E dopo? Dopo di questi ragazzi — chiamali mongoloidi all’antica, Down alla nuova, o trisomici alla scientifica: la realtà non cambia col nome — dopo la scuola o l’istituto specializzato, dopo, che possono fare?
Gianni lavora in una pizzeria, mi avevano detto, vacci a parlare.
Ma è un lavoro protetto? avevo domandato.
Bé, un po’ sì, la pizzeria è della sorella.
Ah, è della sorella.
La sorella è un tipo pratico, deciso, cordiale eppure senza tanti complimenti.
Il locale è ben messo; Pizza Rustica, dice una bella insegna fuori. Per pagarlo bisognerà lavorare sodo. Lavorano sodo. Si sentono dalla cucina rumori di teglie, di sportelli, di stoviglie, e di tanto in tanto Gianni sbircia dalla tenda, uno strofinaccio, una scodella in mano.
L’hanno avvertito che veniva uno a parlargli, a fargli le fotografie. Perciò è tutto emozionato, mi dice la sorella.
«Si sente importante». Dal tono si capisce il misto di affetto e di durezza adottato, spontaneamente o per ragionamento, con Gianni.
Io lo tratto normalmente — spiega — non come un malato. Fa più o meno le ore che facciamo noi. L’ho assunto in regola e il suo lavoro lo fa.
E quando si stanca, rifiuta?
Sente la stanchezza come noi. Noi reagiamo e andiamo avanti. Lui dice «Sono stanco» e si siede. Io allora lo strillo e Gianni si rimette a lavorare. Vedo che se lo trattiamo da grande, si comporta da grande, migliora. Quando sta con i bambini o lo trattano da bambino, regredisce. Ne sono quasi sicura.
Certo, abbiamo cominciato a dargli i lavori più semplici: pulire, lavare, tritare la mozzarella. Ci mette un po’ più di tempo, ma impara. Ora sa anche tagliare i funghi e stendere la pizza bianca, che può anche essere stesa poco uniforme.
E quando sbaglia?
Sbaglia, sbaglia! Io lo sgrido e piano piano impara. E come reagisce?
Bé, resta mortificato. Prima «ci marciava», io dico, si irrigidiva tutto. Dopo quella volta dei polli non l’ha più fatto.
Com’è stata quella volta dei polli?
Erano appena tirati fuori dal forno, e quando sono caldi sono delicali. Levandoli dalla teglia, Gianni li ha rotti, anche perché non sa dosare la forza. Mi è venuto da piangere quando li ho visti. Lui ha capito e ha accennato a irrigidirsi. «Non ti azzardare» gli ho detto. «Sai che sei in torto. Tu devi fare solo quel che sai fare, quello che ti dico io!». Da quel giorno non ha più avuto di quegli attacchi.
Mi convince il suo ragionamento. Porta il fratello con sé; gli insegna a mano a mano i lavori; lo tratta da grande, anche in modo brusco, ma con attenzione.
Gianni viene al lavoro da solo anche se ci sono due strade da attraversare e mamma vorrebbe accompagnarlo. E’ meglio di no, dice la figlia decisa.
Ogni sera prende la sua paga; non molta, in proporzione al lavoro, e impara il valore del denaro: non è facile. Da principio, ha protestato quando gli ho dato un biglietto da 5000 invece di tre da 1000.
Mi sembra giusto il progetto della sorella; tuttavia è ben facile essere d’accordo con l’educazione non tenera degli altri, specie quando hanno capacità ridotte di far sapere quel che essi ne pensano.
Io voglio parlare bene
Gianni, sei contento di stare qui?
Sorride dolcissimo, bello — lo dico senza finzione.
“Tanto tanto tanto”, risponde, portandosi le mani al petto come un attore di filodrammatica.
