Sento talvolta in voi un imbarazzo fatto di pudore, ma forse anche di vergogna, di rivolte o anche di avversione verso chi si prende tutte le attenzioni ed è un carico troppo pesante da portare.
Mio fratello minore era handicappato mentale lieve; era anche epilettico. Abitavamo in una fattoria, in campagna. A quell’epoca non esistevano quasi scuole né centri per handicappati, cosicché i nostri genitori furono costretti a tenerlo sempre a casa. Era molto sereno. Gli avevamo affidato diversi compiti: prendere le uova nel pollaio, dare il fieno ai cavalli, tagliare la legna. Era molto fiero di questi lavori e ne era sempre soddisfatto. Chiedeva solo un po’ di incoraggiamento e qualche soldo che conservava fino al giorno in cui poteva andare in città.
Era perfettamente accettato dai vicini e andava a trovarli ogni volta che lo desiderava. Se a casa a pranzo c’era qualcosa che non gli piaceva, andava a mangiare in un’altra famiglia. Gli animali gli si erano affezionati in maniera sorprendente: spesso rientrava in casa seguito da una processione di gatti e di cani che non sempre erano bene accolti.
Aveva anche una sensibilità singolare verso la volgarità: se qualcuno a suo parere era volgare o pesante, non gli parlava più. Non so come capisse certe espressioni usate, ma nel suo modo di capire non aveva dubbi.
Vorrei notare che tutti in famiglia avevamo per lui un grande affetto, forse più che per altri. Eravamo liberi da quell’inquietudine nervosa che si ha spesso nei confronti delle persone handicappate e degli epilettici. Avevamo imparato a capire il suo temperamento e gli sbalzi d’umore. Avremmo avuto bisogno di un aiuto professionale per lui e gli altri, ma era impossibile trovarne.
In seguito ho avuto la possibilità, come vescovo, di mettere in opera dei progetti per aiutare i deboli mentali. Avevo una conoscenza reale di queste persone e ciò mi dava una certa autorità quando se ne discuteva e mi attirava delle simpatie anche quando le persone «ufficiali» non erano convinte dalle mie argomentazioni. Cominciammo formando dei comitati. Poi furono aperte scuole per handicappati mentali, con l’aiuto del ministero dell’educazione. Io sapevo che gli handicappati mentali possono creare problemi nelle famiglie, così insistemmo che fra il corpo insegnante ci fossero delle assistenti sociali. Ottenemmo inoltre che i ragazzi ritornassero in famiglia per i fine-settimana. Avendo vissuto con mio fratello, mi erano ben noti i bisogni di questi ragazzi. So, ad esempio, come possono diventare irritanti quando hanno fame; perciò la comunità preparava un pasto caldo quotidiano per tutti, anche questo senza finanziamento pubblico.
Mio fratello è stato perciò anche causa di grande aiuto per gli altri e di buona convivenza fra vicini di casa.
Più tardi, con l’aiuto di alcune religiose, potemmo creare degli istituti per persone handicappate profondamente. Qui commettemmo un errore!
La «istituzione» era troppo importante, le condizioni di ordine economico diventavano troppo pesanti. Spero che ci sia servito di lezione. Così di recente, abbiamo avviato un laboratorio per adulti con annessa una casa famiglia gestita da religiosi. E difficile continuare a mettere al primo posto i problemi «non economici», ma con l’aiuto di Dio speriamo di riuscirci.
Intanto si cominciava a parlare, anche in modo un po’ strano, di ciò che facevamo nel Kilkenny; perciò chiesero a me e ai membri degli altri comitati di parlarne in pubblico, alla radio e alla televisione. Prese a circolare l’idea che noi avevamo raggiunto una specie di perfezione nell’opera intrapresa, ma noi sapevamo che si poteva far meglio. In ogni caso, le nostre parole incoraggiarono altri a cominciare o a continuare un’opera che pensavano destinata a fallire. Ci sentimmo abbastanza forti per chiedere aiuto allo stato in certe occasioni. E anche qui abbiamo incontrato persone molto umane.
Uno dei problemi dei genitori che avevamo costatato era che hanno bisogno di allontanarsi, di partire da casa ogni tanto, per uscire dalle tensioni inevitabili. Tutti i genitori devono poter evadere per qualche giorno dalla vita quotidiana monotona e difficile, hanno bisogno di alimentare la loro fede e la loro speranza. Inoltre c’è sempre inquietudine nel loro cuore su ciò che accadrà al figlio quando essi moriranno e quando i fratelli e le sorelle saranno sistemati nelle loro famiglie.
Mia madre, ad ogni primavera, andava a passare una settimana in un piccolo albergo di campagna. Lì c’era una cappella tranquilla e un cappellano molto paziente e stimato. Così essa trovava il tempo per parlare a lungo con lui e con le suore. Questo le era di grande giovamento, se non altro perché per un po’ di giorni non doveva preparare pranzi e cene per la famiglia. Questa esperienza mi diede l’idea di una piccola casa di ritiro per la mia diocesi. Qui le persone possono venire per un ritiro di alcuni giorni, possono pregare, chiedere consigli, assistere a una messa senza troppa fretta, raccontare i loro problemi…
Questo li aiuta a rinnovarsi nel vero senso della parola. Abbiamo abbandonato il vecchio schema di ritiro spirituale. Diamo più importanza all’insieme, che sia di ristoro e di conforto, ai cibi che siano ben preparati, alla preghiera condivisa, alla speranza religiosa. Il sacramento della penitenza è dato con calma, la messa viene celebrata con lentezza in modo che ciascuno possa pensare e pregare.
Sebbene indiretto, questo è un altro contributo che mio fratello ha dato alla comunità, trent’anni dopo la sua morte. Lui, non sapeva nulla di questo, certo, anche se credo che ora consideri la cosa con un certo interesse. Quanto a me, io non avevo mai pensato che un giorno avrei messo in pratica quanto avevo imparato vicino a lui; e i fatti che ho citato sono solo degli esempi.
Dio s’è servito di lui e, spero, di me, per tentare di migliorare gli atteggiamenti della società nei confronti delle persone gravate di un handicap mentale. Quindi la vita di Dick è lungi dall’essere stata inutile. Anzi, ci ha fatto pensare di più agli altri e so che le persone della mia famiglia — che sono ancora vive — riconoscono ancora oggi quanto debbono a lui.
Ho raccontato questa piccola storia non per vanto, ma solo perché i genitori di figli handicappati capiscano che, anche se non possono dare altro che amore ai loro figli, altri membri della loro famiglia saranno in seguito ispirati da questo amore. Più tardi se ne ricorderanno e saranno strumenti della pace di Dio in un angolo del mondo di Dio.
– Peter Birch, 1985
(O. et L. n. 32)
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.9, 1985
SOMMARIO
Editoriale
Voci di fratelli e sorelle di Mariangela Bertolini
Articoli
Care sorelle, cari fratelli vi scrivo di Marie-Odile Réthoré
Piano piano notai che Sergio era differente di Francesca
Non solo tutto l’anno, ma tutti gli anni di Paolo Nardini
Spesso però mi regala il suo prezioso sorriso F.M.
Forse per questo non sono andato via di Gianluca
Mio fratello era handicappato di Mons. Peter Birch
Ho scelto mio fratello di Franca Cremonesi
Ma dopo l'incontro non li vedo più di Elisabetta
"Crescere insieme" di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo aperto n. 9
Vita Fede e Luce n. 9
Libri
L’Abbé Pierre – Una mano tesa agli emarginati di Bernard Chevalier
La paura di amare – La persona handicappata nella società di Jean Vanier