Tutto quello che è stato detto sui pluri, poli, multi handicappati, mi spinge a porre una domanda che mi tormenta sempre di più: si fa qualcosa e, in caso affermativo, che cosa si fa per il loro risveglio religioso?
Ponendo questa domanda penso a quei ragazzi afflitti da handicap multipli e a quelli che si dicono «ritardati gravi», o ai grandi psicotici, a tutti quegli esseri che non parlano e quasi non reagiscono pur essendo esseri umani come noi, fratelli nostri. Anche loro sono amati da Dio, padre nostro.
Anche per loro Gesù ha dato la vita. Sono, anche loro, chiamati ad essere templi viventi dello Spirito Santo. Perché allora non dovrebbero aver diritto all’educazione religiosa di cui sono capaci e al nostro sforzo di ricercare con intelligenza e con amore la via da prendere per arrivare fino a loro? Perché non dovrebbero aver diritto a quella che si chiama «iniziazione cristiana» e che conferisce i tre sacramenti: Battesimo, Cresima e Eucaristia?
Non soltanto i sacramenti
Amministrare i sacramenti dell’iniziazione cristiana e quello della Penitenza a un essere umano gravemente handicappato, è cosa di grandissima importanza.
È per lui un diritto essenziale. Ma prima ancora, e dopo, ha diritto al rispetto della sua età mentale (che deve sempre essere considerata come ipotetica e non deve essere valutata a zero per i soggetti che non possono essere sottoposti a test), e soprattutto al rispetto della sua età anagrafica. Questo d’altronde fa parte delle regole fondamentali per incontrare l’essere gravemente handicappato: dobbiamo, se adolescente, considerarlo come tale; come un «grande» se è adulto. Anche la persona rimasta ferma a una età fisica e mentale da sembrare sempre bambino, ha diritto a essere trattata secondo la sua età reale. Cosa difficile ma essenziale e tutta a suo favore, mentre qualsiasi trattamento infantilistico potrebbe solo nuocergli. Questo è particolarmente vero per l’approccio religioso.
«Non può parlare». «Sembra incosciente». Ma noi, sì, possiamo parlare loro di Dio. Sarà faticoso, certamente. A volte si avrà l’impressione di «parlare a un muro». Ma dobbiamo sapere che quel muro «ha orecchi», occhi, un tatto, che forse capisce, anche al di là di quanto possiamo immaginare, noi e i migliori medici e psicologi.
In fondo, il linguaggio verbale, le parole, costituiscono solo un mezzo d’accesso fra tanti, all’essere umano. Esiste tutto un repertorio simbolico attraverso il quale si può stabilire una comunicazione, e per raggiungere quelle «anime in prigione» — secondo il titolo di un celebre libro dedicato alla rieducazione di una sorda-muta-cieca — si possono adottare le più svariate vie sensoriali.
Una ricerca necessaria
Bisogna proprio augurarsi che le nostre ricerche in questo campo siano largamente condivise. Con soddisfazione abbiamo saputo che il Servizio di Catechesi Specializzata dal Centro Nazionale dell’Insegnamento Religioso a Parigi (6, Av. Vavin – 75006), ha creato un legame particolare tra i catechisti che si indirizzano alle persone gravemente handicappate. Ma, senza arrivare ad un approccio propriamente catechetico (e senza neanche rinunciarci di colpo), c’è forse un altro modo di rivelare a queste persone il Dio d’Amore: un modo non solo implicito ma esplicito, attraverso il quotidiano nella vita famigliare o istituzionale.
Questi ragazzi, adolescenti o adulti, si sentono abbastanza inseriti nella preghiera in famiglia? Nella liturgia parrocchiale, anche se a volte disturbano o distraggono? Io credo che non disturbano più di tanti ragazzi e bambini «normali» le cui grida e la cui irrequietezza durante le celebrazioni eucaristiche fanno talvolta concorrenza al predicatore!
Ma andiamo oltre: perché non provvedere, grazie ad un sacerdote amico, una liturgia eucaristica più intima, soprattutto quando la persona handicappata in questione rischia a sua volta di essere disturbata e distratta da una assemblea più numerosa? Abbiamo constatato più di una volta quanto questi giovani o adulti possono essere permeabili a più di un elemento della Celebrazione e provare un sentimento profondo di pace e di gioia soprattutto se sono coinvolti dal fervore e dalla calma di una comunità accogliente.
Spesso, persone che hanno partecipato a un’assemblea aperta anche a qualche ragazzo o adulto molto colpito, hanno potuto testimoniare di aver scoperto un altro modo di arrivare a Dio e di averne tratto profitto per la loro vita spirituale. Non è certo cosa da poco, fra le tante ricchezze che questi «poveri» ci offrono.
E la loro libertà?
