Il tema che Valeria e gli altri collaboratori responsabili mi hanno dato per questa sera è molto, molto difficile, tale che io non avrei neanche osato trattare perché non mi sento capace. Ciò che mi spinge a trattarlo è il desiderio di chi me l’ha proposto ed anche il fatto che siete in pellegrinaggio e siamo quindi in un clima molto forte di fede. In un momento di grande fede possiamo chiedere al Signore che ci aiuti anche a trattare problemi difficili che certe volte si vorrebbe lasciare da parte. Spero di essere abbastanza breve perché siete tutti piuttosto stanchi, avete delle giornate molto intense e quindi vogliamo semplicemente esprimere qualche pensiero spirituale che ci aiuti a chiudere questa giornata così bella.
Mi è stato chiesto di commentare i primi due versetti del cap. 9 del Vangelo secondo S. Giovanni là dove, raccontando la guarigione del cieco nato, si dice così: «Passando Gesù, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco?” Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”».
Ecco, due versetti brevissimi, ma che evocano, come vedete, tanti grossi problemi. Cerchiamo di affrontarli con molta semplicità anche se sono molto gravi: Fede e Luce non vuole sfuggire a questi problemi che sente con grande serietà perché ha la vocazione della vicinanza di comunione e di fede non solo con la persona disabile, handicappata, in difficoltà, ma anche e in modo tutto particolare, con la sua radice vitale, cioè la famiglia. La domanda dei genitori o sui genitori è certamente una domanda che sta molto a cuore a Fede e Luce. E perciò cerchiamo di approfondirla insieme. Dunque abbiamo a che fare qui con una risposta nuova data da Gesù ad una domanda angosciosa ed antica.
La risposta è nuova, ma la domanda è antica. La domanda è talmente antica che rimane ancora e ritorna, perché è antica la sofferenza umana di genitori che hanno un figlio che fin dalla nascita o molto presto è entrato in gravi difficoltà. E la domanda nasce: chi? Come? Perché? Di chi la causa? Questa l’istintiva domanda che mette un rapporto tra la malattia di un innocente e qualche peccato precedente o colpa o in qualunque maniera responsabilità di qualcuno prima di lui, è una domanda antichissima. È antica quanto l’umanità. Del resto viene espressa dai farisei anche in questo stesso brano. Quando i farisei nel versetto 34 dopo il miracolo, chiamano l’uomo che era stato cieco e gli chiedono: «Ma chi è Gesù? È un peccatore? Devi dire che è un peccatore…» lui dice: «No, non è vero, perché mi ha aperto gli occhi!» E allora lo insultano dicendo: «Tu sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi!». Questo «sei nato nei peccati» si riferisce al suo essere nato appunto in una disgrazia. Questo fa dunque vedere come è istintiva in questa stessa religiosità antica, la connessione della disgrazia col peccato, con una colpa o con una qualche responsabilità.
E del resto anche in un’altra pagina del Vangelo appare questa connessione che la gente fa istintivamente. Al capitolo 13 del vangelo di Luca, ai versetti 2 e 4; erano successe due disgrazie gravi in quel tempo e vengono raccontate a Gesù. La prima era un fatto di terrorismo, di sangue, politico. Alcuni Galilei erano stati uccisi da Pilato nel tempio e Gesù dice: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti voi per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Ecco, in questa parola forte di Gesù c’è l’idea di chi gli ha portato la notizia che se questi uomini hanno avuto questa disgrazia e quest’altra e quest’altra… è perché c’è qualche responsabilità loro, qualche colpa, e Gesù dice no, tutti noi!
Ancora oggi, quando succedono, soprattutto in ambienti popolari, alcune disgrazie, addirittura terremoti, subito si dice: qual è la causa, di chi è stato il peccato? Questa ricerca è istintiva ed è molto antica e quindi affiora anche qui e Gesù si trova di fronte a questa domanda seria, domanda che rimane anche nella Chiesa.
