Partecipano le persone handicappate mentali alla vita delle parrocchie, alle comunità liturgiche di Roma? Alcune parrocchie hanno accolto con entusiasmo, altre sono in benevola attesa, altre stentano ad aprirsi. La differenza è data spesso dalla presenza di un Gruppo handicappati mentali?
Andando all’appuntamento col primo dei parroci romani con i quali ho parlato per fare questa piccola inchiesta, avevo in mente idee e domande che mi ero formate e preparate, ma su tutte dominava il ricordo di un minuto di sei anni fa. Quel ricordo è stato per me lo sfondo delle domande e dei colloqui; inoltre credo che un’esperienza simile sia toccata a molti di quelli che vanno a messa, perciò comincio con quel minuto di sei anni fa.
In una decorosa chiesa romana la messa di mezzogiorno era al Credo.
«Credo in Dio, Padre onnipotente…» si cominciò a vociare insieme, quando riempì la chiesa un grido, diverso dai soliti, un grido — oggi non mi verrebbe in mente di definirlo così — un grido da matto, pensai.
Tutti girammo la testa, gli sguardi come spilli verso un polo di calamita, alla fonte del rumore che non vedevamo perché eravamo in piedi. Il grido tornava sempre uguale, dopo silenzi uguali per riprendere fiato.
Dopo qualche parola stentata il Credo si era spento. Salii in piedi sull’inginocchiatoio per vedere. Attraverso il silenzio della gente venivano, a passi svelti svelti per il corridoio fra i banchi un uomo, una donna e il «matto» sulla sedia a ruote. Buttava indietro la testa prendendo fiato e si buttava in avanti gridando. La donna cercava di frenare l’oscillazione del figlio, l’uomo spingeva: tenevano gli occhi fissi sulla carrozzella e tutti noi guardavamo loro.
Ecco, è questa realtà degli sguardi, intangibile, ma in quel momento più concreta del pavimento di marmo sul quale eravamo, che vorrei rendere: erano come un’acqua che spinge una barca chiusa.
Uscirono. Ricominciò il Credo, con meno voci perché in molti si bisbigliavano commenti.
Oggi, a Roma, come sono accolte le persone handicappate mentali nelle comunità parrocchiali? Nelle comunità liturgiche? Che problemi pongono? Come reagiscono i parrocchiani e che cosa fanno i parroci? Lo chiedo in sei parrocchie, in ambienti sociali diversi.
Una prima risposta generale che ricavo dagli incontri è che oggi nessun parroco, nessuna comunità parrocchiale respinge le persone handicappate mentali. Alcune comunità vanno a cercarle, le avvicinano; altre hanno avuto rari contatti e sono in posizione di benevola passività.
Ho un solo dubbio. Lo espongo così com’è nato dalla telefonata con la quale chiedevo a don Gianni, parroco della chiesa di Santa Chiara — zona Cassia, di alti redditi — un breve colloquio.
Don Gianni non ha assolutamente tempo.
«Di quattro sacerdoti che eravamo, siamo rimasti in due», mi spiega al telefono, dopo che gli ho detto che avrei voluto conoscere la sua esperienza di parroco e le sue impressioni di sacerdote sull’accoglienza degli handicappati mentali nella comunità parrocchiale. Ha una voce ben modulata; butta lì un riferimento a Marx: sono bersagliati, affogati di indagini e sondaggi.
Mi basta un quarto d’ora, scelga lei il momento.
E’ proprio spiacente ma non possono. Casomai a maggio o a giugno: allora sì, di tutto cuore. Lo ringrazio: quattro mesi sono troppi. E mi lasciano un dubbio.
Passiamo a Santa Maria Madre della Provvidenza a Donna Olimpia, zona popolare.
Problemi di accoglienza nella comunità parrocchiale Don Pietro non ne ha mai avuti, almeno per quei pochi handicappati che sono capitati. Due ragazzi sono nel reparto Scout. Di recente una bambina ha fatto la Prima Comunione in chiesa.
Ha usato una particolare pedagogia per la preparazione?
Il parroco sembra sorpreso dell’esistenza di modi specifici di catechesi per l’handicappato mentale. Quella bambina — racconta — fu preparata da una catechista che divenne anche sua amica: andava a trovarla spesso.
