Avete mai visto un vecchietto che, al bordo di una stradina abbastanza solitaria nei pressi di una fontanella, lava la sua vecchia e stanca «850»? Lustra, pulisce, ripara le ammaccature, ripassa quanto ha pulito un momento prima, quindi si sposta un poco cercando di inquadrarla tutta per vedere a colpo d’occhio se ha sbavature o parti non lustrate bene. Compie questa operazione con amore, con fervore ma anche con grande lavoro e fatica, tanto che ad opera compiuta è assai stanco ma contento. Contento di aver mantenuto alta la dignità della sua utilitaria pensando oltrettutto che così fatto — macchina e autista — potranno tener testa alle altre macchine, più nuove e scattanti ma principalmente più sane. Ecco, questo è quanto un genitore deve fare e fa per tenere alta la dignità del proprio figlio o figlia portatore di handicap. Lava, pulisce, cambia, cerca sempre — giorno e notte — di migliorare le possibilità che ha, perché sa che il giorno dopo i sani scarterebbero quell’utilitaria umana se non fosse alla loro altezza o se desse loro fastidio con una presenza sbavata e non dignitosamente presentabile e concorrenziale. Spesso ci si abitua ad avere un figlio con problemi; capita pure di vedere chi si adagia su questa disgrazia, che si commisera e chi è talmente «tiepido» da fare un danno incommensurabile al portatore di handicap. Per questa tiepidezza non si dà l’aiuto necessario all’inserimento nella società, si preclude la promozione per raggiungere quanto è possibile raggiungere, si esclude qualsiasi possibilità di autonomia, necessità primaria per continuare a vivere, soprattutto quando la fonte di sostegno della persona handicappata viene a mancare. Ed è per questo che un genitore, quando fa tutto il necessario, è genitore due volte, perché vive anche l’«altra parte della vita».
Dopo questo «flash» a significare gli sforzi che un genitore deve fare verso il proprio figlio, racconterò brevemente alcune parti della mia vita che, con l’aiuto del Signore, ho vissuto e vivo con i miei figli. Forse per la prima volta, dopo tredici anni di matrimonio, mia moglie Evelina, io e, voglio credere, Paolo, siamo felici. Senz’altro lo ero anche prima, ma le circostanze che ero costretto a combattere ottenebravano la mia consapevolezza della felicità. Il mio primo figlio, Paolo, è nato con un ritardo psico-motorio di cui ci rendemmo conto troppo tardi per curarlo convenientemente. La medicina, per quanti progressi abbia fatto, e gli sforzi che io e mia moglie abbiamo cercato di compiere non hanno permesso di diagnosticare tempestivamente la sua malattia. Solo a sei anni e mezzo sapemmo che aveva avuto un idrocefalo ormai compensato che aveva leso le parti essenziali del cervello. Anche oggi, dopo lunghe e costose cure, non parla e non cammina molto bene; è un ragazzo handicappato. Certo, capiva di avere una sorellina speciale — Francesca — alla quale manifestava tutta la sua gioia, alla sua maniera. Perché, dopo molte esitazioni, avevamo deciso di dare una sorellina a Paolo: era nata una bambina, anch’essa con molti problemi. Purtroppo, la sfortuna, il destino o il disegno di Dio volle che anche Francesca fosse handicappata. Aveva una complessa malformazione alle ossa causata da una sindrome molto rara, anzi direi rarissima. Era tuttavia molto intelligente ed era la nostra consolazione, era di stimolo a Paolo e per noi genitori una fonte di meraviglia quotidiana, addirittura avevamo impostato su di lei il futuro della nostra famiglia e specialmente quello di Paolo. A quattro anni aveva già subito undici operazioni e aveva ricevuto un innesto osseo da uno di noi due genitori. La bimba migliorava, benché lentamente; aveva un bustino, frutto di una nostra ricerca, che le teneva dritta la colonna vertebrale. Una operazione le aveva offeso ancora di più una gamba, facendola crescere meno dell’altra, le braccine non si estendevano del tutto. A Lourdes, dopo aver fatto il bagno nella vasca, rivolgendosi alla Madonna, se ne uscì fuori con una frase meravigliosa: «Madonnina, fai parlare Paolo e a me fammi camminare!».
Già da allora prendemmo coscienza di questa felicità. Si, questi figli ci rendevano felici. Ma Francesca morì. Morì di polmonite. Il Signore ha voluto trasformare nei nostri cuori questo fatto, così atroce a subirsi in amore e, sostenuti dalla fede, ci diede la forza di proseguire e di riprendere a vivere e a sperare. Dopo questa «botta» (così si dice), abbiamo voluto un altro figlio. È nato Stefano, inno alla vita, segno dell’immensità di Dio, ma anche frutto di qualcosa di più grande che è la filiazione divina. Un Padre non abbandona il figlio — mai. Nell’attesa eravamo, Evelina ed io, molto trepidanti ma fiduciosi. Molti di voi direbbero incoscienti. Ma io voglio spiegarvi. La nostra serenità durante i nove mesi era dovuta non tanto ai numerosi e rassicuranti verdetti medici che dicevano essere le due malformazioni non correlate tra loro ed ai quali credevo relativamente (come ho detto la medicina è molto indietro), ma alla consapevolezza che l’eventualità di un’altra nascita anomala ci avrebbe trovati pronti ad accettarla ed accoglierla con la stessa gioia con la quale vi sto narrando la nascita di Stefano. La vita è una cosa meravigliosa ed anche la vita di un handicappato ha un suo significato umano e cristiano che può riempire la vita di un uomo che sappia trasformare la disperazione, la rassegnazione in un nuovo empito di vita. Posso assicurarvi che oggi provo la stessa gioia per Stefano che ho provato quando sono nati Francesca e Paolo. La nascita di Stefano potrà farci meglio comprendere Paolo, che è il nostro grande punto di riferimento, mentre abbiamo la consapevolezza che Francesca sarà sempre con noi e veglierà per noi tutti i giorni. Non molto tempo fa, ho allestito per l’Associazione che rappresento, uno stand ad una manifestazione fieristica, usando legno e mattoni, semplici mattoni, alcuni interi altri a metà. A chi mi domandava il significato, rispondevo semplicemente: «ci sono mattoni sani e mezzi mattoni, e tutti e due concorrono a fare il muro di sostegno, anzi il mezzo mattone era testata d’angolo» e che il muratore mettendoli bene insieme dava ad entrambi, con la sua opera, la dignità che gli spettava. – di Roberto Mezzaroma, 1984
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.8, 1984
SOMMARIO
Editoriale
Ritrovarsi genitore di un bambino handicappato di Marie Hélène Mathieu
Articoli
Essere forti per lei di J. Michel e F. Bouchoud
Ed era la nostra consolazione di Roberto Mezzaroma
Natale del mio cuore di Camille Proffit
So quel che non bisogna fare Intervista a Marie-Odile Réthoré
E gli altri figli? Bisogna a ogni costo che... di Marie-Odile Réthoré
Prima che sia tardi di Sergio Sciascia