«Ho 34 anni, una moglie adorata ed una splendida bambina, eppure per molto tempo la mia vita è stata un inferno; soltanto adesso comincio a migliorare».
È la confessione di Luigi, impiegato in un ente finanziario, alto, una precoce calvizie, apparentemente un romano come tanti che si incontrano sulla metropolitana che da Cinecittà scarica ogni mattina migliaia di lavoratori nel centro cittadino. Ma Luigi non si sente come gli altri, ha pensato (e tentato) il suicidio, continua una lunga cura presso uno psicologo.
La ragione? È malato di epilessia. Nessuno se ne accorge, a meno di non far caso ad una specie di lievissimo tic, ad una brevissima interruzione dei movimenti e della parola, a una leggera «assenza», che avviene di quando in quando e sfugge a un osservatore che non sia molto attento. Eppure fin dall’infanzia gli è stato stampigliato addosso il marchio di «epilettico», è stato considerato la vergogna della famiglia, mentre è una persona assolutamente normale, dolce e spigolosa, grosso modo come ognuno di noi. «Per parecchi anni, in ufficio, ho portato sempre gli occhiali neri, senza levarmeli durante il lavoro, sperando che i colleghi non si accorgessero delle mie «assenze, di quando rimango con gli occhi fissi», spiega.
Oggi sta meglio e lo deve anche all’essersi impegnato, con altre persone, malate e non, a fondare un’associazione volontaria, l’Associazione Laziale per la Lotta contro l’Epilessia. Se infatti è necessario migliorare l’assistenza medica, diventa altrettanto indispensabile combattere contro la montagna di pregiudizi che in millenni si è accumulata sopra questa malattia e su chi ne soffre, costretto per di più ad affrontare gratuite difficoltà in famiglia, a scuola, sul lavoro e nella normale vita di relazione. Proprio questo è l’obiettivo dell’associazione. Difficoltà che si manifestano anche nelle occasioni più banali. «Solo a 32 anni ho bevuto il primo caffè della mia vita, al termine di una riunione del consiglio direttivo dell’associazione. Mi avevano messo in testa che il caffè fa male a chi soffre di epilessia». Naturalmente non è per nulla vero.
Una malattia che «lascia un segno», quindi, anche se oggi può essere guarita o tenuta perfettamente sotto controllo nella maggior parte dei casi. Ma l’aggettivo che ne deriva, «epilettico», continua ad essere un marchio. Chiamare «cardiopatico» una persona che non soffre di cuore non provoca alcuna reazione, così come dare del «diabetico» a chi ha nel sangue un normale tasso di zucchero. Ma dite «epilettico» a qualcuno e ne provocherete subito il risentimento.
Una persona che si agita in modo scomposto, che ha un atteggiamento «strano» subito viene marchiata con quella parola, il cui significato preciso è sconosciuto a chi la usa e che ha perduto il significato medico per diventare quasi un dispregiativo di uso corrente. Praticamente, per un’eredità del passato (quando epilettico era sinonimo di «indemoniato») e per una mancata informazione della società odierna, nasce un «handicap». Come il marchio impresso sulla pelle di un animale serve a distinguerlo in mezzo alla mandria di un altro padrone, così la parola «epilettico» serve a distinguere dal mondo dei normali. Chi ha il marchio non fa il militare (come se tutti i soldati dovessero essere piloti da caccia), non può avere la patente (tutti sanno quante malattie veramente pericolose non sono considerate nella cosiddetta «visita medica» nelle autoscuole), non può essere assicurato contro gli infortuni (come se un vaso da fiori cadendo da una finestra discriminasse tra sani e malati), rischia di non trovare lavoro e di non finire gli studi.
Nasce così la più grande preoccupazione di chi soffre o ha sofferto di epilessia: nascondere agli altri le sue condizioni attuali o il suo passato. Gli sono complici, inconsciamente o no, gli stessi familiari, i quali si rifiutano di ammettere la realtà, come se ancor oggi fosse valido il concetto, vecchio di millenni, di malattia «sacra», legata cioè agli incomprensibili voleri della divinità. La prima persona da convincere per superare questo pregiudizio è lo stesso malato, incapace da solo di superare l’invisibile barriera che lo circonda, anche perché gli stessi familiari gli hanno creato intorno un guscio protettivo nel quale è comodo rinchiudersi.
Il finto «handicap» si può superare e non è il caso di ricorrere a esempi storici come Giulio Cesare o lo scrittore Dostoevskij. Malati o ex malati sono riusciti a raggiungere, e a mantenere, posizioni di rilievo o di assoluta normalità nella società, anche se spesso nascondendo la loro situazione.
I pregiudizi da superare – perché soltanto di questo si tratta – e le difficoltà burocratiche e legislative da travolgere sono in gran numero, ma l’obiettivo non è impossibile. Lo dimostrano i risultati che si sono ottenuti da quando, poco più di dieci anni fa, è nata in Italia la prima Associazione regionale per la lotta contro l’epilessia, quella lombarda. Come è stato detto più volte, bisogna far capire, prima al malato e poi a tutti gli altri, che «essere epilettico è soltanto un modo di essere normale».
– di Giuseppe Cultrera, Pres. dell’Associazione Laziale per la lotta contro l’epilessia, 1985
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.10, 1985
Sommario
Editoriale
Vi ricordiamo perché di Mariangela Bertolini
Dossier Epilessia
Una malattia che imprime un marchio di Giuseppe Cultrera
Epilessia: una malattia neurologica ancora sconosciuta di Giulio Sideri
Epilessia: indicazioni di primo intervento
Epilessia in famiglia e a scuola di una mamma e Anna Manfredi
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