Ci sarebbe ancora molto da dire su questo importante problema della vita spirituale delle persone gravemente handicappate. Ma c’è un’altra questione che non possiamo ignorare: davanti alla passività apparente delle persone handicappate gravi, alla loro incapacità totale o quasi di esprimersi, di manifestare la loro scelta, abbiamo il diritto di dare, di imporre in qualche modo la Fede e specialmente i Sacramenti della Chiesa?
Questo problema è simile a quello del battesimo conferito ai bambini piccoli, con la differenza che i ragazzi o gli adulti di cui stiamo parlando non potranno mai fare in seguito una professione di fede esplicita e «ufficiale» come gli altri, una volta adolescenti o adulti, sono invece invitati a fare.
Tuttavia la risposta che crediamo di poter e dover dare conviene per un verso, agli uni e agli altri. Infatti, se l’ambiente (prima di tutto la famiglia ma anche l’eventuale quadro medico-psico-pedagogico di una istituzione d’accordo con i genitori), considera e crede sinceramente che il bene del soggetto non può essere assicurato meglio quaggiù e per l’eternità se non mediante l’iniziazione religiosa, forse che oltrepassiamo i nostri diritti e andiamo al di là dei «doveri di assistenza a persona in pericolo» se chiediamo per lui il Battesimo, la Cresima, l’Eucarestia, e gli riveliamo l’amore di Dio Padre manifestato in Gesù e la presenza dello Spirito nel suo cuore?
Al contrario, non si corre forse il rischio di mancare gravemente a questo dovere di misconoscere il diritto fondamentale della persona umana, privandola di quello che ci sembra essere, per lei, fonte di Vita Eterna? Non si chiede il parere a un lattante, quando si tratta di offrirgli il seno materno o il biberon. Non si chiede il consenso a un annegato, o a qualcuno fulminato dalla corrente elettrica o in procinto di asfissiare, per tentare di rianimarlo, e si fa anche in caso di suicidio… Noi pensiamo che questi esseri hanno diritto alla vita e che, ragionevolmente, la desiderano. Consideriamo perciò nostro dovere conservarla, aiutarla a crescere, rianimarla quando rischia di spegnersi. Inoltre, quando si possiede un segreto che assicura la felicità, ci sentiamo in dovere di condividerlo con coloro che amiamo e di cui siamo più particolarmente responsabili. Ma, se il nostro cuore è grande, non vogliamo sperare che il tesoro di cui noi stessi siamo soltanto depositari venga posseduto dall’universo intero?
Allora, come non fare tutto il possibile perché quel bambino o quell’adulto gravemente handicappato di cui siamo responsabili, conosca anche lui l’amore con cui Dio lo ama, riceva il dono grande della Sua Vita e vi partecipi il più pienamente possibile?
Sono proprio così passivi?
D’altra parte non li consideriamo noi stessi molto spesso più passivi di quanto non siano in realtà? Mi sia permesso di ricordare Patrick, che ho conosciuto sei anni fa (nel 1980 N.d.R.). A causa di un trauma al momento della nascita, non ha mai parlato ed è cresciuto pochissimo. Vive a letto, si nutre con difficoltà. A prima vista sembra quasi inerte. I suoi genitori, cristiani convinti, speravano che potesse ricevere la comunione. Il suo parroco approva fortemente la richiesta.
Sono andato parecchie volte a trovare Patrick e la sua famiglia e ho notato soprattutto che Patrick, molto distante durante il nostro primo incontro, mi manifestava poi sempre maggior interesse e sembrava contento di vedermi. Gli ho parlato e ho suonato per lui anche qualche melodia che sembrava gustare. Poi ho osservato il suo comportamento nelle relazioni familiari e ho notato in particolare che quando il padre gli si avvicinava, accennava un netto movimento delle braccia nella sua direzione, quasi a testimoniare un riconoscimento, una scelta, uno slancio d’amore… Finalmente Patrick ha ricevuto la comunione per la prima volta, poco prima di Natale, in una cappellina di borgata. La cerimonia era stata preparata con la famiglia e gli amici del fratello e della sorella. I ragazzi hanno accompagnato con la musica i canti dei vicini, e degli amici. Il papà ha letto la prima lettura e la mamma ha preso il calice che il celebrante le porgeva per far comunicare il figlio incapace di inghiottire un cibo solido.
Fu un momento di grande emozione per tutti. Emozione che raggiunse l’apice quando il parroco ebbe l’idea meravigliosa di offrire alla mamma la poltrona del celebrante per darle la possibilità di prendere Patrick fra le sue braccia.
Allora tutti quelli che vollero si accostarono per baciare la mano al ragazzo.
Vivevamo già il mistero del presepio.
Con Patrick, Francois e gli altri
Nella primavera scorsa, anche Francois, accompagnato da Patrick, si è comunicato per la prima volta, in una parrocchia di una piccola città. Comunità di brava gente, generosa e aperta, ambiente molto raccolto, semplice e fraterno. Esempio di accoglienza e di integrazione vera in una comunità cristiana.
