si identifica sempre con chi non possiede i valori di questo mondo. Contesta questi valori, li rovescia come ha rovesciato i tavoli dei mercanti nel tempio di Gerusalemme.
Con tutta la sua vita, con la sua morte e con la sua resurrezione Egli ha mostrato che c’è una sola verità, la sua verità, perché Egli è la Verità. Tutto ciò che non è verità si rivela come falso; ciò che il mondo gonfia (la bellezza, la ricchezza, il sapere) davanti a lui esplode, sparisce.
Gesù stesso si è meravigliato un giorno davanti all’opera di suo Padre che «rovescia i potenti dai troni e rimanda i ricchi a mani vuote» e ha esclamato: «Ti lodo, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai saggi e ai potenti e le hai rivelate ai piccoli» (Le 10, 21). Le cose rivelate ai piccoli sono i valori che il mondo ignora o che non vuol riconoscere.
La persona handicappata mentale ci meraviglia sempre quando riconosciamo l’opera di Dio in lei. È qui che un’altra volta siamo rimessi in questione. Davanti alla persona con handicap non possiamo non chiederci dov’è la nostra fede. Crediamo veramente in Dio creatore che crea con amore? Crediamo che le sue creature sono sue immagini viventi? Crediamo all’unità intima fra Lui e noi, nel fondo di noi stessi? Siamo pronti a riconoscere la sua azione diretta anche nell’altro? Anche nella persona gravemente handicappata?
Qui tocchiamo il cuore del nostro problema. Qui s’impegna veramente la nostra fede. È Gesù nella persona handicappata che ci chiede: «Credi in me?» «Mi ami più degli altri?». Credere nella persona senza credere in Gesù in lei, è tradire la fede, è ridurre la trascendenza della persona alle sue funzioni, è rompere questo legame unico con Dio che ci dà la sua vita e che ci permette di sperare nell’unione con lui per l’eternità.
Gesù in noi è quel fondo nel profondo di noi stessi che cercavamo all’inizio di questa riflessione. Da soli non possiamo toccarlo. È lui che ci viene incontro, che ci tocca dall’intimo, è lui che ci mostra la verità e che ci unisce agli altri. La conseguenza del peccato originale è l’incomunicabilità interiore fra gli uomini. Solo Gesù, che ha restaurato questa comunicazione, rende possibile la comunione fra gli uomini. È il mistero dell’Eucarestia e della Comunione sacramentale. Un solo Gesù ci unisce perché siamo uno in Lui. L’unità degli uomini e quindi della chiesa è Gesù stesso, è lui l’unica fonte di unità.
La persona handicappata mentale ha un vantaggio fra gli altri. Poiché le sue capacità mentali di ragionamento sono diminuite, sembra essere più trasparente e più accogliente alle ispirazioni dello Spirito di Gesù che vive in lei.
Il primo uomo si è opposto a Dio con il ragionamento. Orgoglioso della sua capacità di conoscere e sapere tutto, essere come Dio. Noi, che abbiamo una salute mentale normale, siamo tentati dallo stesso serpente ancora oggi. E ci lasciamo trasportare da quest’idea così volentieri. Questo grande dono di Dio, la capacità di pensare, è diventato per noi strumento del peccato e di maledizione. È il filtro che lascia o non lascia passare le buone intenzioni che Dio risveglia nel cuore.
La persona con un handicap mentale è più spontanea, più diretta, ha meno ostacoli da superare quando vuole esprimersi. Eppure noi non la capiamo perché la consideriamo attraverso le nostre categorie mentali. Non posso dimenticare tanti casi dei quali ho avuto esperienza in cui era evidente che Gesù toccava il cuore di un bambino. Soprattutto al momento della Comunione. Ricordo una ragazzina che non parlava non si muoveva, non faceva nulla, manifestare la sua gioia profonda con un grido e con un sorriso luminoso quando visse la sua Prima Comunione; o un ragazzo che non vi lascia in pace per tutta la messa, calmarsi completamente dopo la comunione. Sono solo segni esteriori, ma che ci permettono di presupporre un avvenimento interiore. In fondo è solo con la fede che possiamo riconoscere la presenza di Dio in lui.
Le nostre comunità ecclesiali hanno la fede sufficiente per accogliere Gesù che vive, che parla e che si manifesta attraverso la persona handicappata?
Il problema diventa acuto quando i genitori chiedono i sacramenti per loro. Al limite si possono capire i vecchi parroci che hanno paura di dissacrare i sacramenti. Ma non è Dio stesso che si è profanato di più dandoci Gesù in nutrimento? E se è Gesù che vuol visitare ognuno di noi, chi avrà l’audacia di impedirglielo? Se questo avviene significa che la Chiesa segue troppo i valori e i ragionamenti del mondo e non è ancora la chiesa del Vangelo. Gesù stesso ha detto:
«Lasciate che i bambini vengano a me e non impediteglielo perché di essi è il Regno dei cieli».
Quando possiamo dire che la persona handicappata fa unione nella Chiesa? Sempre quando siamo in presenza di una chiesa che è vera, sincera, evangelica. Ma la chiesa siamo noi, ognuno di noi. L’unità della Chiesa dipende da noi, dalla nostra unità interiore, dalla nostra unione con Gesù, dalla nostra fede e dal nostro amore. La persona handicappata ci insegna come S. Paolo ai Corinti: «Ci restano la fede, la speranza e l’amore, ma il più grande fra loro è l’amore (13, 13).
di Padre Joseph Mihelcic s.j., 1987
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.19, 1987
Sommario
Editoriale
Una lettera per te di Mariangela Bertolini
Articoli
La persona con disabilità: segno di contraddizione e fonte di unità di P. Joseph Mihelcic
Non vedo le meraviglie di Dio, ma le canto di André Haurine
Suonare? Perché no? di Giorgio Paci
Forza venite gente di Barbara Pentimalli
Rubriche
Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Lbri
Pedagogia della fede di Henri Bissonier
Come animare un gruppo di A. Beauchamp - R. Graveline
- C. Quiviger
Per tutte le Sabine del mondo di
Danzerò per te di Mireille Nègre
Un figlio per cinque giorni di Mauro Bartolo