È senza dubbio vero che l’inserimento scolastico permette ai bambini portatori di handicap e a quelli che non lo sono di imparare a vivere insieme. È vero che i genitori di un bambino handicappato sono molto sollevati, nella dura prova che li schiaccia, dal fatto che il loro figliolo potrà andare a scuola con gli altri bambini: alla scuola normale e non, come un tempo, alla scuola speciale. È vero che l’integrazione nella società passa innanzitutto da questo primo impatto – imposto dalla legge in questi ultimi anni (siamo nel 1983 N.d.R.) – sostenuto o criticato, accettato o mal digerito che esso sia. Tutto questo è vero e siamo d’accordo in linea di principio.
Ma, quanti “ma” si sono accumulati in questi anni di “prova”; quante telefonate, quanti dubbi, quanti ripensamenti ci vengono da genitori e insegnanti, preoccupati gli uni e gli altri delle difficoltà, degli ostacoli e delle delusioni incontrate.
Basta “socializzare” per educare? Basta trovarsi con altri bambini normali per imparare? e che cosa? E che cosa avviene quando il bambino è troppo agitato, perturbato o troppo passivo? Che cosa può fare un’insegnante quando il compito datogli oltrepassa di gran lunga la sua preparazione specifica, le sue capacità e la sua buona volontà e quella dei suoi generosi scolari?
Che cosa ci sta a fare un ragazzino di 13 o 14 anni che non sa ancora né leggere né scrivere in una classe delle medie?
E come aiutare un bambino, al quale è così necessario diventare autonomo (mangiare da solo, svestirsi e vestirsi da solo, andare al bagno da solo) in una classe dove si deve insegnare a leggere, scrivere e far di conto?
E peggio, dopo aver raggiunto il sospiratissimo traguardo della III media, dove andare, che cosa fare?
A 15 anni, con un illusorio diploma di III media, ma senza saper né leggere né scrivere , non è facile trovare un lavoro che non si è imparato a fare.
Le mamme che mi telefonano mi chiedono soluzioni che non so dove trovare. Ho una gran pena nel cuore, un gran desiderio di poterle aiutare. Non posso dir loro in faccia: «Signora, purtroppo, per “loro” non c’è niente». E non oso mandarle di qua e di là a far richieste che possono avere solo risposte negative.
E allora?
Tornare indietro naturalmente non si può, sarebbe sbagliato, ma nemmeno si può a 15 anni tornare a casa per rimanerci a «far niente».
Chiediamo ai nostri lettori di mandarci il loro parere in proposito, di raccontarci quanto di positivo hanno trovato nella loro esperienza dell’integrazione e perché e dove. Cercheremo insieme di definire quanto di positivo, e quanto di sbagliato c’è nell’integrazione scolastica come è stata attuata, scoprendo gli aspetti di una verità che può essere dura da dire, ma ancor più da vivere.
I due articoli sulla scuola che vi proponiamo in questo numero (qui e qui) sono un esempio fra le tante soluzioni che si possono trovare e che bisogna con urgenza sollecitare: soluzioni diverse, adatte, integrate o meno… quello che importa è non far cadere ancora una volta sui più deboli una politica scolastica che non sembra tener conto a sufficienza del «bene» e della «dignità» della persona handicappata e del suo diritto ad essere educata tenuto conto della sua diversità.
– di Mariangela Bertolini, 1984
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.7, 1984
SOMMARIO
Editoriale
Una verità difficile a dirsi di Mariangela Bertolini
Scuola
Un uovo, due uova di M. Grazia Granbassi
Classe "azzurro" di Madeleine Toussaint
Articoli
Quel lupo dentro noi di Jean Vanier
Il volontariato di Nicole Schulthes
Il nostro cucciolo di due metri di Betti Collino
Casa Jada di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo aperto n. 7
Vita Fede e Luce n. 7 - Il convegno internazionale
Libri
Li fece uomo e donna, Jean Vanier