Mi è capitato un solo caso — dice — di handicappato, e in realtà più un randagio o un abbandonato, che si comportava in modo strano in chiesa. Talvolta straparlava, rispondeva col vocione quando capitava a messa. Andai un paio di volte per farlo uscire di prigione. Io non davo segni di insofferenza, perciò anche i fedeli presenti si abituavano a lui. Ora è un po’ che non lo vedo.
In questa parrocchia — conclude — chiunque è accolto. Se ci fosse qualche reazione tra i fedeli spiegherei loro la situazione.
Salutandolo, gli dico che, se non capitano handicappati e loro genitori in chiesa, forse è perché non riescono a superare la barriera incisa nelle loro menti da un lungo passato di rifiuti, di sguardi, di vergogna, di scarsa carità insomma. Sapendo che esistono, forse bisognerebbe fare i primi passi, andarli a chiamare, pur con tutta la delicatezza. Mi sembra onestamente convinto benché sia chiaro che è la prima volta che il problema gli viene presentato in quei termini.
La stessa impressione dà Don Luigi, Parroco di S. Maria Regina Pacis a Monteverde Vecchio: il compito pastorale di andare a chiamare «gli ultimi», le «pietre scartate dai costruttori» non gli si è presentato, come anche il problema di accogliere persone handicappate mentali nella comunità liturgica.
«Questo quartiere — spiega — è medioborghese e piuttosto tradizionale. In genere la famiglia è una comunità più proiettata all’interno che all’esterno. La discrezione è una delle sue norme, perciò le famiglie con handicappati mentali non li portano molto fuori».
«Noi sacerdoti riusciamo a scoprirne un certo numero quando entriamo nelle case per la benedizione pasquale. Tuttavia pochissimi si sono avvicinati alla parrocchia, perciò problemi di accoglienza di handicappati nella comunità parrocchiale non ne abbiamo avuti. Io come parroco ne vorrei di più di questi «problemi», cioè di famiglie di handicappati che si accostano alla vita della parrocchia. Quando vorranno partecipare alla messa li accoglierò con gioia.
Per ora si è formato un gruppo di amici di handicappati che si incontrano ogni due settimane, fra essi sono tre handicappati mentali.
Sembra che l’entrata di persone handicappate mentali nella vita della parrocchia passi sempre attraverso la formazione di un «gruppo di amici di handicappati» che cresce invitandoli, conoscendoli, imparando a voler loro bene e poi stimola la comunità parrocchiale, preti compresi, ad accettarli pienamente, poi a farne soggetti privilegiati delle liturgie. E non per pietà, ma per coerenza col Vangelo.
E’ la vicenda della Parrocchia di S. Pio V all’Aurelio.
Da otto anni il Gruppo Assistenza Handicappati (GAH) raccoglie ogni settimana persone handicappate mentali per far amicizia, per giocare, per suonare; e poi, crescendo col tempo l’attività, per fare ginnastica, gite, campeggi, sacre rappresentazioni.
Con la parrocchia si dovette rompere il ghiaccio — racconta uno degli iniziatori — ma oggi…
Oggi il parroco Don Edoardo e il vice-parroco Don Virgilio mi parlano con entusiasmo della partecipazione degli handicappati mentali nella comunità parrocchiale. Dal loro coinvolgimento sono derivati solo effetti positivi. Dal gruppo «GAH» ha preso le mosse un lavoro di sensibilizzazione a livello di fede. Oggi il gruppo anima la messa principale della Domenica e naturalmente ha accesso come tutti ai sacramenti.
Quando nel ’79 il Papa visitò la parrocchia, si trattenne a lungo in stanza col gruppo.
Don Edoardo e don Virgilio fanno a gara nel descrivere le iniziative del gruppo: rappresentazione della Natività (con una espressività e una forza di fede sorprendenti, specifica don Edoardo), animazione della Via Crucis pre-Pasquale, costruzione del presepio: l’ultimo per finanziare le attività del GAH ha ricevuto dai parrocchiani offerte cospicue. Si sente da come parlano che anche loro sono cresciuti per la presenza di quel gruppo e ne sono consapevoli.
«Per imparare a comunicare con loro, per trasmettere gli elementi più importanti della fede, abbiamo preso lezioni da insegnanti specializzati — mi dice don Edoardo».
Mi pare una delle note più interessanti di questa ricerca.
«Nessuno ci ha preparato a questo problema» si giustifica don Pino, viceparroco di S. Giuseppe a via Boccea. Esprime la più grande apertura alla partecipazione delle persone handicappate mentali, anche se finora il problema della loro piena partecipazione non si è presentato. Proprio in questa settimana si sta formando un gruppo di amici di handicappati, ispirato dal GAH di San Pio V.