Quante persone sono tormentate da questo problema al quale non sanno dare una risposta soddisfacente. E noi vediamo che Gesù qui dà una risposta; e anche se le risposte di Gesù su questo problema del male non sono tanto risposte, quanto impegni, tuttavia è capace di rovesciare i termini del problema. «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero le opere di Dio». Abbiamo qui, come vedete, le due parti di questo brano evangelico su cui adesso possiamo meditare più a lungo. La prima parte è la domanda ansiosa: ma come, perché? È una domanda che nasce da una grande sofferenza e cercheremo un pochino di sminuzzarla la sofferenza che nasce da questa domanda. E poi la seconda parte è la risposta di Gesù e cercheremo anche di capire in che senso va questa risposta.
Da quale sofferenza nasce questa domanda, così angosciosa, così antica, eppure così ancora risorgente istintivamente. Questa domanda nasce anzitutto da un grande legame affettivo perché c’è un grande affetto verso questo ragazzo, questo figlio, questa figlia che soffrono. Nasce da questo profondissimo amore caricato ancor più dalla situazione difficile e quindi questo rapporto affettivo crea tutta la tensione di questa domanda e di questi interrogativi soprattutto nei casi più difficili quando si convive ogni giorno con la paura di non farcela, quindi con un’avventura di relazione, di rapporto che è difficile anche spiegare agli altri. Dunque questo senso profondo di legame di affetto è certamente una delle matrici, delle radici della domanda così sofferta.
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Una seconda realtà da cui nasce questa sofferenza è la solitudine; si perde la voglia di comunicare, travolti così come si è da situazioni tanto aggrovigliate e pesanti che certe volte, voi sapete, esiste la tentazione proprio per i genitori di chiudersi, di indebolire la propria vita esterna, ritirandosi in un circuito più ristretto perché il figlio o la figlia in difficoltà seria, grave, finiscono per assorbire a tal punto le energie da divenire l’unica sorgente di relazione fino a far cadere tutte le altre relazioni importanti, conducendo alla solitudine.
Ed è qui allora che nasce la domanda magari repressa, magari non espressa, la domanda sulla colpa: ma perché, ma come? Ma per causa di chi? E qualche volta addirittura ci si chiede: ma quale colpa, quale sbaglio abbiamo compiuto, che male abbiamo fatto?
E qui la domanda diventa una domanda che rode la coscienza e se talora si trovano anche delle spiegazioni, magari tecniche, da parte di medici o da psicologi, che coinvolgono anche un po’ la figura dei genitori, ecco che allora nasce un immaginario senso di colpevolezza che finisce per far diventare il rapporto un interrogativo di tormento. E questa sofferenza, in questa domanda che si esprime qui nel Vangelo ma di cui facciamo tante volte l’esperienza, diventa anche chiusura o rottura nei confronti della società, col lamento, con la ben nota frase «la società… tante parole, ma pochi fatti, nessun aiuto.» E quindi la società è vista come oppressiva, come qualcosa che non ci capisce, da cui quindi si prende maggiore distanza e isolamento.
E infine un ultimo aspetto di questo quadro così fosco che ha una ragione psicologica molto profonda, ed è quella che S. Francesco di Sales chiama «l’inquietudine di essere inquietati». Uno vorrebbe essere tranquillo, avere una certa tranquillità, però perde la pazienza, si inquieta anche, ha sensi di colpa e si inquieta di averli perché non vorrebbe averli, e quindi rimane irritato contro se stesso perché è preso da queste forme di inquietudine, da sensi di colpa, di tristezza, ha colpevolezza anche su questo. Il quadro è certamente piuttosto oscuro ma è quello che, in un modo o nell’altro, a tante persone capita di vivere anche senza poterlo molto comunicare o spiegare; inoltre, se questa esperienza è comune anche a tante altre realtà perché è più frequente di quanto non si creda; tuttavia nei casi di chi si trova ogni giorno confrontato con questa realtà di un figlio o di una figlia che fin dalla nascita hanno questi problemi, sono cose che rischiano ogni giorno di ritornare e di appesantire la giornata precedente sulla seguente. Ecco perché queste domande nascono, quali radici così profonde e difficili hanno in noi. E allora adesso che abbiamo ascoltato la domanda cui gli apostoli hanno dato voce: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» Di chi è la colpa, ma come, ma dove? Cerchiamo di ascoltare la risposta di Gesù, la quale ha due parti. Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio».
