Stabili, appoggiate da un gruppo impegnato a provvedere alle sue necessità, ben organizzate, le Case-famiglia dell’OAMI sono una soluzione umana e integrata nella società al problema delle persone handicappate (principalmente fisiche per ora) quando devono lasciare la loro casa
Siamo andati a conoscere una casa famiglia dell’OAMI. E’ il nostro primo incontro con l’Opera Assistenza Malati Impediti. Vi portiamo a questo incontro prima di parlare dell’opera.
L’indirizzo di Casa Jada è Via Pomeria 105, nella zona centrale di Prato in Toscana. Casa Jada è una delle tredici case dell’Opera: ha cominciato a vivere all’inizio del 1984.
La casa, piacevole fuori, dentro è addirittura bella, ristrutturata, rifinita, e arredata in maniera funzionale, con gusto e senza lesinare. Potrebbe sembrare un lusso — spiega Giuditta, responsabile della casa, anticipando un commento evidentemente già sentito — ma in questi locali la «famiglia» trascorre quasi tutta la vita, perciò è giusto, quasi necessario al clima della casa, che sia funzionale, rasserenante, piacevole.
Nel soggiorno incontriamo i componenti della famiglia, nove donne handicappate, principalmente fisiche, qualcuna autosufficiente. (Ci sono inoltre tre assistenti). Lavorano, come possono, attorno a un grande tavolo: lavori di maglia, pupazzi, ricami, ecc. Diversi, finiti, sono nello scaffale o esposti nell’entrata.
Il clima è sereno, l’incontro spontaneo. Certo, si intuisce che delle volte non sarà tanto facile vivere in queste famiglie… Ma poi, in quante famiglie la vita è sempre facile e allegra?
L’opera ha moltissime richieste e sceglie le persone più gravi, più abbandonate, purché abbiano le qualità per vivere in piccole comunità, dando vita a un ambiente familiare, a una convivenza positiva per tutti.
I contatti con l’esterno sono frequenti: vengono gli amici, alcune frequentano la piscina comunale, escono nei limiti delle possibilità.
Parliamo con la responsabile e col signor Sergio.
Sergio, cordiale, attivo, è un pensionato che viene tutti i giorni. Unica figura maschile, dotato di capacità ed esperienza, ha un’evidente funzione equilibratrice, oltreché pratica. Fa un po’ da padre. (Incontrarlo, richiama alla mente l’enorme potenzialità inusata di tanti pensionati, efficienti, maturati dalla vita e dal lavoro, che potrebbero dare un aiuto decisivo… Ma questo è un argomento a parte).
Nascita e organizzazione
Casa Jada è .nata come le altre case. Un gruppo di volontari (fanno anche assistenza domiciliare) considera mature le condizioni tutt’altro che facili, per aprire una casa-famiglia. Spesso l’impulso iniziale è dato dalla disponibilità di una casa. Per esempio, questa di Prato è stata donata da una signora in memoria della madre, Jada, che ne era proprietaria. Per citare un altro esempio: la Casa-famiglia OAMI di Caltanissetta è un’ala risistemata della vecchia abbazia benedettina di S. Flavia.
Quindi, il gruppo promotore si dedica alla raccolta dei fondi, nei modi più diversi. Qui a Prato, per dirne uno, sono anche stati dati due spettacoli di danza classica, che hanno fruttato sei milioni. Provvede quindi ai lavori di riadattamento e alle questioni burocratiche. Infine la casa è aperta con una festa.
La Casa-famiglia è la parte visibile, ma la parte non visibile è ampia ed essenziale. C’è il gruppo di volontari e amici impegnato a sostenere la casa in tutte le sue esigenze. Per esempio la Casa-famiglia più recente, per handicappati gravi, presso la parrocchia Santa Lucia di Cagliari, è fondata sull’impegno di un centinaio di volontari, fra i quali numerosi medici specialisti, infermieri, artigiani e operai. Per ogni casa c’è poi un consiglio di amministrazione e il consiglio di famiglia, composto di tutti i componenti della «famiglia».
L’OAMI è un ente morale. Fondatore e animatore è un sacerdote, Mons. Enrico Nardi.
L’idea portante è il cristianesimo, quello del servizio, della carità senza la quale la fede è vana.
La pratica è guidata da un’organizzazione seria: le vite delle persone, specie delle handicappate, non si possono gestire alla leggera, in modo provvisorio.
Per questo è lunga, laboriosa e complessa la nascita di ogni nuova casa, che dovrà reggersi con il sostegno del suo gruppo fondatore e sostenitore.
Per questo l’OAMI ha una casa a San Giovanni Valdarno per preparare gli Assistenti, anzi le assistenti, visto che sono in genere donne.
Per questo, infine, sono accettate all’entrata persone handicappate fra 15 e 40 anni, che resteranno poi tutta la vita: più anziane non avrebbero, si teme, l’elasticità per integrarsi e formare una «famiglia».
Di solito le case non hanno finanziamento pubblico e vivono con parte delle pensioni di invalidità dei «familiari», oltre che con il denaro procurato dal gruppo sostenitore.
Due delle case sono per vacanze.
Per ora le case sono quasi tutte femminili…
Più del pane
Sul piano umano le Case-famiglia dell’OAMI rispondono al problema più angoscioso del mondo dell’handicap (che cosa sarà di mio figlio quando io non sarò più?) e realizza quella partecipazione dei «normali» alla vita delle persone handicappate, che è la chiave di ogni soluzione umana del problema.
La soluzione della casa-famiglia per la vita della persona handicappata, come è concepita dall’OAMI, evita la soluzione deprimente e sempre un po’ disumana, dei grandi concentramenti di persone handicappate che vivono insieme, ma offre anche quei caratteri di stabilità e sicurezza propri dei grandi istituti.
Il movente dell’opera è religioso — lo statuto impone che a dirigerla sia un sacerdote — ma la pratica religiosa non è un obbligo nella case, né è discriminante per l’ammissione. In alcune case la «famiglia» decide di vivere un momento di riflessione e di fede ogni giorno, in altre no. Com’è lontana la Messa obbligatoria, la devozione come tassa! E come si sente il cristianesimo vivente nella casa Jada, nella sua piccola cappella!
Quando andiamo via ci salutano con affetto, ci chiedono di tornare: per queste persone i rapporti umani, la condivisione di vita sono importanti più del pane.
di Sergio Sciascia, 1984
Sergio Sciascia, nasce a Torino nel 1937 ma si trasferisce a Roma con la famiglia pochi anni dopo. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per lo scrivere e per il capire le cose che lo circondano, e di questi due aspetti farà il mestiere di una vita. Una collega, amica della primissima Fede e Luce romana, mette in contatto Sergio con Mariangela Bertolini e con l’idea di trasformare il ciclostilato “Insieme”che legava le poche comunità italiane di Fede e Luce in qualcosa di più. Era l’autunno del 1981. Nasceva Ombre e Luci e Sergio accettava di esserne il direttore responsabile.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.7, 1984
SOMMARIO
Editoriale
Una verità difficile a dirsi di Mariangela Bertolini
Scuola
Un uovo, due uova di M. Grazia Granbassi
Classe "azzurro" di Madeleine Toussaint
Articoli
Quel lupo dentro noi di Jean Vanier
Il volontariato di Nicole Schulthes
Il nostro cucciolo di due metri di Betti Collino
Casa Jada di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo aperto n. 7
Vita Fede e Luce n. 7 - Il convegno internazionale
Libri
Li fece uomo e donna, Jean Vanier