Chiedo se sono andati a cercare persone handicappate mentali.
«Noi preti non possiamo far tutto», risponde.
Anche questa visita conferma che le comunità parrocchiali si aprono quando un gruppo handicappati cresce, lavora, spinge, converte.
«Problemi di partecipazione degli handicappati? Come son cambiato io, come parroco? C’è ben poco da dire — comincia don Antonio, parroco di Santa Silvia al Portuense.
Poi, dapprima stentatamente, comincia a parlare, si scalda e viene fuori la storia della crescita di una comunità anche attorno a un gruppo handicappati. Questa volta un gruppo Fede e Luce.
L’avvio fu difficile. «Non eravamo stati preparati ad accogliere serenamente gli handicappati. Non avevamo formazione, né sensibilità». «Il primo impatto ti lascia “così”. Poi ci si lavora su, si cresce».
Quando vennero alla messa, i fedeli dapprima manifestarono sorpresa, fastidio qualcuno; dopo venne l’accettazione, prima passiva, poi amichevole.
Oggi il gruppo si incontra la Domenica alla messa delle 12 e una volta al mese fanno la festa.
«Io quando visito famiglie in cui sono persone handicappate mentali propongo sempre Fede e Luce. Spesso incontro diffidenza, ma quelli che si decidono a venire sentono l’amicizia, la fraternità: si aprono, parlano, cantano, ballano».
«Qualche problema può presentare la preparazione degli amici: alcuni accettano gli handicappati mentali e avviano un rapporto di amicizia, altri non ce la fanno».
«Di strada ne abbiamo fatta. Difficile anche. Quando si trattò di dar la Comunione a Francesca, una bambina che secondo le nostre norme non aveva uso di ragione – il che rendeva impossibile soddisfare le due condizioni di comunicarsi (l’intendere e il volere) – arrivammo con una lettera alla Congregazione dei Riti e poi, appoggiati dai Vescovi francesi, al Papa. Paolo VI disse sì».
«Oggi conclude don Antonino — la partecipazione degli handicappati, l’attività di Fede e Luce, è un punto centrale della comunità parrocchiale. Non per usarli come strumenti di pastorale — sottolinea — sarebbe a fin di bene, ma anche un errore psicologico. Non siamo con loro per conquiste missionarie, per convertire: siamo con loro per fraternità».
Mi sembra una distinzione importante: la tentazione della pietà, della dimostrazione di carità, è sempre in agguato.
E’ il tema di Don Tonino, parroco della chiesa dei Protomartiri: anche in questa Parrocchia gli handicappati mentali sono più che accettati. Infatti vi opera un gruppo di Fede e Luce.
«L’anima è uguale per tutti — mi dice semplicemente — anche se è imprigionata in un corpo che non risponde».
«I sacramenti si ricevono nella fede: quella chi può conoscerla? chi può sindacarla?»
«Qualcuno mi chiedeva: che gliela dai a fare la Comunione e la Cresima, se non capiscono? A questo penserà Dio!» dice sereno. Anche lui ha percorso la via.
-di Sergio Sciascia
Sergio Sciascia, nasce a Torino nel 1937 ma si trasferisce a Roma con la famiglia pochi anni dopo. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per lo scrivere e per il capire le cose che lo circondano, e di questi due aspetti farà il mestiere di una vita. Una collega, amica della primissima Fede e Luce romana, mette in contatto Sergio con Mariangela Bertolini e con l’idea di trasformare il ciclostilato “Insieme”che legava le poche comunità italiane di Fede e Luce in qualcosa di più. Era l’autunno del 1981. Nasceva Ombre e Luci e Sergio accettava di esserne il direttore responsabile.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.5, 1984
SOMMARIO
Editoriale
Nessuno escluso di Carlo Maria Martini
Perché lontano da Dio di Mariangela Bertolini
Articoli
"Lei non entra" di Olga Gammarelli
Come le altre domeniche Anna di J.F
Basta la porta aperta (domande in 6 parrocchie) di Sergio Sciascia
Cosa dirvi di più di Stéphane Desmasièrez
Chiediamo alle comunità religiose di Henri Faivre
Cottolengo e Don Guanella - pregiudizi e realtà di Nicole Schulthes
Rubriche
Dialogo aperto n. 5
Vita Fede e Luce n. 5
Libri
Dare a ciascuno una voce, Carlo M. Martini