Notiamo bene questa parola che è molto importante. Comprende una parte negativa e una parte positiva. Che cosa dice la parte negativa? Dice: è necessario mettere da parte come inutili e irrilevanti tutti quelli che possono essere sentimenti di colpa o di responsabilità che gravano soltanto l’anima senza produrre nulla di buono. Gesù è molto netto, deciso su questo. È chiaro che Gesù non vuole negare che ci possa anche essere dimostrato scientificamente, per motivi di vario tipo, l’una o l’altra responsabilità. Però Gesù dice che non giova, che questo è irrilevante, non aiuta, non serve e quindi non è ragionevole, non è ammissibile, non ha da essere anche se questa è una lotta non facile, il convincersi cioè della irragionevolezza di questo approccio per toglierlo completamente dal nostro quadro mentale. Vediamo, insomma, che Gesù anzitutto vuol chiarire, liberare il campo da tutti quei pensieri senza fine che si accodano l’uno all’altro e di cui non si riesce mai a trovare il bandolo. Gesù dice: «Né questo né quello». Nessuna possibilità, nessuna ammissibilità di questo tipo di pensieri per una persona che voglia veramente sentirsi a posto e tranquilla davanti a Dio, che voglia trovare il cammino della Fede. Deve decidere da se stessa tutta questa catena di pensieri e di impressioni o di sentimenti il cui esito è sempre negativo, è sempre qualcosa che appesantisce, qualcosa che lascia perplessi o incerti.
Penso che questo è un punto molto importante sul quale dovremo tutti esaminarci.
Io penso che questa esperienza che tanti di voi vivono a livelli molto acuti, è un’esperienza che però in qualche maniera tocca tanti di noi. Quante volte ci lasciamo attrarre da pensieri che ci appesantiscono e che non risolvono nessuna delle nostre situazioni ma le rendono soltanto più pesanti e oscure. Non hanno ragione di essere, dice Gesù, non hanno ragionevolezza e noi non siamo così davanti a Dio, Dio vuole altre cose da noi. Che cosa? Ecco allora la parte positiva della parola di Gesù. «Ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio». Notiamo che Gesù evita di rispondere quanto alle cause. Gesù ha detto: «Né lui né i suoi genitori», Gesù non entra nella causa, ma Gesù sposta tutto il ragionamento sul fine. Che cosa ha da venir fuori da questo? Che cosa ha da nascere? Quale disegno di Dio ha da manifestarsi? Naturalmente, voi direte, bella forza: siccome qui questo cieco nato deve essere guarito, il disegno di Dio è il miracolo. Se fosse sempre così, saremmo tutti d’accordo, la soluzione sarebbe già pronta. Ecco, domandiamoci: queste parole di Gesù, ma perché si manifestassero in lui le opere di Dio, sono parole che hanno valore soltanto in questo caso in cui c’è un miracolo e allora la situazione cambia così, miracolosamente, oppure non hanno nella vostra esperienza e sopratutto nell’esperienza di Fede e Luce, un valore proprio? Non è forse un cammino nel quale si manifestano, in lui, proprio in questa persona, in questo ragazzo, in questo giovane, in questa ragazza, delle misteriose opere di Dio di cui siamo adagio adagio stupefatti testimoni attraverso un cammino comune? Così mi pare che Gesù ci inviti a rileggere questa parola. Do solo qualche esempio che traggo da voi, dalla vostra esperienza, dalla vostra vita e da ciò che posso sapere o capire, che avviene o che sta avvenendo. Prendiamo semplicemente un tema fondamentale quale è quello della comunicazione e della incapacità che, chi ha gravi handicap, ha di comunicare.