Quello stesso giorno altri bambini della parrocchia si comunicavano per la prima volta, come Liliana, bambina trisomica della parrocchia vicina che si era unita a noi in pieno accordo col suo parroco.
Francois sembra ancora più handicappato di Patrick. Lo vedo regolarmente al centro dove si trova anche Liliana e dove vado con i catechisti. Si ha l’impressione che viva quasi sempre in dormiveglia, coricato in una specie di carrozzina come un grande neonato. Però ha potuto comunicarsi sotto le specie del pane intriso nel calice (cioè «per intinzione»: antica tradizione tornata in uso). In questa occasione ho vissuto uno dei più bei ringraziamenti della mia vita.
Francois e Patrick infatti si erano comunicati per primi insieme ai loro genitori, e io ebbi la grazia di restare vicino a loro tutto il tempo della distribuzione della comunione. Francois, che quel mattino era stato un po’ agitato, d’un tratto diventò straordinariamente calmo, ma di una calma molto diversa dalla sua abituale sonnolenza. Il suo volto splendeva, illuminato da un sorriso straordinario che irradiava e rifletteva la sua serenità sul volto commosso della mamma. Poco distante Liliana, anche lei vicino alla mamma e ai suoi piccoli compagni, esprimeva una felicità cui tutta l’assemblea partecipava.
I giovani, profondamente e anche gravemente handicappati, hanno anche loro un modo di esprimere desideri, gioie e pene! Per quanto mi riguarda, constato la stessa cosa con gli adulti e anche con le persone ritardate mentali profonde o psicotiche, handicappate per di più dalla vecchiaia. Indubbiamente hanno reazioni diverse dai bambini, ma i loro desideri e le loro soddisfazioni trovano vie impreviste per farsi conoscere. Sta a noi essere attenti, perspicaci e soprattutto affettuosi per accogliere quei messaggi. Eminenti specialisti che ho avuto la fortuna di incontrare un po’ ovunque, sono adesso a caccia di mezzi per comunicare con gli esseri umani più handicappati. Scoprono gesti appena percettibili, movimenti degli occhi, espressioni del volto, e si sforzano di stabilire un dialogo. In questo modo e in alcuni posti, da vari anni si è riusciti ad allacciare delle relazioni, tenendo conto di queste informazioni così deboli e troppo spesso ignorate o non interpretate.
Quale meravigliosa missione può affidarci il Signore chiedendoci di andare alla ricerca di coloro che in questo nostro universo sono circondati come da un muro! Ci pensavo sentendo parlare dei sepolti vivi del Messico o della Columbia e dei salvatori che si sforzavano di percepire i loro richiami.
La nostra responsabilità
Ci auguriamo fortemente che questo nostro modesto articolo abbia un seguito.
Chiediamo con insistenza a tutti i lettori e amici di Ombre e Luci che hanno esperienza di questo tipo di incontri con bambini, adolescenti o adulti gravemente handicappati, di scrivere per comunicarci le loro scoperte, intuizioni ed eventuali raccomandazioni. E anche le loro preoccupazioni e i loro interrogativi.
E doloroso pensare che tanti esseri umani, fratelli e sorelle nostri, perché profondamente feriti, nel corpo e nella psiche, spesso nei due contemporaneamente, siano privati di questa iniziazione religiosa che si chiama anche «l’illuminazione cristiana». È un peccato, una cosa ingiusta, che tanti di loro ignorino l’esistenza di un Dio d’Amore agli occhi del quale sono preziosi. Di fronte a tanto, non ci sentiamo anche noi responsabili?
Possano queste poche righe risuonare come un grido di aiuto, a nome loro.
Possano contribuire a far sì che domani siano meglio evangelizzati i più sprovveduti fra i più poveri!
di Henri Bissonier, 1986 (tratto da Ombres et Lumiére n. 73)
Il Padre Henri Bissonier è senza dubbio un’autorità nel campo della catechesi delle persone con handicap mentale.
Ha scritto molti libri e articoli, ha insegnato in numerose università, ha fondato e diretto Movimenti nazionali e internazionali di persone con handicap.
Ma non ha fatto solo teoria: provato, fin da bambino, nella malattia, a diciannove anni scopre, nei grandi sanatori delle Alpi, l'esclusione sociale e la desolazione spirituale del mondo dei malati.
Fin dalla sua ordinazione nel 1935, impegna tutta la sua vita di sacerdote in una lotta quotidiana per la difesa dei diritti delle persone con handicap, per il riconoscimento della loro dignità, per il loro inserimento nella vita sociale e nella comunità cristiana.
È stato il pioniere in Francia della catechesi delle persone handicappate entrando con tutta la forza della sua speranza e la sensibilità del suo cuore nel mondo triste e chiuso di un ospedale pubblico dove «vivevano» delle giovani e delle ragazze handicappate mentali.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.15, 1986
Sommario
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