Si parla sempre della madre. Tutti capiscono, comprendono la mamma di un figlio handicappato. Pochi parlano del padre e pochi se ne preoccupano.
Ma forse il padre di un figlio con handicap non soffre di meno!
Se i due genitori non sono molto vicini l’uno all’altro, se il papà non entra presto in contatto con il bambino, rischia di sentirsi escluso e sprovveduto.
In Norvegia c’è l’uso che il figlio perpetui il nome e assuma la responsabilità della discendenza. Questi schemi sono senza dubbio più viscerali in noi di quanto ci piaccia confessarlo.
I successi relativi che, fino ad oggi e malgrado tutto, ci sembra aver ottenuto, sono dovuti, a mio parere, in gran parte al fatto che Dag Tore fin dall’inizio ha avuto due genitori.
I ragazzi che come lui hanno un «ego» fragile e poco cosciente, hanno bisogno in modo speciale di una relazione intima con il padre. Dag Tore sa sciare. Ha resistenza in montagna e nella foresta; ama la barca e il canottaggio. E’ capace di spaccare e segare la legna. Tutto questo l’ha fatto con suo padre fin da quando era bambino.
E abbiamo potuto, suo padre ed io, darci il cambio nei periodi più estenuanti, in modo che sia un po’ più facile non perdere coraggio. Essere schiacciati dalle stesse pene porta ad attenuare la fatica e rinforza la sollecitudine.
Ma siamo ancora a metà strada.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.20, 1987
Sommario
Editoriale
Basta poco per non farci sentire soli di Mariangela Bertolini
Dossier: Il ruolo del padre
Sono il papà di Francesca... di Antonio
Il padre assente di E. C.
Con suo padre di Redazione
Umili gesti che sono tutta una vita di Anna Cece
Quanti sanno...? di Paolo Bertolini
Atteso a braccia aperte: domande al medico M.O. Réthoré
Altri articoli
Il Chicco — (casa-famiglia dell'Arche) di Anna Cece
Che cosa è l'Arche
Rubriche
Dialogo aperto
Vita di Fede e Luce
Libri
Handicap e comunità cristiana di Renato Rondini
A nome di tutti i miei di Jean-Pierre Goetghebeur