Quando la comunicazione è molto ridotta, quando è difficile capirsi e capire se si è capiti, cominciamo a intravedere in questo momento quale grande cosa sia il dono della comunicazione, questo dono che viene così sprecato, anche malamente, ma di cui invece, anche solo un briciolo ha un valore immenso.
Ecco che allora nasce, proprio per il dolore di questo vuoto di comunicazione, una straordinaria capacità di avvertire anche i minimi segni della comunicazione. Non c’è mai quindi veramente fra genitori e figlio un vuoto di comunicazione, perché anche se in condizioni gravi, egli comunica perché carica i genitori di speranza, chiede e vuole affetto, subisce paure che si abbattono inconsciamente su di lui, chiede protezione. Ecco che allora si attua una testimonianza di amore creativo, capace di superare barriere ed ostacoli giudicati insuperabili, che ha, in questa società che spreca così miserevolmente i doni comunicativi, un valore straordinario. È un qualche cosa, è una società che rinasce al senso vero dei rapporti anche proprio in questi esempi limite, dove il rapporto è ridotto e difficile; la forza d’amore che ci si mette è una forza che è un dono immenso per la Chiesa. Quindi io sono convinto che l’esperienza di questo tipo che voi vivete in Fede e Luce, è l’espressione di un grande amore, di una grande forza per la Chiesa, che voi regalate a ciascuno di noi e che chi è più avvertito nel coglierla, nel condividerla, sente una grandissima testimonianza della forza comunicativa dell’amore anche nei limiti più grandi. E l’amore stabilisce una relazione così profonda che moltiplica e scopre sempre nuovi livelli di comunicazione fatta di attesa, di tenacia, di perseveranza, di dono di vita ed è per questo che la tentazione dell’isolamento è una tentazione che voi rifiutate e che va rifiutata. Queste parole che Gesù dice: «Né lui né i suoi genitori hanno peccato» ci dicono che per Gesù tutte le forme di isolamento, di ritirarsi, di ripiegarsi su di sé, non hanno senso. È una tentazione gravissima. Mentre il coraggio di coinvolgere anche altri a condividere le proprie sofferenze dell’esperienza umana è un dono che viene fatto all’umanità. Mentre il rinchiudersi, isolarsi dagli altri nella sofferenza, nello sconforto, è andare indietro, verso appunto questa domanda oscura e che corrode l’esperienza umana, questa domanda che non ha nessun esito positivo.
Notate ancora la bellezza di quella parola di Gesù: «perché si manifestassero in lui le opere di Dio», non dice soltanto in voi, ma in lui. Cioè, le opere di Dio si manifestano nella persona che proprio per i suoi limiti sembra non saperle esprimere se non in forma molto modesta, in forme appena embrionali. Lette così queste espressioni, anche talvolta al limite, proprio perché appena percettibili, sono cariche di una dignità umana immensa ed è quindi compito vostro, e di tutti quelli che vi aiutano, spezzare questo isolamento e dare questa dignità sentendosi tutti carichi di un dovere, di un compito umano e sociale estremamente grande perché raggiunge i fondamenti dell’amore umano stesso e lo libera. Ecco dunque l’assurdità di sentire queste situazioni con un senso di colpevolezza o responsabilità negativa mentre invece la via che tanti di voi stanno sperimentando anche se faticosamente è di sentirsi responsabili in positivo per compiere quel miracolo quotidiano che è il rispetto profondissimo della dignità di chi, anche attraverso il poco di comunicazione che può dare, tuttavia porta la dignità di questo disegno di Dio. E questa è una lezione grande per tutta la società la quale, come sapete meglio di me, ha reagito di fronte ai casi difficili, segregandoli o ignorandoli; la società in questo modo rischia di trasformare questa realtà in un vero senso di colpa perché la società che compie un rifiuto si sente colpevole e davanti a questo certamente vi è un cammino sociale che è ancora lungo da fare. Voi in Fede e Luce siete molto avanti in questo cammino, sapete benissimo che siete dei pionieri. Purtroppo ancora oggi, i genitori vengono caricati di responsabilità eccessive e voi, quindi, che vivete in questo movimento di Fede e Luce, avete una grande testimonianza da offrire; una responsabilità positiva consapevole dei propri limiti, che si traduce anche in appello alla società per cui anche la persona handicappata, psicotica, in situazioni molto difficili, non è per nulla un segno di colpa o responsabilità eventuale dei genitori ma è il segno di una sofferenza che attraversa tutta la vita umana e sociale e quindi va affrontato nell’ottica di un cammino di redenzione e di riconciliazione.