Una volta ancora mi sorprende in queste persone la capacità di esprimere gioia e tenerezza, in modo spontaneo che, a noi vincolati dalla nostra cultura a mostrar meno possibile dei nostri sentimenti, appare recita da mimo; invece è modo autentico.
Che ti piace fare?
“Io piace funghi, lavare piatti, teglie; faccio pomodoro, faccio cucina, tutto, tutto”.
Capisce bene. Parliamoci chiaro, non ne ho visti molti di bell’aspetto, sciolti nei movimenti, vivaci, affettuosi, come Gianni.
“Vita mia piace qua. Posto mio qua. Voglio bene tanto”.
Vuoi bene a tua sorella? E’ una domanda più subdola di quel che sembri: cerco qualche reazione alle durezze ai rimproveri.
Il gesto delle mani, il sorriso radioso, su e giù della testa, il «tanto, tanto, tanto» dopo il «voglio bene». Sono chiarissimi, senza riserve, con l’enfasi del comico ma veri.
“Io sento felicità in questo lavoro. Tutti, i fratelli, presenti, sono contenti e mi vogliono bene”.
Uno così felice, non è “troppo” felice? Viene il sospetto che tanta felicità venga dal non capire.
Ma Gianni esprime anche tristezza. La più grande è il modo di parlare di cui si rende conto. Si vede che le idee gli premono dentro, spingono per essere espresse, ma escono solo poche frasi lente e impacciate che cerca freneticamente di arricchire con i gesti, con i sorrisi, con le smorfie di tristezza.
“Io dentro le parole trovo. Ma parlo male” – dice desolato, scuotendo la testa. E quando mi dice che va in chiesa “A che fare” – gli domando.
“A pregare Gesù”.
“E che gli dici?”
“Io voglio parlare bene”.
Questa passione per parlar bene entra nella seconda tristezza di Gianni. «Io sono bravo ragazzo, io divento bravo, io so parlare, io piace ragazza. Sono grande, ho ventidue anni, io mi sposo. Io vado via. Famiglia mia».
E ci mette ansia e nello stesso tempo un senso di necessità, di sicurezza. Elenca con l’espressione di un programma preciso, sicuro, che fa stringere il cuore di chi ascolta, perché viene il pensiero che probabilmente questo non sarà mai: peccato perché Gianni è capace di cura, di gran tenerezza, di allegria, di affetto profondo.
La tristezza, la faccia contratta, le mani sul petto, vanno via presto. C’è da tritare la mozzarella. Di nuovo il bel sorriso: «Io piace fare la mozzarella». Gianni si alza svelto, prende le mozzarelle dal frigo, mette in funzione il tritatore. Riprende il suo lavoro, efficiente, con la soddisfazione di mostrarlo. ■
Sergio Sciascia, nasce a Torino nel 1937 ma si trasferisce a Roma con la famiglia pochi anni dopo. Fin da piccolo manifesta una spiccata passione per lo scrivere e per il capire le cose che lo circondano, e di questi due aspetti farà il mestiere di una vita. Una collega, amica della primissima Fede e Luce romana, mette in contatto Sergio con Mariangela Bertolini e con l’idea di trasformare il ciclostilato “Insieme”che legava le poche comunità italiane di Fede e Luce in qualcosa di più. Era l’autunno del 1981. Nasceva Ombre e Luci e Sergio accettava di esserne il direttore responsabile.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.4, 1984
SOMMARIO
Editoriale
"Il mio bambino con la sindrome Down" di Mariangela Bertolini
Dossier: Trisomia 21
Trisomia 21 di Jerome Lejeune
Saverio di Marie N. Lauth
Quando la vita è così difficile di Gilberte Roger N.
Andrea a scuola di Anna Bernardi
Quando sono adulti di Jean Vanier
Il lavoro di Gianni di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo Aperto n.4
Vita Fede e Luce n.4
Libri
La debilità mentale, Autori vari
I giullari di Dio, Morris West
Meb, pittore gioioso, Marie-Luise Eberschweller