Ho due fratelli miopatici, più grandi di me e due sorelle più piccole. Fin dai primi ricordi, trovavo del tutto normale che i miei fratelli non corressero come gli altri, salissero le scale con difficoltà; era naturale come è naturale l’intero universo.
Prima tristezza, prima angoscia: qualche parola sfuggita durante una conversazione dei miei genitori in una stanza vicina. Senza capire esattamente quello che dicevano, capivo che parlavano di me, che mi paragonavano ai miei fratelli. La parola «sintomo» ritornava spesso. Da allora, mi è capitato di provare del panico al pensiero che le mie forze, la mia agilità potessero diminuire come le loro. Lo temevo e avevo vergogna di temerlo.
In altre occasioni invece, mi sentivo a disagio nel riconoscermi il più forte, il più vigoroso anche se ero il più piccolo e trattenevo un’acrobazia o mi sforzavo di non correre come mi veniva spontaneo: restavo al di sotto delle mie possibilità. I miei genitori devono aver capito i miei sentimenti. Non saprò mai ringraziarli abbastanza di non aver accettato quel mio ritegno, anzi di avermi incoraggiato a progredire in ogni campo. Mi hanno spinto a fare ogni attività propria della mia età e non mi sono mai sentito obbligato a seguire il tipo di vita dei miei fratelli. Per questo, forse, non me ne sono andato di casa. E poi volevo troppo bene ai miei fratelli per farlo. Ero felice di poter partecipare a tutte le esigenze richieste dalla loro malattia: carrozzelle da spingere, mille servizi da fare.
Le mie sorelle sembravano più prese dalla sofferenza soprattutto da quando avevano capito che, sposandosi, avrebbero avuto molti rischi di generare figli miopatici. In fondo, ero il solo a passare indenne in mezzo al dramma: né colpito né trasmettitore dal momento che la malattia si trasmette solo per linea femminile. Bisognava poi far fronte alla commiserazione della gente, la cosa forse più dura. Spesso non c’è che una soluzione: la fuga. Gli amici che ci son rimasti sono persone che ci guardano per quello che siamo e non attraverso il prisma deformante di essere catalogati come famiglia di miopatici.
Ho scoperto poi che non c’è famiglia che non passi per la prova.
Ogni persona porta una croce, visibile o invisibile, segreta o ufficiale. Credo che questo mi abbia abituato a una sorta al rispetto per ogni persona, soprattutto per quelli che sono disprezzati. Che pena misteriosa in fondo alla loro miseria!
Penso anche che la prova specifica della mia famiglia mi abbia insegnato il servizio fraterno in modo abituale o quasi spontaneo. Infine, molto presto, ho visto in faccia la morte, nelle tante famiglie di miopatici con cui eravamo in contatto. Così ho capito che la vita è breve, che duri 17 o 70 anni. Allora perché sistemarci sulla terra come se fosse per l’eternità? I miei fratelli — soprattutto Benedetto che è ritornato al Signore dopo aver sofferto molto, e dopo aver offerto a noi tanta luce per come ha sopportato la sofferenza — mi hanno insegnato che l’importante nella vita non è la sua durata, ma l’uso che ne facciamo.
di Gianluca, 1985
(O. et. L. n. 38)
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.9, 1985
SOMMARIO
Editoriale
Voci di fratelli e sorelle di Mariangela Bertolini
Articoli
Care sorelle, cari fratelli vi scrivo di Marie-Odile Réthoré
Piano piano notai che Sergio era differente di Francesca
Non solo tutto l’anno, ma tutti gli anni di Paolo Nardini
Spesso però mi regala il suo prezioso sorriso F.M.
Forse per questo non sono andato via di Gianluca
Mio fratello era handicappato di Mons. Peter Birch
Ho scelto mio fratello di Franca Cremonesi
Ma dopo l'incontro non li vedo più di Elisabetta
"Crescere insieme" di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo aperto n. 9
Vita Fede e Luce n. 9
Libri
L’Abbé Pierre – Una mano tesa agli emarginati di Bernard Chevalier
La paura di amare – La persona handicappata nella società di Jean Vanier