Ecco perché è atteggiamento chiaramente sbagliato quello di chiudersi di fronte alla società; bisogna investirla coraggiosamente e dignitosamente anche dei propri problemi, delle proprie domande di solidarietà che si manifestano nell’esperienza quotidiana. E nessuno può accettare di essere marginalizzato nel proprio dolore perché la dignità grandissima di esso va rispettata e affrontata anche dalla società. E per questo non può bastare un po’ di pietà o di assistenza; bisogna arrivare al cuore delle progettazioni sociali ed economiche.
Quante volte mi è avvenuto di proporre, di insistere su queste cose proprio nell’ambito dei piani pastorali della diocesi di Milano; soprattutto in quest’anno in cui puntiamo al tema del farsi prossimo anche con assemblee civili che coinvolgano tutti i responsabili delle istituzioni pubbliche, nelle diverse zone della diocesi. Proprio perché questo è certamente un compito nel quale bisogna essere in molti, i più deboli vanno maggiormente difesi e questa è una priorità programmatica anche nel campo del lavoro, dell’economia e la stessa dimensione di generosità e solidarietà umana che si esprime nel volontariato non può rappresentare una supplenza alle lacune della scelta che la società deve compiere. E qui certo il cammino sociale è ancora grande.
È proprio da un movimento come questo che possono venire stimoli interiori, che possono venire delle forze educative, culturali che poi diventano proprie anche di tanti altri che al momento le sentono poco. Per cui non avvenga più che alla famiglia troppo spesso si faccia carico di problemi troppo gravi, così che si senta quasi costretta al limite della sopravvivenza, sola nella quotidianità spesso pesante della convivenza con i casi più gravi.
Mentre invece è chiesto in questo cammino — è una grossa responsabilità — che voi possiate divenire protagonisti di un amore così forte e creativo che potrà incidere nella società e potrà chiedere con forza alla società di trasformarsi. Questo è un fatto così significativo e importante che non può essere affrontato che con un impegno sociale comune fino a raggiungere una dignità sociale e politica, e deve quindi essere affrontato anche a questi livelli. Ciò non escluderà, anzi valorizzerà anche di più le piccole solidarietà quotidiane; come queste giornate di pellegrinaggio piene di piccole solidarietà, di mille eventi che hanno un immenso valore di comunione e di generosità. E appunto per questo vanno collocate nel loro ambito e debbono essere stimolo per aprire tutte quelle porte della società che non debbono rimanere chiuse, credo che in questo ambito noi abbiamo un compito molto grande anche come credenti e come comunità cristiane.
Io sono convinto che tutte le nostre comunità devono convertirsi e si tratta proprio di una vera conversione e parecchi di voi mi hanno raccontato la situazione di non conversione di alcune comunità.
Convertirsi a una diversa e più consapevole socialità con handicappati, disabili di ogni tipo e con le loro famiglie. È necessario quindi dare un’autentica priorità a questo compito che impone nuovi criteri e valori per cui questa carità diventa applicata alla comunità cristiana, un progetto esigente e coinvolgente. Ed è anche quel progetto che noi come diocesi di Milano ci siamo impegnati a svolgere in questo biennio fino al convegno sulla carità. Io vedo però quanto è difficile farlo capire alle parrocchie, alle diverse realtà. Quando si parla di questo, subito si traduce, nell’una o nell’altra iniziativa piccola o grande — questo va bene — però è un modo di vita, è un criterio di vita che deve essere. La carità non è semplicemente i gesti di carità, ma è un modo di coinvolgersi che cambia veramente i parametri dell’esistenza. E quindi ha un valore anche sociale immenso.
Faccio una piccola digressione su uno dei temi molto importanti di questo tempo, nel quale ci siamo impegnati come diocesi, il tema della disoccupazione, dell’occupazione giovanile, del lavoro. Due settimane fa è stato a Milano il vescovo incaricato dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti per redigere la bozza di una lettera sull’economia, sulla vita economica e sociale. Si è tenuto un suo incontro nell’episcopio a Milano, con una ventina di economisti tra i nomi più famosi della scienza economica internazionale. Sono stato molto colpito di come questi economisti dicevano che è giusto, importante che la società si interroghi anzitutto sulla realtà dei più deboli. Povertà, fame, disoccupazione, anzianità, handicap, e si domandi se il suo quadro economico sia capace di dare priorità a queste cose; e questo rovescia un pochino tutto il modello economico che di solito è: progresso-sviluppo e poi, attraverso questo, distribuzione che possa anche raggiungere i casi difficili. Invece essi dicono, no, i modelli economici tradizionali non hanno mai saputo spiegare il perché delle emarginazioni, delle povertà; li hanno sempre fatti sorgere e quindi non esiste una terza via; esiste la necessità di un nuovo modello di uomo, di una nuova antropologia che mettendosi ad un nuovo e responsabile modo di vita, possa avviare una forma di economia dove queste cose abbiano una priorità. Questo — è difficile spiegarlo in poche parole — mi ha molto colpito perché vuol dire che la scienza economica contemporanea, liberandosi da schemi del passato, vede che c’è bisogno di un supplemento etico cioè di un impegno morale di tipo di vita. Ora, è proprio questo supplemento etico che nasce dal vostro tipo di impegno. Per questo la parola di Gesù «Perché si manifestino in lui le opere di Dio», è un’attività di salvezza sociale che occorre contemplare; quindi non soltanto il caso singolo, naturalmente guardato con amore pietoso, drammatico, ma ciò che esso significa quando ci si mette davvero a viverlo in maniera diversa. Ma come appunto vedo che insegna Fede e luce e che ha costituito per me fin dall’inizio — da quando ho conosciuto questa realtà — motivo di grande ammirazione e gioia, si insegna a vivere questa realtà in modo diverso; ma allora vivendola così, cambia tutto il sistema di vita, cambia anche il modo di capire il senso del vivere umano e cambia in quella maniera che è capace di far cambiare anche il resto della società, con tutti i suoi squilibri e le sue sofferenze, e, al limite, tutte le guerre, tutti i terrorismi, tutte le forme che nascono da una società nella quale la competizione, lo sfruttamento, il prevalere dell’uno sull’altro è legge; mentre invece a partire da qui, in lui si manifesta un tipo di società e di vita in cui tutte queste cose vengono rovesciate; quindi può nascere, c’è l’offerta di una società di fraternità, di una società solidale. Davvero, mi pare, che pensando alla vostra esperienza si comprenda in profondità il valore della frase evangelica: «perché si manifestassero in lui, nella sua cecità, quindi nella sua povertà, nella sua sofferenza, le opere di Dio.»
È appunto questo percorso di solidarietà e di lettura nella vostra vicenda, come genitori di Fede e Luce, che vi porta ad avvertire quanto sia centrale il primato di una vita concepita come dono, come accoglienza, come servizio, come solidarietà; realtà capace di rinnovare la pesantezza, il dolore del presente ed è quindi proprio ad un mondo così inquieto come quello nostro di oggi, incapace di darsi ragioni di vita, di fronte a tante assurdità, che voi potete portare addirittura la sorpresa della gioia, della vostra fede, radicata in una capacità di amare, che trova forza e sorgente nel dono dello Spirito Santo. Dalla Pasqua di Cristo, dalla sua Croce, Pasqua e Croce che si rinnovano nel nostro quotidiano, a condividere il dolore di chi ci è caro e che diventa, ed è anzitutto e prima di tutto dolore nostro, tante volte anche più grande dolore dei genitori, e molto di più in loro che non nei figli che forse non ne hanno coscienza, mentre il genitore l’ha vivissima.
Ecco, che cosa la Chiesa deve anche imparare ad ascoltare da voi e dalla vostra vita e come ciascuno di noi insieme deve farsi carico di un cammino comune di solidarietà e la vicinanza di fedeli credenti ci deve convincere che ci è affidato il compito di difendere la dignità della vita che viene difesa, accettata, amata, promossa proprio là dove sembra meno comprensibile, meno significativa; mentre invece questo amore creativo, aiutato dalla solidarietà attiva e continua della comunità compie questi miracoli; non si compierà il miracolo del cieco nato, però si compiono dei miracoli che toccano davvero la società e hanno l’orizzonte dell’uomo nuovo, dell’uomo nato dalla forza del Battesimo e della Risurrezione di Gesù. Ecco come io vedo il vostro cammino.
È un cammino di cui voi conoscete meglio di me le enormi difficoltà quotidiane ma per il quale avete un grande supplemento di amore e di forza proprio nel vostro mettervi insieme. Io credo che questo cammino è destinato a dare ancora grandi doni alla Chiesa e alla società e a far camminare la chiesa stessa e le nostre comunità con un passo molto più rapido e serio, togliendole da tante secche e da tante stagnazioni nelle quali sono invischiate proprio perché non sono di fronte a problemi così seri e così gravi come i vostri. Quando ce li si mette davanti, allora la vita diventa anche più lineare perché cadono tante fantasie e tante inutili disquisizioni cedono di fronte a queste realtà più urgenti e più gravi che sono quelle che costituiscono l’umanità.
Questo è l’augurio, la preghiera che io faccio per voi, chiedendo al Signore che vi aiuti in questo ritiro di Assisi, in questi momenti di fede, a raccoglierne il messaggio e a pregare il Signore perché lo possa raccogliere anch’io.
di Carlo Maria Martini, Assisi, 1986
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Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.14, 1986
Sommario
Editoriale
Perché uno speciale di Mariangela Bertolini
Tenere più stretta la mano dei piccoli di Anna Cece
Quei tre giorni di Aprile di Sergio Sciascia
Il Card. Martini alla comunità Fede e Luce
“Perchè si manifestassero in lui le opere di Dio di Carlo Maria Martini
Dopo le parole di Martini di Luisa Nardini e GIuseppe Barluzzi
Siamo venuti ad Assisi per…
Io ho visto tante cose di Giuliana Loiudice
Assisi 1986, le fotografie
Alzati e ritrova la speranza di Jean Vanier
Grazie Francesco per essere venuto a camminare con noi di P. Enrico Cattaneo
Signore, fammi strumento della tua pace di Luisa Spada
È un’offerta unica di Mons. Goretti
Una grande profezia di Massimo e Marco
Punti di incontro: servire, giocare, lavorare, riflettere... di autori vari
Scendere le scale di Jean Vanier
Dopo Assisi di autori vari